Oggi, 24 novembre 2022, su una pagina Facebook dell’associazione ANVGD, si terrà una conferenza dedicata alla Brigata Sassari a Trieste nel primo dopoguerra. La considero una iniziativa molto discutibile e dai risvolti tossici. Spiego il perché.
L’ANVGD è la “prima associazione a carattere nazionale sorta nel 1947, con lo scopo di raccordare e organizzare le decine di migliaia di profughi – italiani autoctoni – provenienti dai territori della Venezia Giulia e Dalmazia”, secondo la loro stessa presentazione.
Detta così, non suona minacciosa. Del resto, in generale, chi può mai discutere il diritto di una associazione di occuparsi di quello che vuole (entro i confini del lecito, naturalmente)? E se un’associazione vuole occuparsi dei profughi italiani della Venezia Giulia e della Dalmazia, non ha la libertà di farlo?
Sono domande retoriche, chiaramente. Forse il problema diventa più evidente quando si precisa che questa associazione è stata protagonista dell’istituzione della Giornata del Ricordo, la risposta di destra alla Giornata della Memoria. Già qui emerge qualche motivo di riflessione.
La Giornata del Ricordo è una ricorrenza istituita nel 2004, nel giorno 10 febbraio. Il 10 febbraio 1947 venivano sottoscritti i Trattati di Parigi, che sancivano la conclusione della Seconda Guerra mondiale. L’Italia è l’unico stato europeo che ha istituzionalizzato questa data. Per capire meglio di cosa si tratta, suggerisco la lettura di questo post (in particolare del punto 1).*
Insomma, l’ANVGD non è solo o tanto un’associazione filantropica, ma anche una macchina politica che fa lobbing sui temi ad essa cari, senza sdegnare prossimità imbarazzanti con l’estrema destra, specie del nord-est, com’è inevitabile.
Come tutte le storie “dal margine”, le vicende del confine orientale italiano sono tra le più illuminanti per capire cosa sia l’Italia contemporanea. In definitiva, cosa sia l’Italia tout court. Quanto a storie “dal margine”, in Sardegna dovremmo intendercene parecchio, del resto.
La connessione tra l’ANVGD e la Sardegna non è solo così generica e astratta. La diretta Facebook di questa sera è organizzata insieme al Circolo culturale “Sardegna” di Monza, una delle tante associazioni della nostra diaspora nel Nord Italia.
Il titolo della conferenza è il seguente: “QUI ATTENDO IL PIÙ BEL BATTAGLIONE DEL MONDO “: la Brigata Sassari nella Trieste liberata (1919-1924). Ossia, si parlerà della presenza della Brigata Sassari a Trieste nel primo dopoguerra. Che è un dato storico, effettivamente, benché pochissimi fuori da Trieste (e soprattutto in Sardegna) lo sappiano.
Cosa ci faceva la Brigata Sassari a Trieste nel primo dopoguerra? Be’, mettiamola così: in quei periodo i meriti dei soldati sardi erano così ben considerati dai comandi italiani, che i reggimenti sassarini furono inviati sui fronti più caldi. Non caldi in senso bellico, dato che ormai la guerra era finita, ma in senso sociale e politico.
A Torino, nel corso del Biennio rosso, gli operai che avevano occupato le fabbriche ebbero a che fare con i fanti della Sassari. In quel caso la presenza di numerosi lavoratori sardi, e soprattutto di alcuni dirigenti sindacali e politici provenienti dall’isola, era riuscita a smontare il dispositivo propagandistico con cui i soldati sardi erano stati convinti di dover contrastare lo “sciopero dei signori”. Le occupazioni e gli scioperi erano stati presentati dagli ufficiali (in primis, dal generale Sanna) come la protesta di una categoria privilegiata, nemica della gente dell’isola. Tra i militanti sindacali e politici sardi che accolsero i sassarini c’era, com’è noto, Nino Gramsci, il cui intervento fu decisivo per convincere i soldati a rifiutarsi di usare le armi contro gli operai.
La funzione della Sassari non fu diversa nella Trieste liberata del 1919-1924. Il confine orientale allora era una polveriera. La stessa Trieste era una città agitata da spinte contrastanti e da una mobilitazione sociale consistente. La narrazione nazionalista, che ne faceva uno dei simboli dell’irredentismo vittorioso e dell’italianità trionfante, non bastava a sedare, e anzi accentuava, i problemi concreti di una popolazione multietnica e attraversata da aspettative emancipative forti.
Il fascismo montante e le forze nazionaliste italiane presero di mira soprattutto la comunità slovena e al contempo il sindacalismo interetnico, che, superando le divisioni alimentate dai nazionalismi, compattava i lavoratori su battaglie comuni. Ne fecero le spese molte famiglie slovene triestine e le loro attività economiche, e soprattutto il Narodni dom, la sede delle associazioni slovene in città, dato alle fiamme il 13 luglio 1920.
Le tensioni furono tutt’altro che smorzate, da questo avvenimento drammatico. I fatti che seguirono videro ad un certo punto l’entrata in scena proprio della Brigata Sassari. In particolare, fu dispiegata, nel settembre di quello stesso 1920, per sedare la mobilitazione popolare che agitava il quartiere operaio di San Giacomo.
Nulla di edificante, come si vede. La Brigata Sassari era usata come forza di ordine pubblico, pronta all’uso, anche con l’artiglieria, contro la popolazione civile. A Trieste non c’era ancora una solida presenza di sardi che potesse fare opera di mediazione e di convincimento, e non c’era sicuramente un Antonio Gramsci.
Ancora oggi, per molte persone triestine, Brigata Sassari è sinonimo di repressione violenta, alla pari delle squadracce fasciste. La Sassari, nella Trieste del primo dopoguerra, fece lì quello che altri reparti del regio esercito avevano fatto in Sardegna nella repressione dei moti operai e popolari tra 1904 e 1906, a Buggerru, a Cagliari e altrove, e ancora in quello stesso 1920, a Iglesias.
Di cosa parleranno, dunque, stasera, nella diretta Facebook in questione? Dal lancio dell’iniziativa, l’intento appare sostanzialmente apologetico. Si rievocheranno le solite storie agiografiche e edulcorate degli eroici “diavoli rossi” sui fronti della Prima Guerra mondiale. Una guerra di aggressione da parte del Regno d’Italia, ricordiamolo, costata centinaia di migliaia di morti e a cui la Sardegna pagò il prezzo più alto. Senza alcun senso.
Da queste considerazioni si può evincere quanto sia pericolosa la combinazione tra le narrazioni reazionarie e ultra-scioviniste portate avanti dell’ANVGD e il mito altamente tossico dell’eroica Brigata Sassari.
Che ancora oggi la mitologia relativa alla Brigata Sassari sia un potente dispositivo di propaganda militarista nell’isola dovrebbe dare molto da riflettere a tutte le persone di buon senso. Tanto più a chi ha la responsabilità di organizzare eventi pubblici e direi in modo particolare alle associazioni della nostra diaspora.
Se è vero che le associazioni dell’emigrazione sarda hanno la libertà di organizzare le loro attività culturali come meglio credono, è anche vero che sarebbe forse necessario porsi il problema di quale immaginario le animi, di quali conoscenze storiche dispongano, di quale sia il grado di consapevolezza con cui rappresentano la Sardegna fuori dall’isola.
Questa circostanza specifica ha una sua dose di gravità che non riesco proprio a sminuire. Soprattutto per il sospetto che ci sia dietro una qualche forma di ingenuità o di insipienza, su cui ha giocato abilmente chi invece le cose le sa, per allestire un’operazione reazionaria.
Più in generale, chiama in causa la natura del nostro associazionismo emigrato, i suoi scopi, la sua funzione. È una questione che ho provato a sollevare già in passato (per esempio qui e qui), con l’unico risultato di sbattere su un bel muro di contenimento a presidio dello spazio di manovra di chi gestisce in Italia l’emigrazione sarda organizzata. Solo che il problema non dovrebbe mai essere chi solleva una critica o anche banalmente delle domande. Se un problema esiste, non c’è verso di farlo sparire semplicemente ignorandolo.
Non è un caso se molta parte della nuova emigrazione, specie quella più giovane e aggiornata, si guarda bene dall’entrare a contatto con le associazioni storiche della nostra diaspora. Il che a sua volta contribuisce a mantenerla in una condizione di stasi e di progressiva regressione culturale.
Tutta materia su cui dovrebbe interrogarsi prima di tutto la nostra emigrazione stessa e anche la nostra politica (se ne avessimo una). Confido che questo intervento non sia preso, come al solito, alla stregua di una provocazione malevola, ma accenda invece qualche scintilla di spirito critico e contribuisca a un dibattito di cui c’è estremo bisogno.
*Ringrazio Wu MIng 1 per avermi rinfrescato la memoria in proposito.