A volte si rimane nel vago, segnalando l’incompatibilità strutturale degli interessi e dei bisogni dei sardi con gli interessi perseguiti dallo stato italiano. Ma se si va sul concreto i termini della questione appaiono decisamente più chiari.
Prendiamo un ambito sempre un po’ sacrificato, quello della scuola. Dico sacrificato riferendomi sia al dibattito pubblico sia alle scelte politiche. Si tratta invece di un tema fondamentale e decisivo, cui non solo andrebbe rivolta più attenzione di quella che riceve, ma dovrebbe essere in cima alle priorità di una classe dirigente degna di questo nome.
In che situazione si trova la scuola in Sardegna? Be’, i dati a disposizione sono a dir poco drammatici. L’inizio del nuovo anno scolastico ha trovato le cose peggiori di come le avevamo lasciate. E non era facile! Il disimpegno del governo italiano è ben noto, del resto, ma ad esso si accompagna una passività remissiva del governo regionale che definire colpevole è già una concessione.
Le condizioni dell’infanzia e dell’adolescenza in Sardegna non sono affatto degne di vanto. Lo ricorda Lilli Pruna in un suo pezzo recente (dal quale prendo spunto), enumerando alcuni dati spaventosi. Quello che mi colpisce molto è relativo alla percentuale di ragazzi tra i 18 e i 24 anni che non hanno conseguito un titolo superiore alla licenza di terza media e stanno fuori da qualsiasi percorso scolastico o formativo: 23%. Un quarto dei nostri giovani è privo di strumenti critici e di nozioni di base e non è inserito in alcun percorso di vita che consenta un recupero di almeno una parte di questi elementi decisivi nella vita di una persona. Un impoverimento della collettività ingiustificabile e patogeno, fonte di ulteriori impoverimenti.
Questo dato va di pari passo con quello – sempre altissimo – della dispersione scolastica e quello, in questo caso pericolosamente basso, della percentuale di laureati sulla popolazione. Un quadro desolante, che non lascia presagire nulla di buono per i prossimi decenni, dato che questa massa di persone, oggi giovani e giovanissime, tra qualche tempo saranno adulte, dovranno assumersi responsabilità dirette nella propria vita e nell’ambito della collettività cui appartengono o cui sceglieranno di appartenere.
Tanto più è drammatica la nostra situazione, quanto meno si intravvede una volontà politica di porvi rimedio. È qui che entra in gioco un dissidio non ricomponibile tra Italia e Sardegna. Al di là della pessima gestione politica degli ultimi vent’anni, dedicati a depotenziare e infine a disarticolare la scuola pubblica e l’università, bisogna sempre tenere presente che le necessità di fondo della Sardegna non possono trovare soddisfazione in ambito italiano. Per il semplice fatto che siamo un’isola lontana, con caratteristiche geografiche, geomorfologiche, demografiche, sociali e culturali a sé stanti. Non solo dunque è impossibile che l’Italia (posto che avesse disponibilità finanziarie che non ha) decida di investire in Sardegna in infrastrutture materiali e immateriali, relativamente all’ambito educativo, scolastico e accademico; ma – ancora più a monte – c’è la necessità, qualora tali investimenti fossero possibili, di pensarli e gestirli dal basso, dal territorio, a partire dalle esigenze effettive, con un approccio bottom-up del tutto inverso rispetto a quello top-down cui da 250 anni siamo stati sottoposti.
Ciò però significherebbe che la classe dirigente e politica sarda si è finalmente affrancata dalla tutela dello stato italiano e ha preso in mano la situazione. Cosa che palesemente non solo non è vera, ma non si intravvede nemmeno all’orizzonte.
Eppure già adesso, con gli strumenti giuridici in vigore, sarebbe possibile progettare un sistema educativo, una scuola e una università a nostra misura, pensati in nome del nostro interesse collettivo e gestiti con le nostre risorse. Invito a riflettere sulla deprivazione che comporta continuare a rinunciare alle imposte che ci spetterebbero di diritto (vertenza entrate) e non studiare i termini legali tramite cui trattenere in Sardegna le accise sui prodotti petroliferi. Si tratta – come è facile comprendere – di questioni di volontà politica, non di ostacoli teorici o tecnici insormontabili.
Ma la volontà politica deve fondarsi sulla consapevolezza di quali siano gli interessi prioritari e avere uno sguardo che veda la Sardegna e i sardi come soggetto politico di riferimento. Uno sguardo di dignità e di responsabilità ben lontano dallo spirito subalterno e servile di chi oggi occupa i posti di potere e le sedi delle decisioni riguardanti la nostra collettività. E – bisogna pur dirlo – lontano anche da una sensibilità diffusa, per la quale noi stessi non siamo dei cittadini a tutto tondo ed è già tanto se meritiamo il sostegno altrui, senza che ci sentiamo chiamati in causa direttamente: mentalità dominante in larghe fasce sociali in Sardegna e perpetuata sistematicamente dalla maggior parte delle agenzie formative (università in primis), dai mass media e dagli stessi sindacati.
Se fallisce il sistema scolastico e formativo non sarà solo questione di insegnanti e personale ATA che perdono il posto di lavoro, o di aule più fatiscenti, o di servizi più poveri o assenti, o di intere comunità private di un plesso scolastico. Se fallisce – come sta fallendo – il sistema scolastico e formativo stiamo fallendo noi, adulti di oggi, e stiamo condannando al fallimento, alla subalternità e all’esclusione i nostri figli e nipoti. Se questa non è un’emergenza prioritaria, vorrei sapere quale lo sia.
La risposta a questa domanda da parte dell’attuale classe dominante sarda, impegnata com’è a progettare campi da golf e scempi del territorio, potrebbe però essere deludente, se non proprio disgustosa: consideriamola dunque una domanda retorica. Nel frattempo, potremmo provare finalmente a pensarci tutti come classe dirigente, senza deleghe o complessi di inferiorità, e cominciare a fare scelte diverse e decisive per il nostro futuro.