La mobilitazione popolare, nemico pubblico numero uno (per il potere)

La mobilitazione popolare di questi ultimi anni (contro la speculazione energetica ma anche sulla sanità e su altre partite decisive) colpisce per dimensioni, durata e capacità di resistere alle tante trappole disseminate sul suo percorso. Soprattutto, sconvolge i facili schemi con cui il potere costituito e i suoi portavoce sono abituati a tenere a bada la situazione.

La classe dirigente sarda, provinciale e subalterna appendice di quella italiana, fa fatica a comprendere, prima ancora che a gestire, una situazione per essa inedita. Essendo ignorantissima di storia e avendo perso ogni contatto con la vita reale delle comunità sarde, non trova appigli per affrontare una sollevazione popolare come quella attuale.

In realtà non è inedita affatto. È almeno dalla stagione rivoluzionaria di fine Settecento che la popolazione sarda ciclicamente cerca di reagire, mobilitandosi e agendo come può, contro problemi generali, guai strutturali mai risolti, prevaricazioni speculative e imposizioni dall’alto.

Persino chi fa politica da anni negli ambiti alternativi al Palazzo – indipendentisti, ambientalisti, sinistra extraparlamentare, anarchici, antimilitaristi ecc. – si trova spiazzato dalla natura spuria ma al contempo non ingenua né reazionaria della mobilitazione contro la speculazione energetica. Il fatto è che questo tipo di movimenti di massa ha sempre dei tratti spuri, non ideologicamente omogenei.

Detto tra noi, l’abbaglio leninista da un lato e le scorie idealiste di moltissima parte della sinistra sincera – ossia, non opportunista né venduta -, diffusi anche sul lato indipendentista, presentano il loro conto sotto forma di parziale incomprensione del fenomeno in corso.

Ma questa incomprensione si sposa con la vicinanza e in molti casi con la partecipazione attiva. Invece, dalle parti del Palazzo e negli ambienti dell’informazione e dell’intellettualità “strutturata” il livello di incomprensione è altissimo e l’ostilità profonda.

Basti pensare alle reazioni, ai discorsi e agli argomenti della presidente Todde, in evidentissimo affanno davanti a una realtà che non si aspettava e che già in partenza non conosceva bene.

Abbiamo fatto – giustamente – le pulci al suo predecessore Solinas, oggi non ci si può esimere dal mostrare altrettanta attenzione. Alcune dichiarazioni di Todde sono davvero grossolane e imbarazzanti. Dubito che qualcuno dei suoi predecessori sarebbe incorso in tali “incidenti”. Non senza pagarne conseguenze pesanti.

Non ho seguito la trasmissione televisiva in cui la presidente pare abbia sbagliato sul dato degli abitanti della Sardegna, quindi prendo la cosa con le pinze (pare abbia parlato di 1 milione e 800mila abitanti). Potrebbe essere stato un lapsus o un momento di confusione. Però ho letto e sentito sue dichiarazioni dirette decisamente più gravi.

La sua ricostruzione dell’origine, delle ragioni e della natura dell’autonomia sarda è non solo sbagliata ma anche politicamente aberrante. Intanto Todde dà l’idea di confonderla con l’insularità in costituzione. La trappola diversiva più di successo del decennio evidentemente ha confuso molte menti. Continuare a sostenere che l’autonomia sarda fu una concessione generosa dello Stato alla luce della povertà e dell’arretratezza della Sardegna è un’interpretazione fallace. La più alta carica pubblica della Regione Autonoma Sardegna dovrebbe avere le idee ben più chiare su quell’esito storico, le sue premesse, le sue connotazioni e anche i suoi limiti.

Ma le idee chiare non abbondano nelle stanze del potere sardo. A dispetto della pletora di esperti e consulenti ingaggiati in tutti gli ambiti. “Battere le destre” non è un salvacondotto illimitato per la cialtroneria.

Fa specie che a nessuno, da Todde in giù, sia venuto in mente di coinvolgere tutta questa mobilitazione popolare in un grande momento di democrazia e anche – perché no? – di conflitto con lo Stato centrale. Evitando così una posizione debole come quella in cui si è auto-relegata la giunta Todde. Avrebbe potuto agire forte della spinta di un intero popolo e con ragioni piuttosto robuste, non solo giuridiche e tecniche ma anche politiche e storiche, a proprio favore. Invece, solo timore e avversione malcelata.

La mobilitazione in corso non è facilmente liquidabile come una sporadica e spontanea protesta di incolti o come una operazione artificiosamente messa su da qualche centro di interessi opaco ma potente. Né è facilmente eludibile. A eluderla ci hanno provato. A egemonizzarla e manovrarla anche. Ma credo che lo stesso gruppo Zuncheddu si stia rendendo conto che l’operazione non è così semplice.

Il successo palese della raccolta di firme sulla proposta di legge di iniziativa popolare denominata Pratobello 24 non è dovuto al carisma di Mauro Pili o alla potenza comunicativa dell’Unione Sarda. La maggior parte delle persone che hanno firmato lo ha fatto consapevole dei limiti di quel testo e anche della difficoltà a fargli superare lo sbarramento – già innalzato – dell’attuale maggioranza in Consiglio regionale. Perché l’obiettivo non è il contenuto del testo di legge, bensì la sua natura di strumento di pressione democratica dal basso.

Quella legge non vedrà mai la luce, lo sappiamo. È già successo alla proposta di legge di riforma della legge elettorale, presentata in Consiglio regionale nell’autunno scorso da un vasto schieramento politico e da centinaia di sottoscrittori, presa in carico da pressoché tutto il centrosinistra, salvo poi non depositarla nemmeno (per non correre il rischio che fosse messa in agenda dei lavori consiliari). In questo caso vedremo come riusciranno ad affossarla.

Ma non è importante nemmeno questo. Perché l’aggressione speculativa tocca troppo in profondità le comunità sarde e non basterà bloccare questo tentativo per smontarne le preoccupazioni. Gli stessi sindaci legati ai centri di potere maggiori fanno fatica a prendere posizione netta contro la mobilitazione delle comunità amministrate. In molti casi la stanno appoggiando (per opportunismo o per convinzione, cambia poco al momento).

Non è nemmeno vero che la mobilitazione è il frutto improvviso e avvelenato della disinformazione contro la transizione energetica. Moltissime persone dei comitati che si trovano in prima fila in questa circostanza sono anni che lottano contro questa ed altre forme di speculazione, sfruttamento del territorio, inquinamento.

Da parte dell’ambito indipendentista, per dire, la minaccia della speculazione eolica e solare è stata segnalata almeno da quindici anni fa (insieme alla contestazione dello sfruttamento militare dell’isola e di altre operazioni di natura speculativa e coloniale). Non per ostilità verso le fonti rinnovabili, ma in opposizione appunto all’approccio coloniale che sempre entra in gioco in queste faccende.

Ed è qui che casca l’asino della politica di Palazzo sarda e dei suoi intellettuali organici. La negazione ostinata del rapporto asimmetrico e per troppi versi coloniale tra Stato italiano e Sardegna porta a non comprendere (o a non voler comprendere) la natura delle dinamiche in corso oggi, dunque a misconoscere le ragioni profonde di una protesta generalizzata basata sulla netta sensazione di un ennesimo caso di sfruttamento non contrastato dalla nostra politica.

La trappola discorsiva delle “aree idonee” sta creando dissapori e spaccature nel variegato movimento di opposizione alla speculazione energetica. È abbastanza inevitabile, ma è un errore. La trappola è efficace solo se ci si cade dentro.

Va rifiutata la cornice entro cui Todde e la sua maggioranza vogliono relegare il conflitto con lo Stato, ma al contempo bisogna andare a vederne le carte. Perché è un bluff. La maggioranza che guida la Regione e il Governo centrale fanno un gioco delle parti, ma di fatto legittimano gli stessi rapporti di forza e difendono gli stessi obiettivi.

Non ci si deve spaccare sulla questione “aree idonee sì, aree idonee no”: ci si va a sedere insieme e si vede fin dove arriva la finzione e fin dove sono in grado di reggere la parte. Ma la ragione di fondo della mobilitazione resta comunque del tutto intatta: il destino della Sardegna, non solo in termini energetici, non può essere stabilito da altri, altrove, per soddisfare interessi esterni all’isola. Su *questo* non si deve transigere.

Va benissimo la transizione energetica e va anche bene sfruttare in modo intelligente il vento e il sole di cui l’isola abbonda. Ma è il “come”, il “quanto”, il “perché” e il “per chi” che non possono essere decisi altrove, da altri e in nome di principi astratti (su cui però poi si basano scelte molto concrete).

Io sarei favorevole a fare della Sardegna uno hub energetico. A patto che siano soddisfatte prima di tutto le esigenze del territorio e della popolazione sarda, che alla base di questa scelta strategica ci sia una vasta partecipazione democratica e che il controllo, se non proprio la gestione, del processo decisionale prima e della produzione e distribuzione dell’energia poi siano in mani pubbliche sarde.

Se il Nord Italia ha bisogno di tanta energia e la Sardegna sarà in grado di produrla, niente in contrario a vendergliela. Hanno usato fin qui energia fatta col nucleare francese, col gas russo e col petrolio arabo, un domani la Sardegna potrebbe essere un nuovo fornitore. Guadagnandoci il giusto.

Invece dalle nostre parti non si parla di questo. Non nel Palazzo, di sicuro. Si sono persi almeno vent’anni, ignorando il problema e/o favorendo – più o meno tacitamente e/o intenzionalmente – le speculazioni più rapaci o bubboni parassitari come la Sarlux della SARAS. Diversi studiosi e tecnici, in Sardegna, già molti anni fa si applicavano a cercare maniere di implementare la capacità di produzione da fonti rinnovabili già esistenti o a cercarne di nuove, ma nessun piano energetico regionale ne ha mai tenuto conto. Nessun piano energetico regionale degno di questo nome ha mai davvero visto la luce.

Oggi è tardi, ma non *troppo* tardi. A patto che la politica sarda abbandoni la sua posizione attendista, quasi sempre eterodiretta e subalterna, e si faccia interprete finalmente delle reali esigenze della popolazione che amministra. Senza opacità, senza diversivi, senza ostilità verso le sacrosante mobilitazione dal basso. O così, o si assumerà una responsabilità storica gravissima.

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