Qualche giorno fa, a Uri (SS), si è tenuto un interessante convegno a proposito della questione linguistica sarda. Di tanto in tanto anch’essa riemerge alla superficie dell’informazione di massa. D’altronde, la discussione pubblica sul tema è sempre in agenda, sia pure in modo carsico, nonostante sembri poco rilevante in confronto agli altri problemi del nostro presente.
Niente da dire sull’iniziativa in sé e onore al merito di Arvada (la “Consulta pro sa limba e sa cultura sarda” messa su dai comuni di quella zona), che ha organizzato l’evento. Mi ha colpito invece che in quella sede la questione linguistica sarda sia stata associata alla unificazione politica italiana. Questo sì è degno di nota, e spiego subito il perché.
Prima però riporto – attingendo dalle cronache – le dichiarazioni di uno dei relatori, Dino Manca, docente di Letteratura e Filologia sarda all’Università di Sassari:
«Già dal Medioevo il ruolo esercitato in Sardegna dal toscano, e in minor misura dal genovese, fu fondamentale. Si accelerò quel processo di differenziazione dialettale fra nord e sud dell’isola (logudorese e campidanese) con la formazione, nel Medioevo tardo, dell’individualità sassarese, nata dal contatto fra logudorese e toscano-genovese. […]Dentro il controverso processo di unificazione e di integrazione [italiana, nota mia] che condizionò i rapporti tra la letteratura in lingua sarda ed in lingua italiana, furono gli artisti e i poeti a farsi interpreti raffinati di un passaggio così difficile, e promotori di una rivalutazione della propria storia e della propria lingua. Molti lo fecero contaminandosi, costruendo reticoli di relazioni con i pittori e i letterati delle molte Italie. Due casi emblematici: la nuorese Grazia Deledda e il sassarese Pompeo Calvia. […]La prima scelse l’italiano, il secondo il sardo. L’opera di molti poeti e scrittori che, come Calvia, scelsero la lingua sarda si collocò, a partire dal complesso universo antropologico sardo, in quella temperie culturale che tentò con difficoltà, tra Ottocento e Novecento, di recuperare significato e funzione di una dialettalità diffusa.»
Cosa c’è di significativo in questi passaggi? Apparentemente, nulla di nuovo, nella sostanza del discorso. Ma non è tanto la sostanza, qui, a essere significativa (anche quella, in realtà), quanto la sua impostazione. La premessa dell’intera costruzione teorica, benché implicita e in qualche modo nascosta, è che la Sardegna sia sempre e comunque, in modo storicamente indubbio, tributaria verso l’ambito storico e culturale italiano, cui dunque è doveroso rifarsi, per spiegare e dare conto dei fenomeni culturali, letterari ed anche linguistici nostrani.
Ecco dunque l’enfasi posta sull’apporto – non a caso definito fondamentale – dei volgari pisano e genovese alla lingua parlata dai sardi nel Medioevo. E per che cosa sarebbe stato fondamentale? Niente meno che per sancire definitivamente la separazione linguistica dei sardi (tra “logudorese” e “campidanese”). Divisione linguistica che ovviamente non è neutra, coinvolgendo tutto l’apparato simbolico, l’armamentario mentale e la percezione di sé di chi quella lingua la usava. È evidente il nesso con le teorie che vedono i sardi non come una collettività umana a sé stante, con le sue articolazioni e complessità interne ma storicamente riconoscibile, bensì come un conglomerato poco coeso di etnie, culture, appartenenze inconciliabili.
L’ambiguità è tanto più grande e pericolosa, in quanto si fa poi riferimento all’uso scritto della lingua. Un uso scritto che viene analizzato e spiegato, nelle sue dinamiche storiche, all’interno di un contesto politico che si assume come dato: l’appartenenza della Sardegna all’Italia. Niente di più conseguente che parlare di “complesso universo antropologico sardo” e di “dialettalità diffusa”. Noi siamo una parte periferica, certo specifica e “speciale”, ma “dialettale”, di un ambito culturale e politico più ampio, da cui trarre senso: questo è l’assunto inespresso che sorregge tutto il discorso. L’unificazione politica italiana e la definitiva sanzione della nostra dimensione regionale avrebbero dunque semplicemente conferito una formalizzazione giuridica a tale appartenenza.
Vorrei suscitare un minimo di attenzione su queste categorizzazioni, sul loro senso e sulle loro connotazioni. Il pasticcio nasce dallo sguardo con cui si osservano i nostri processi storici e gli stessi eventi, gli epifenomeni, le risultanze fattuali che li accompagnano e li esprimono. Uno sguardo “regionale” non potrà che leggere tutta la nostra vicenda – compresa quella linguistica – attraverso la lente di una appartenenza subordinata e dipendente. Il che è una vera e propria falsificazione ideologica spacciata per verità storica. Falsificazione abbastanza in voga presso le università sarde (penso ad esempio alle tesi sull’”italianizzazione primaria della Sardegna” di Loi-Corvetto: La Sardegna, in AAVV., L’italiano nelle regioni, Torino, 1992-4, I vol.), ma non solo presso le università.
Ancora, sempre ad Uri, Giovanni Lupinu, docente di Glottologia e Linguistica all’Università di Sassari, ha spiegato che «in Sardegna, stando ai dati Istat del 2006 abbiamo un’italofonia esclusiva più alta, in valore percentuale, rispetto alla media del paese: siamo al 52,5%. Se scorporassimo il dato per fasce di età, si vedrebbe molto chiaramente come le generazioni più giovani tendano a sempre più a esprimersi soltanto in italiano», scoprendo un po’ l’acqua calda.
L’italofonia in Sardegna ha forse un tasso più alto che nell’Italia propriamente detta. Ma quanto è significativo, questo dato, e quanto invece è inficiato dalla scarsa chiarezza delle sue premesse teoriche e metodologiche? La lingua italiana – benché artificiale e imposta e solo di recente affermatasi come lingua di prima socializzazione – ha comunque a che fare col sistema linguistico storico, variamente articolato a livello locale, che già Dante aveva individuato come unico dalle Alpi alla Sicilia. Tenendone fuori i sardi, però. Chissà perché Dante non segnalava alcuna italianizzazione primaria della Sardegna. Eppure era contemporaneo di questo (presunto) fenomeno e la Sardegna non gli era sconosciuta, se non altro de relato, per le testimonianze che ne riceveva personalmente da chi l’Isola la frequentava e vi aveva interessi (un nome su tutti: Nino Visconti, ultimo “giudice” di Gallura).
In realtà non c’è niente di strano che presso una popolazione cui si è imposta una lingua straniera, a certe condizioni storiche (monolinguismo assoluto nella scuola e nei mass media, discredito ideologico e simbolico sulla lingua locale, ecc.), corrisponda una competenza linguistica alta nella lingua dominante. Inoltre le possibilità di interferenza linguistica sono molto più facili e più comuni, non solo spontanee ma più “mimetiche”, tra le lingue italiche e l’italiano che tra il sardo e l’italiano. È difficile (e ridicolo, quando accade) sovrapporre e mescolare due sistemi linguistici così distanti come il sardo e l’italiano ed è a lungo stato “sconveniente”, indice di grettezza e di “ignoranza”, ostinarsi a esprimersi in sardo al di fuori delle relazioni intime, familiari o amicali. In conclusione, tendenzialmente, quando i sardi parlano in italiano, parlano in italiano (nell’italiano “regionale”, chiaramente), che spesso e non per scelta è anche l’unica lingua rimasta loro a disposizione. Di cosa dovremmo stupirci o addirittura gloriarci, dunque?
Quanto alla tendenza del crescente abbandono delle lingue sarde a favore dell’italiano, anche qui più che farcene un vanto (e spero non fosse questo il senso delle parole di Lupinu), dovremmo preoccuparcene. Il monolinguismo non è un impoverimento meno pericoloso se si fonda sull’italiano anziché sul sardo.
Anche qui sono evidenti i sintomi di una patologia grave e foriera di conseguenze che esulano dall’ambito in cui essa si sviluppa. Perché tutto si tiene, tutto è collegato. Una visuale distorta su un ambito così critico come quello linguistico e socio-linguistico non può essere esente da gravi conseguenze anche in altri ambiti. E lo sguardo storto attraverso cui leggiamo la nostra vicenda storica collettiva non ha ricadute solo negli strafalcioni storiografici di tanti manuali e di tanti autorevoli interventi nei convegni o sulle pagine dei giornali. Le ricadute sono anche politiche, culturali in senso ampio, e persino economiche e sociali. Perché la subalternità e la sudditanza sono malattie che si diffondono, mutando la percezione di sé nel mondo e portando ad accettare condizioni di vita, scelte politiche e situazioni materiali che altrimenti risulterebbero totalmente ingiustificabili e inaccettabili.
Ovviamente c’è chi tra noi da questa condizione trae dei vantaggi, altri la accettano e vi costruiscono dentro il proprio bozzolo insonorizzato, sperando di sopravvivere indenni dalle scosse della storia. Ma, come collettività storica, quanto e a quanti conviene?