Simboli e feticci

Il giorno dopo la finale dei campionati europei, pur sempre una partita di calcio in fondo, i mass media sardi enfatizzano in particolare la delusione dei sardi per la sconfitta della nazionale italiana. Delusione e tristezza che difficilmente le stesse persone in Sardegna sono abituate a provare per questioni decisamente più vicine a loro e più concrete.

Il problema però non si risolve sbertucciando i sardi “colonizzati” che si prestano ad adorare i simboli dei loro colonizzatori. Questo atteggiamento suona banalmente antitetico, ma sullo stesso piano, rispetto al fenomeno contro cui ci si scaglia. Non si può ridurre la questione semplicemente a uno scontro tra tifoserie.

La riscoperta della propria italianità in occasione delle partite di calcio della nazionale italiana per tanti sardi risponde a una esigenza molto umana, che evidentemente essi non riescono a soddisfare altrimenti. La necessità di simboli e narrazioni in cui riconoscersi e appunto identificarsi non è una caratteristica solo sarda, bensì appartiene alla nostra intera specie. Non è un’invenzione contemporanea, non è un prodotto del marketing. Caso mai il markenting se ne serve per i propri scopi.

Sappiamo che di simboli e di narrazioni abbiamo bisogno, insomma. In mancanza d’altro, e soprattutto a causa della potentissima sindrome da figli di un dio minore di cui soffrono ancora molti di noi, sentirsi partecipi a eventi relazionali collettivi, con connotazioni culturali ulteriori rispetto al banale significato sportivo, in cui noi sardi non siamo più né “speciali” né “diversi”, è anche un modo per riappropriarci di una soggettività altrimenti scissa e dispersa, problematica, ansiogena.

La risposta a queste esigenze profonde non può essere la polemica o l’insulto. Nella maggior parte dei casi non basta nemmeno un attegiamento critico di tipo dialettico, disposto alla spiegazione. Di lezioni non ne vuole sentire nessuno. Tanto meno se riguardano una cosa che dovrebbe servire a distrarsi e a liberarsi dai patemi quotidiani come il tifo calcistico.

La risposta deve essere più meditata e più profonda, per incidere sulla necessità antropologica cui il tifo dei sardi per la nazionale italiana offre un sollievo. E deve rassegnarsi alla pazienza.

I sardi mancano di simboli e di un mito proprio in cui riconoscersi. È un vuoto che non può rimanere tale e che viene colmato con quel che si trova. Se si vogliono scalzare i simboli e gli elementi mitologici che riempiono tale spazio, bisogna proporne degli altri, possibilmente più efficaci nel suscitare identificazione.

Non è un processo facile e in Sardegna si scontra con un apparato di controllo e manipolazione delle coscienze che lavora sempre a pieno regime. Basti vedere come le notizie sullo sconforto sardo per la sconfitta della nazionale italiana siano affiancate da quelle per la visita del presidente della repubblica e di quello del consiglio a Caprera, per l’inaugurazione del nuovo compendio garibaldino. Anche qui la macchina della crezione dei feticci è all’opera con tutta la sua potenza. Un elemento mitologico a noi estraneo come l’epopea umana e politica di Garibaldi viene continuamente spacciato come un tassello fondamentale della identificazione dei sardi nella storia italiana. Una operazione di acrobazia narrativa veramente notevole. Eppure – sembrerebbe – efficace.

Efficace, appunto, perché si presta meravigliosamente a rispondere a una domanda di identificazione altrimenti – di suo – molto problematica, senza grandi risorse a proprio favore: quella dei sardi nell’Italia. I sardi, addestrati a pensarsi insufficienti a se stessi, hanno bisogno di riconoscersi in qualcosa di più grande e significativo. Per esempio, nella storia italiana (quella dei libri di scuola) e, della storia italiana, nella pagina gloriosa del Risorgimento. Aver fornito – del tutto involontariamente – il luogo d’esilio a uno dei protagonisti di tale vicenda sembra bastare, ai nostri palati non proprio fini.

Nazionale di calcio e Garibaldi sono delle risorse solo apparentemente inconsistenti per favorire l’acquiescenza delle nostre coscienze verso una situazione storica e politica altrimenti troppo chiaramente penalizzante, dunque insopportabile. In realtà hanno tutte le caratteristiche per essere difficilmente contrastabili. Sollecitano alcuni dei nostri istinti fondamentali, consolano delle nostra paure, forniscono risorse retoriche (quindi, narrative) a cui attingere per sentirsi parte di qualcosa di importante.

Per capire quanto siano potenti tali strumenti, basti riflettere sulle plausibili conseguenze culturali (ed anche politiche) che avrebbe l’allestimento di una selezione di calcio sarda, di una nazionale “nostra”. Che corto circuito avverrebbe nella percezione di sé di tanti sardi che oggi sono sinceramente tristi per la sconfitta della nazionale italiana? E al contempo investire il nostro patrimonio storico, i nostri luoghi, i personaggi della nostra vicenda collettiva della stessa enfasi con cui si trattano Garibaldi, o il Rinascimento e gli altri elementi fondativi del mito nazionale italiano, quanto spazio toglierebbe a questi ultimi e quali conseguenze avrebbe nei nostri processi di identificazione?

Il giorno prima della finale degli europei, sabato 30 giugno, ricorreva il 603esimo anniversaro della battaglia di Sanluri, evento considerato simbolicamente decisivo nella sconfitta dei sardi nella lunga guerra contro i catalano-aragonesi, da cui il corso della nostra storia sarebbe stato tanto pesantemente condizionato. Non risulta che i mass media sardi abbiano dato alla ricorrenza la minima visibilità. Non se n’è parlato affatto. E questo è solo un esempio della rimozione sistematica di noi stessi in atto da generazioni.

La stessa cosa si potrebbe infatti dire, in generale, a proposito della mala gestione del nostro patrimonio storico-archeologico, di cui il programmato smembramento del complesso monumentale dei Giganti di Monti Prama e il loro dislocamento altrove rispetto al loro luogo di origine è solo l’ultimo, scandaloso esempio.

Il lavoro da fare dunque è difficile. Si tratta di rivelare la natura feticistica dei simboli in cui tanti sardi ancora si riconoscono, smascherando i reali rapporti di forza che nascondono, la loro natura di strumenti di controllo sociale e politico. Ma a ciò si deve aggiungere una dose massiccia di simboli e elementi mitologici più nostri, più aderenti alla nostra vicenda storica, in cui poterci identificare senza troppa perdita di senso. Ed a questi vanno affiancati ulteriori elementi di identificazione popolare che non abbiano necessità di una mediazione complessa, come appunto quelli sportivi.

In quest’ultimo ambito siamo molto lontani dal raggiungere qualcosa di efficace. Lo stesso Cagliari Calcio sembra gestito apposta per evitare che diventi un elemento di disturbo della narrazione dominante, al contrario di quanto accade all’estero (basti pensare all’Athletic Bilbao per i Paesi Baschi, per dire), senza pardere al contempo la sua funzione di strumento normalizzatore.

Non tener conto di questo livello del discorso, della sua complessità, non consentirà di smontare il meccanismo della dipendenza insito nei simboli e nella narrazione in cui la maggior parte dei sardi si riconosce. Non basterà certo snobbare le manifestazioni del tifo calcistico sardo pro-Italia, o etichettare chi lo fa proprio come servo sciocco. L’intervento deve essere più profondo e duraturo e nessuno si illuda che sarà facile. Eppure è una delle nostre priorità.