Il 27 gennaio è la Giornata della memoria, come si sa. Una ricorrenza che, fin dall’inizio e poi, nel corso degli anni, sempre di più, ha perso il suo possibile senso emancipativo e democratico per diventare un evento ipocrita, con preoccupanti tratti reazionari e manipolatori.
Ricordare l’apertura dei cancelli di Auschwitz ad opera dell’Armata Rossa (e non degli Americani, che Atena vi fulmini!) poteva e doveva essere un modo per mantenere viva la consapevolezza collettiva sulle tragedie del passato e anche un ammonimento affinché non si ripetano.
Invece questa giornata è stata reinterpretata in modo da funzionare bene come a) detergente della cattiva coscienza dei troppi fascisti e para-fascisti italici, b) strumento di propaganda sionista, c) fonte consolatoria della propaganda sciovinista italiana, con l’elemento decisivo del mitologema tossico “italiani, brava gente”.
Oggi si può serenamente celebrare il 27 gennaio e giustificare la politica genocida del governo israeliano senza avvertire alcun attrito. E, se lo fai notare, il reprobo sei tu. Come se la radice di qualsiasi genocidio, di qualsiasi razzismo e colonialismo, non fosse la disumanizzazione e la colpevolizzazione delle vittime, che si tratti dei nativi americani, degli armeni, degli ebrei europei, degli ucraini, dei palestinesi, dei curdi e via elencando.
È doloroso vedere come anche molte persone con una dichiarata propensione politica di sinistra cadano facilmente nelle trappole di cui è disseminato il dibattito pubblico attuale.
Pochi giorni fa, nel corso di una manifestazione di solidarietà col popolo palestinese, ho sentito scandire questo slogan: “Dall’Ucraina alla Palestina, NATO terrorista, NATO Assassina!”. Il significato sarebbe che l’Ucraina è uno strumento della NATO mentre la Palestina ne è una vittima. Da notare che la NATO ha poco a che fare con entrambi i conflitti, a differenza dei governi di alcuni dei paesi che ne fanno parte.
Sia chiaro, sono situazioni e contesti diversi, con basi storiche e fattuali differenti; ma in entrambi i casi agiscono le propensioni colonialiste e razziste di uno stato e del suo governo ai danni di un altro popolo. Se non si è in grado di vedere nemmeno questa realtà così evidente, non è nemmeno possibile affrontare il discorso.
Questo tipo di fraintendimenti fa capire quanto sia complicato basare le proprie opinioni e le proprie posizioni politiche sul guazzabuglio di informazioni o pseudo-informazioni da cui siamo costantemente bombardati.
Vorrei avere sotto mano qualche indagine ben fatta sul tema, ma a naso direi che le opinioni pubbliche dei paesi “occidentali”, sedicenti depositari della democrazia liberale (l’unica vera, sembrerebbe), non sono molto meno manipolate delle opinioni pubbliche dei paesi non occidentali e – ne discende – non democratici. Semplicemente i mezzi sono diversi.
Non ho usato a caso il verbo egemonizzare. La pretesa che esista una memoria collettiva sostanzialmente coesa e unanime e addirittura, come si usa spesso dire, una memoria *condivisa*, è appunto solo una pretesa. Che ha dalla sua mezzi enormi per imporsi. La memoria collettiva è sempre e solo il frutto di un meccanismo egemonico.
Ciò significa che, laddove si spacci per condivisa una memoria collettiva su fatti storici e sul loro senso, sta in realtà agendo l’imposizione di tale memoria da parte del gruppo sociale che detiene i mezzi per imporla. Di solito, si tratta dei gruppi sociali che dominano anche le relazioni economiche e politiche.
È una vecchia intuizione di Gramsci, poi approfondita nel corso del Novecento da altri (da Michel Foucault agli studi postcoloniali, giusto per fare pochi esempi) e avvalorata in molti modi nel corso del tempo.
Per questo ha fatto un certo effetto, a chi ancora ha occhi per guardare, la sfilata di grandi padroni delle piattaforme virtuali (che ovviamente hanno dietro di sé meccanismi di produzione e relazioni sociali del tutto materiali) schierati a sostegno della presidenza Trump.
Sia chiaro, non ci sono solo loro, a dettare le agende politiche dei governi “democratici”. L’apparato militare-industriale, i grandi gruppi farmaceutici, i fondi di investimento e i gruppi bancari sono tutti soggetti che hanno un peso enorme sulla politica e dunque anche sui meccanismi dell’informazione e del controllo delle opinioni pubbliche.
Parlare di memoria collettiva o addirittura condivisa è una mistificazione. Lo è sempre, in virtù dei meccanismi fondamentali nella formazione delle idee e nella socializzazione delle conoscenze; lo è tanto più oggi, dato lo strapotere mediatico di chi detiene i mezzi di comunicazione e di chi può usarli per imporre contenuti e cornici narrative.
La memoria può essere collettiva solo in un’accezione ristretta del termine. Ci può essere una memoria di gruppo a livello familiare, di gruppo sociale, a livello di minoranze, a livello locale, quindi in termini estremamente limitati. La memoria è sempre parziale. E la memoria non è la storia.
La storia (o la Storia) è una disciplina di studio e di restituzione degli esiti dello studio che ha una sua epistemologia, un suo metodo, sue regole intrinseche, e risponde – o dovrebbe rispondere – a una deontologia, a una responsabilità verso il pubblico. È una disciplina politica, in quanto riguarda la polis, la collettività, e anche nel senso che ha a che fare con la politica; ma, per essere credibile e utile, non deve rispondere al potere politico.
La Storia può e a volte deve contrastare la memoria. Certo, essendo un fatto umano, ha i suoi limiti e le sue debolezze e non sempre riesce a essere all’altezza del suo statuto epistemologico ed etico. E spesso è oggetto di attenzioni non proprio encomiabili da parte del potere e di chi gestisce i mezzi di comunicazione.
In ogni caso, la distinzione tra memoria e storia va sempre tenuta presente. Sovrapporle, come si fa il 27 aprile, o – con evidenti dimostrazioni controfattuali – il 25 aprile o il 4 novembre o in qualsiasi altra festività basata su fatti storici, è scorretto. Soprattutto quando è il potere a fare un uso politico della storia per confezionare una memoria collettiva posticcia ma “ufficiale”.
Detto ciò, per rispondere alla costante manipolazione delle opinioni pubbliche, ai processi egemonici sottrattivi di conoscenza e consapevolezza, di libertà e di solidarietà, è lecito usare forme di lotta contro-egemoniche.
Nonostante la pervasività e la forza dei meccanismi di manipolazione e controllo, rimangono aperti e in qualche modo vivi spazi di dissenso e di contro-informazione, di dibattito non del tutto inquinato e persino di azione. È sempre più difficile, ma ancora possibile.
È un contesto non privo di contraddizioni, inevitabilmente. Ma, finché sarà possibile esprimere posizioni non allineate con quelle imposte egemonicamente alle masse, finché sarà possibile offrire contro-narrazioni e esempi concreti dissonanti, perturbanti dell’ordine discorsivo e sociale dominante, bisognerà farlo. Con forte spirito critico, perché non abbiamo bisogno di nuove dogmatiche, e possibilmente con una certa dose di immaginazione pragmatica.
Mi consenta Dott. Onnis:
Si era parlato di corto-circuiti e, neanche a dirlo, eccone un altro.
Nel post precedente bacchettava i “compagni” che celebrano l’ascesa di Trump e Putin. Ebbene, in questo post lei usa la stessa logica che obnubila tanti suoi compagni.
Qui vengo e mi spiego: se le democrazie occidentali sono “sedicenti” democrazie, se anche le idee e dottrine che appaiono liberatorie ed emancipative non sono altro che espressioni dei rapporti di forza e dell’egomonia delle classi che detengono il potere economico e politico, non ci si dovrebbe sorprendere se i compagni tifano per guastatori come Putin e Trump che stanno distruggendo l’ordine internazionale attuale. Se le democrazie occidentali sono “sedicenti” e le “sedicenti” idee di progresso una finzione ipocrita per giustificare i rapporti di forza, ben vengano i regimi autocratici che smascherano la finzione della sedicente democrazia occidentale e mostrano il suo vero volto neo-imperialista. Tanto peggio, tanto meglio, per dirindina!
Sentitamente
Non sono d’accordo neanche un po’, e l’ho già scritto parecchie volte qui su SardegnaMondo, argomentando diffusamente. (Lasciamo stare i corto-circuiti, per piacere.)
Nessuna autocrazia, tanto meno se dichiaratamente orientata in senso retrivo e reazionario, può essere meglio delle nostre deboli democrazie. Non intendo seguire quel vecchio conservatore di Churchill, che difendeva la democrazia liberale di stampo anglosassone come la soluzione politica peggiore tranne tutte le altre, e non dirò mai che non c’è niente di meglio della democrazia rappresentativa emersa nella civiltà europea contemporanea. Ma non arrivo certo a dire che solo per questo siamo costretti a cadere dalla padella alla brace. Esistono altri orizzonti e altre prospettive, che molti compagni (parola bellissima che occorrerebbe rispettare e non usurpare) hanno ormai dimenticato. Del resto non dobbiamo nemmeno vincolarci a elaborazioni del passato, almeno dove non siano più consone ai nostri tempi. Possiamo fare tesoro della storia e del pensiero accumulati fin qui e trarne insegnamenti pragmatici da adattare ai giorni nostri e a quelli a venire. Di sicuro, per quanto mi riguarda, l’ondata nera che sta attraversando la civiltà europea non è certo una soluzione desiderabile alla crisi del tardo capitalismo e delle democrazie occidentali, da alcun punto di vista.