Mentre un presidio di poche centinaia di persone cerca di bloccare la partenza dei primi rotori eolici dal porto di Oristano, la presidente Todde incontra a Cagliari l’ambasciatore della Danimarca. Paese che ha grossi interessi nel settore eolico. Sicuramente, una coincidenza. Nel frattempo vengono prosciolti i generali sotto accusa per il disastro ambientale, conclamato, della Penisola Interdetta, a Teulada, e prende piede la sostanziale privatizzazione degli aeroporti sardi, a favore di grossi operatori finanziari internazionali.
In pochi giorni, direi quasi poche ore, si affastellano fatti e circostanze che danno un quadro abbastanza preciso del disastro in cui la Sardegna è precipitata. Non da oggi, beninteso. È un lavorio di diversi anni. Ma è significativo che le accelerazioni più deleterie avvengano sempre con una maggioranza consiliare e una giunta di centrosinistra.
Smontiamo infatti subito una delle argomentazioni principali di chi difende o sostiene apertamente (per ora) la giunta Todde: non è vero che le porcherie a cui stiamo assistendo in queste settimane dipendano tutte ed esclusivamente alla gestione Solinas. In realtà, molte delle peggiori magagne derivano quasi direttamente dal governo della giunta Pigliaru.
Todde e soci ci stanno mettendo del loro. E fin da subito. Altra argomentazione difensiva da smentire: sono in carica da troppo poco tempo, cosa mai potevano fare? Be’, lo abbiamo visto cosa potevano fare (e hanno effettivamente fatto): distribuzione di poltrone e relative prebende, incontri urgentissimi con prefetti e “investitori”, molta comunicazione (a livelli ossessivi compulsivi).
Per altro, mentre monta la rabbia diffusa per l’assalto coloniale all’isola, la macchina della repressione ha già cominciato a dispiegarsi. Ed è solo l’inizio. Tutto il movimento di protesta si trova ora davanti a una scelta difficile: proseguire con le azioni messe in campo fin qui o cercare di fare un salto di fase e dotarsi di un orizzonte politico più strutturato e di una capacità di intervento più efficace? Non è una scelta semplice.
Ma fin qui siamo ancora tutto sommato alla superficie delle cose. I timori e i dubbi che serpeggiano non solo dentro i comitati, ma anche in una fetta crescente della cittadinanza ancora “passiva” non sono campati in aria. La percezione di una minaccia incombente non è dovuta a ignoranza, scarsa informazione, manipolazioni esterne (tutte accuse lanciate dai sostenitori della giunta Todde e da chi ha interessi da giocarsi in questa partita).
Il famoso “popolo” ha degli istinti forti. In Sardegna, poi, siamo abituati alle fregature. Liquidare anche le semplici domande come provocazioni o come sintomi di chiusura (come fatto proprio da Alessandra Todde a più riprese, sia nei social, sia di persona: vedi episodio di Lula) è una scappatoia facile, ma sempre meno credibile.
Nelle discussioni sulla transizione energetica se ne sentono di tutti i colori, è vero. Ma non molto di più che sui mass media più pretenziosi e nell’informazione istituzionale. I dubbi della cittadinanza e le domande che ne scaturiscono sono del tutto legittimi. Al di là del fatto che le risposte a cui si presta fede, in mancanza di meglio, siano spesso frettolose o semplicistiche. Ma le domande non si possono considerare “sbagliate”, né eludere o respingere in quanto tali.
Rendere conto a chi si rappresenta, condividere le informazioni, affrontare il vaglio critico sulle scelte di governo, rispettare e tutelare le minoranze, specie se dissenzienti, sono caratteristiche portanti di qualsiasi idea minima di democrazia. Anche della democrazia liberale occidentale. Almeno a parole.
Il fatto è che la democrazia liberale di stampo occidentale da anni ha finito di essere la realizzazione storica dei diritti, delle libertà, dell’eguaglianza, ecc. ecc. (posto che lo sia mai stata). Direi grosso modo – almeno in termini iconici e simbolici – dai fatti di Genova 2001. Però è ancora in nome di quella che il cosiddetto Occidente pretende di dettare le regole al resto del mondo.
Tra queste regole c’è la grande trovata della transizione ecologica basata sulle dinamiche capitaliste più rapaci ed estrattive, sulla massimizzazione dei profitti, sulle esternalità scaricate su altri. Quel che viviamo in Sardegna è un episodio minimo di un processo molto ampio, che coinvolge paesi e genti, culture e storie collettive, trattandole come mere fonti di valore. Quasi sempre a loro discapito. O come elementi di disturbo da ignorare, se non da eliminare.
Chi promuove o giustifica l’assalto eolico e solare alla Sardegna in nome della transizione ecologica dovrebbe spiegare dove stia il guadagno ecologico per la Sardegna in tutto questo. Cosa mai ci sarà di ecologico nell’espianto o nell’abbattimento di alberi, nello spianamento di colline, nell’occupazione industriale di aree naturali o agricole o storico-archeologiche, nello scempio paesaggistico? E nella negazione di qualsiasi titolarità di diritti e di voce in capitolo in capo a chi i territori coinvolti li abita?
Intendiamoci, le argomentazioni paesaggistiche non sono esattamente le più forti e nemmeno quelle con le connotazioni più gravi. Il paesaggio sardo è alterato e modificato dall’opera umana da millenni. Bisogna però vedere come lo si fa, perché, in nome di cosa, a vantaggio di chi, con quali conseguenze ambientali, sociali e culturali nel tempo.
Non può esserci alcuna vera transizione ecologica senza un profondo ripensamento dei modelli produttivi e distributivi. Uno slogan diffuso a sinistra, a volte in termini critici sulla questione dei mutamenti climatici, suona così: l’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio. È una formula retorica forse efficace in certi ambienti militanti, perché consolatoria, ma che lascia alla fine il tempo che trova. Bisogna fare uno sforzo di fantasia e immaginare un percorso diverso da quello attuale, basato però non su metafisiche dogmatiche bensì su dati di realtà e su possibilità concrete.
Per dire, sostenere oggi che si potrebbe avere lo stesso livello di produzione e di consumi sfruttando solo le fonti rinnovabili è banalmente falso. In generale, nella storia umana, nessuna transizione da una fonte energetica a un’altra è avvenuta prescindendo dalla fonte precedente.
In più, come sostiene Vaclav Smil nel suo Energia e civiltà, alcuni aspetti della nostra forma di produzione industriale sono imprescindibili dal consumo di fonti fossili. È un fatto pratico, ingegneristico e fisico. Gli stessi materiali costitutivi delle tecnologie “verdi” (aerogeneratori di vario tipo, pannelli fotovoltaici, ecc.) non potrebbero essere assemblati e in certi casi nemmeno costruiti, né trasportati, senza il lavoro di un’industria pesante ancora legata a carbone e combustibili petroliferi. E lasciamo per un momento da parte la drammatica faccenda delle terre rare, del litio, del coltan, ecc., o quella dello smaltimento di tutto questo stock di materiale alla fine del ciclo di utilizzo.
Questa gigantesca operazione economica si lega ad altre, come sempre. In Sardegna lo vediamo accadere sotto il nostro naso. L’accelerazione nella privatizzazione degli aeroporti, evidentemente più importante del problema dei trasporti (e non solo per i turisti!), ha il sapore di un cedimento politico drammatico, ma non sorprendente.
Presto sarà tutto privatizzato. Non solo trasporti e infrastrutture, ma anche scuola, sanità, servizi di welfare, beni comuni come acqua e arenili, ecc. ecc. Nella più perfetta applicazione dei deliri pseudoscientifici (ma pragmaticamente reazionari) di Milton Friedman e compagnia cantante, purtroppo per noi ancora largamente in voga presso i ceti dominanti globali e le loro proiezioni istituzionali e accademiche.
La Sardegna è fragilissima, davanti a tutto questo. Non solo perché ha una classe politica mediocre, completamente succube, se non direttamente tributaria, verso questi meccanismi di potere e sfruttamento, ma anche perché le possibili opposizioni sono rimaste piuttosto indietro nell’analisi della realtà e nell’elaborazione di risposte. Compreso l’indipendentismo, prigioniero in una propria bolla autoreferenziale fatta di slogan consolatori, “idee senza parole”, settarismi.
D’altra parte, abbandonare la lotta e lasciare che il vasto movimento di questi mesi si sgonfi, si disarticoli, come sarà inevitabile senza una svolta decisa, sarebbe un peccato. E sarebbe l’ennesima volta che in Sardegna un vasto movimento popolare perde la partita per mancata politicizzazione, per incapacità o per paura di elaborare una strategia generale, per carenza di una leadership all’altezza.
Non va nemmeno equivocato l’oggetto della vertenza. Che non è la transizione ecologia (o energetica) in quanto tale, ma la sua forma, i suoi metodi e i suoi obiettivi attuali. Per questo sarebbe auspicabile un momento di riflessione collettiva, magari in una circostanza predisposta ad hoc.
Il coordinamento dei comitati, prima di arrivare a probabili (e insanabili) spaccature, potrebbe fare uno sforzo di volontà e generosità e provare a lanciare l’idea di un grande raduno in cui ritrovarsi a discutere, studiare, progettare, magari anche fare festa (perché no?). E costituire un vero fronte politico alternativo alla consorteria podataria che si è impossessata da troppi anni delle istituzioni sarde.
Nel frattempo, restano vivi i timori e il senso di oppressione per un futuro incombente che appare tetro, minaccioso. Questo sentimento deve restare acceso, non come fonte di scoraggiamento e nemmeno di facili complottismi, o di cedimenti demagogici, bensì come combustibile di un’indignazione e di una fame di riscatto i cui comburenti devono essere la consapevolezza della posta in gioco, lo studio, la condivisione del sapere e delle pratiche virtuose, la solidarietà.
Se ne saremo capaci, sarà difficile farci ingoiare l’ennesima colonizzazione predatoria. Altrimenti, temo che le prossime generazioni si troveranno ancora più fragili, sparute e disarmate davanti all’eredità disastrosa che avremo lasciato loro.