Discutere di quello che sta succedendo in Sardegna sulla transizione energetica con interlocutor3 italian3 è difficilissimo, al limite dell’impossibile. Anche quando l’interlocutor3 è persona informata, preparata, magari di sinistra.
Ultimamente sta capitando spesso. Ieri ennesima riprova di questa singolare difficoltà comunicativa. Ho avuto una piccola disputa su X (ex Twitter) con Lorenzo Zamponi, docente di sociologia, contributore della rivista Jacobin. Ne riposto gli screenshot come fonte primaria.
Tutto nasce da un tweet (si chiameranno ancora così?) e da una mia risposta inevitabilmente tranchant e provocatoria (ma non polemica, giuro).
La conversazione è poi continuata così:
E ancora:
La mia risposta all’obiezione è stata questa:
Dopo di che i toni si sono un po’ alzati (colpa mia, come sempre):
La polemica è finita subito, per fortuna, ma non si è sciolto il nodo. Anzi, si è aggrovigliato:
L’abbiamo finita nel seguente modo:
La discussione è durata fin troppo e con i limiti intrinseci del medium usato non era possibile ricavarne altro. I social non sono adatti a discussioni complesse, perché sono concepiti per scatenare la competizione e per regalare dopamina e adrenalina a chi casca nei loro meccanismi infernali, allo scopo di alimentarli. Qua siamo riusciti a non deragliare, ma la questione è rimasta sospesa e non c’è stata alcuna possibilità di sviscerarla per bene, tanto meno di capirsi.
La conclusione di Lorenzo Zamponi, con l’argomento “fine di mondo” dell’autonomia differenziata, è significativa di per sé. Sappiamo che questo argomento avrebbe chiuso la bocca (o fermato le falangi) di qualsiasi interlocutore sardo tifoso del “campo largo” e magari afflitto da sindrome #cds (*cultura di sinistra* in salsa borghese, elitaria, urbana, anti-sarda, soprattutto di Cagliari).
La stessa presidente Todde ha più volte mostrato di credere che questo paralogismo sia giusto. Ma l’autonomia differenziata, per la Sardegna, ha altri significati, rispetto a quelli stabiliti dall’agenda dei vertici italiani di PD-5stelle e paccottiglia-approssimativamente-di-sinistra al seguito.
Non è questo il punto, tuttavia. Il punto è che la questione sarda e la sua manifestazione attuale sotto forma di mobilitazione diffusa contro la speculazione energetica restano difficili da comprendere e prima di tutto da accettare in Italia. Anche per chi si professa di sinistra, magari marxista.
Il marxismo all’italiana è ormai per lo più una liturgia fideistica, non una strumentazione concettuale da applicare alla realtà, mettendone alla prova l’efficacia. La realtà deve piegarsi alla costruzione ideale, non viceversa. Perché avvenga, basta rimuovere dal terreno ostacoli, imprevisti, elementi complessi. Ma così si fa torto precisamente a quello stesso materialismo dialettico a cui in teoria ci si appella come regola di interpretazione universale.
La Sardegna, nel dibattito di sinistra italiano, è un ostacolo, un imprevisto antipatico. Per questo in Italia la questione sarda è largamente misconosciuta e spesso del tutto rimossa. Beninteso, anche per responsabilità del nostro ceto intellettuale, accademico e non. È rimossa perché conviene a tutti rimuoverla. Quando la si contempla, lo si fa con atteggiamento paternalista e condiscendente. Che è un atteggiamento tipicamente colonialista. Ma guai a smascherarlo come tale!
La Sardegna di suo, non può avere una propria consistenza storica e la sua popolazione non ha diritto a rivendicare una sua agency, una sua capacità e volontà di agire. La Sardegna è una porzione periferica, tributaria, arretrata, magari pittoresca e con un mare bellissimo, dell’Italia. Può chiedere tutela, questo sì. Pagandola a caro prezzo. E ricordandosi sempre di essere grata.
La pretesa che, affidando allo Stato la pianificazione e la gestione della transizione energetica, con la Sardegna al servizio del “resto della penisola” ma equamente “compensata”, il problema svanirebbe, suona come una presa in giro alquanto offensiva, se non fosse che è esposta in buona fede (almeno in questo caso).
Lo Stato ha pianificato e sta gestendo precisamente *questa* transizione energetica. Ed è uno dei problemi di fondo della faccenda, come ho avuto modo di puntualizzare nella discussione.
Non esiste un “bene comune” astratto e oggettivo a cui ispirarsi per fare scelte strategiche di questa portata. Nel caso della relazione tra Sardegna e Italia tanto meno esiste in concreto. Prima di tutto per il fattore geografico, sempre eluso. Poi per tutta la pesante stratificazione storica di cui tale relazione è fatta.
Quali compensazioni potrebbe mai offrire lo Stato italiano per far accettare alla Sardegna e a chi la abita il ruolo di fornitrice di energia verso la penisola? La restituzione delle centinaia di migliaia di ettari di bosco tagliati tra Ottocento e primo Novecento? Gli investimenti infrastrutturali mai fatti in 160 anni? La rimozione delle servitù militari e la bonifica dei territori compromessi? La restituzione delle entrate spettanti per statuto alla Regione Sardegna e mai versate? Un risarcimento per tutti i morti sardi nelle guerre italiane? Un altro scudetto del Cagliari?
Ovviamente è un discorso paradossale. Sappiamo bene che lo Stato italiano considera la Sardegna una sorta di colonia oltremarina (Gramsci docet), da sfruttare all’occorrenza, tenendola buona con premi e prebende alla sua classe politica podataria e con discorsi retorici e pacche sulle spalle. Salvo poi tradirsi alla prima occasione (come capitato per esempio al ministro Tajani, solo pochi giorni fa). Le compensazioni non sono proprio contemplate. Posto che siano politicamente e moralmente accettabili.
Insomma, come detto altre volte, non è questione di ostilità preconcetta (o sollecitata da qualcuno, come si sostiene) verso le fonti rinnovabili. Non è nemmeno questione di ignoranza (altro argomento abusato). C’è un elefante bello grosso nella stanza e si continua a non volerlo vedere. A costo di sbatterci il muso o di esserne calpestati.
Il che è un bel guaio, dato che la necessità di ridefinire le forme della produzione di beni e di servizi, la loro distribuzione e disponibilità e dunque, prima di tutto, le forme di produzione e distribuzione dell’energia è la sfida epocale di questo periodo storico. La Sardegna non può essere ancora una volta pedina sacrificabile o oggetto storico a disposizione di scelte e necessità altrui. Pretenderlo è un pensiero squisitamente colonialista. Accettarlo è un delitto storico.
Lorenzo Zamponi si è molto risentito per questo post. Sostiene di aver provato a commentare qui e mi attribuisce una censura che non c’è stata. Per il semplice motivo che il suo commento non risulta mai arrivato.
Però, siccome a quanto pare lo aveva scritto, lo riprendo dal tweet in cui me l’ha incollato, a mo’ di prova della mia subdola volontà censoria, e lo riporto qui, esattamente com’è scritto.
Il tono e il contenuto del commento si qualificano da sé e non depongono a favore di chi lo ha concepito. Ma è giusto dargli spazio.
“essendo favorevole all’eolico, capisco bene le ragioni di chi difende il proprio territorio e che non auspico nessuna imposizione ma un negoziato alla ricerca di una soluzione che sia nell’interesse comune. Che a partire da ciò si faccia la caricatura del colonialista, si insulti e si accusi di rimuovere l’interesse sardo testimonia solo la malafede propagandistica dell’autore. Sono basito di tanta scorrettezza.”
Piuttosto, è dolorosamente confermata l’inutilità o peggio la dannosità delle discussioni sui social. Per le riflessioni su questo tema, rimando a quanto ne hanno scritto negli anni i Wu Ming e al libro di Wu Ming 1 La Q di Qomplotto (Alegre).