Nel corso dei campionati mondiali di calcio in corso nell’emirato del Qatar un calciatore svizzero segna un gol e non esulta. La squadra avversaria rappresenta il suo stato di nascita. È un fatto apparentemente insignificante che invece segnala un paradosso ormai conclamato del nostro mondo ancora diviso in stati-nazione fuori dalla realtà.
Lasciamo perdere la questione di quanto abbia senso un campionato mondiale di calcio in Qatar. O meglio, teniamola presente, sullo sfondo, perché fa parte dell’assurdità del momento. Non mi dilungo nemmeno sui legami non proprio rassicuranti tra la Sardegna e l’emirato arabo (pure un fatto da non dimenticare).
Vorrei invece aprire un ragionamento su quanto senso abbiano, oggi, gli stati-nazione così come ci sono stati consegnati dai secoli precedenti e su quale possa essere la loro funzione nel presente e nell’immediato futuro, nonché su quale potrebbe esserne la sorte.
Lo sport può aiutare a svolgere una riflessione ancorata non a ideologie e rappresentazioni di comodo, ma alla realtà umana di questi tempi. Le massime competizioni mondiali, di cui il campionato di calcio adesso in svolgimento è una delle più importanti, avvengono tra *stati*. Ci sono organizzazioni sportive internazionali (come appunto la FIFA) che hanno più iscritti dell’ONU. In ogni caso, è l’appartenenza a uno stato a decretare quale “nazione” gli sportivi rappresentino con le proprie prestazioni.
Il panorama sportivo mondiale ci mostra ormai da qualche tempo una composizione piuttosto eterogenea delle rappresentative statali. Le stesse rappresentative italiane – che pomposamente, forse un caso unico al mondo, vengono denominate esplicitamente “nazionali” – recentemente si stanno popolando di atletə di provenienza non schiettamente italica.
L’Italia è stato uno dei paesi europei in cui l’accettazione di rappresentanti sportivi di origine diversa ha fatto più fatica ad essere accettata. L’Italia, a dispetto delle narrazioni vittimistiche e consolatorie dominanti, è uno stato molto razzista. Ma la realtà batte spesso anche le resistenze più accanite e negare la composizione multietnica e multiculturale della cittadinanza italiana attuale sarebbe ridicolo, prima ancora che sbagliato.
Va considerato, comunque, che l’accettazione della multietnicità nelle rappresentative “nazionali” italiane è dipesa più dal calcolo che da una spontanea disposizione culturale. Il movimento sportivo di un paese vecchio e a crescita demografica negativa come l’Italia non poteva ancora a lungo privarsi di forze nuove, specie perché si tratta ormai di persone nate e/o cresciute in Italia, spesso nemmeno di prima generazione, ma di seconda o di terza. E, per quanto possa dispiacere a nazionalisti duri e puri e fascisti vari, esistono anche moltissime famiglie miste.
Personalmente a me suonava già strano vedere atletə sud-tirolesi o slovenə o sardə (per dire) con i colori sabaudi addosso. Comunità etnicamente “altre”, sia pure dotate di cittadinanza italiana, sempre guardate con sospetto e con diffidenza, quando non con aperto razzismo, salvo far finta di niente quando qualche loro esponente tornava utile alla causa sportiva “nazionale”. Italianə per convenienza sportiva, insomma. In un paese che ha sempre fatto estrema fatica ad accettare le diversità interne. Niente di strano che abbia fatto ancora più fatica ad accettare una diversità più recente, benché del tutto costitutiva del nostro mondo attuale.
Detto ciò, che alla nazionalità, intesa come cittadinanza di questo o quello stato, non corrisponda più la nazionalità in senso proprio, ossia l’appartenenza a una discendenza comune dai secoli dei secoli, è un dato acclarato. La base concettuale e ideologica degli stati di matrice europea otto-novecentesca non ha più alcun riscontro nella realtà.
Gli stati attuali sono più che mai un mero strumento in mano al ceto padronale sovranazionale. Quando nell’Ottocento Marx, Engels, Bakunin e compagnia varia parlavano dello stato, allora in fieri, come “stato borghese”, non era solo una formula propagandistica. Era una realtà storica che si andava dispiegando sotto i loro occhi. La parentesi post seconda guerra mondiale aveva coperto con un velo opacizzante questa dura realtà, facendo intravvedere la possibilità che gli stati potessero essere tutto sommato anche portatori di diritti universali, di pace e di progresso. Certo, a guardare i fatti storici questa è sempre stata solo una pretesa alquanto fantasiosa. E il fallimento della decolonizzazione fatta dentro le cornici imposte dal colonialismo avrebbe dovuto dire qualcosa.
Ma lo stato-nazione era stato ed era ancora un mezzo di dominio troppo funzionale. Persino quando prese piede l’ideologia neo-liberale, con Thatcher nel Regno Unito e Reagan negli USA, ai proclami anti-statalisti e alla retorica ostile all’intervento della politica nell’economia corrispose nella prassi un uso disinvolto delle istituzioni statali in funzione anti-popolare e a favore dei ceti ricchi. In termini spesso brutali, per quanto rivestiti di teorie considerate scientificamente sensate. Buona parte del ciarpame intellettuale con cui si è giustificato il dominio del capitalismo più rapace degli ultimi quarant’anni è ancora operativo nei centri nevralgici dove si prendono decisioni, nelle istituzioni dove si formano e trasmettono le idee, nei mass media, ecc.
Lo stato fa e farà ancora comodo nella deriva autoritaria e anti-democratica in corso da tempo. Dove di democrazia, sia pure di tipo rappresentativo e liberale, ce n’è stata poca, quanto dove questa forma attenuata e sempre transitoria di democrazia ha preso più piede.
Il lungo fallimento della civiltà capitalista segna anche il lungo fallimento dello stato-nazione. Il problema è che si tratta di un processo in corso, su cui è difficile ragionare non solo e non tanto in prospettiva, ma anche – pragmaticamente – nel presente.
Ci sono stati che funzionano abbastanza bene, si dirà. E situazioni in cui la dialettica sociale ha una sua rappresentanza politica e le libertà fondamentali non sono del tutto in discussione. È vero. Di solito, a ben guardare, si tratta di stati di matrice europea, di dimensioni medio-piccole, oppure di confederazioni. I pochi aspetti positivi degli USA, per esempio, se guardiamo alla sostanza politica e sociale, derivano dalla loro natura federale e da una serie di garanzie articolata in modo che sia difficile imporre un vero regime di dominio autoritario. Certo, poi ci sono anche moltissime magagne; però la diversità interna degli USA si rivela una forza e un vantaggio per la cittadinanza.
L’Europa ha parzialmente fallito, su questo fronte, e oggi fa fatica a tenere il passo. Ha goduto per secoli di ingiustificati privilegi, accaparrandosi risorse altrui. Non durerà ancora a lungo. Per quanto alcuni dei suoi stati siano ancora organismi abbastanza funzionali e riescano a garantire livelli di benessere dignitosi a quasi tutta la loro popolazione, lo scenario si presenta molto eterogeneo e alcuni degli stati europei sono palesemente degli accrocchi politici tenuti insieme a malapena e a prezzo di notevoli problemi strutturali. L’Italia è uno di questi. Difficile reggere ancora per molto, su scala storica.
Fuori dallo scenario europeo o di cultura europea, man man che ci si allontana geograficamente e culturalmente da tale modello, la situazione non cambia di molto, se non in peggio. In molti casi lo stato è una finzione in cui conviene credere, perché le alternative sarebbero peggiori. Ma mica sempre. E comunque c’è un po’ dappertutto una dose di autoritarismo piuttosto consistente.
Negli stati asiatici, per dire, il modello statuale europeo fa i conti con culture assai diverse per storia e forme di socializzazione, di relazioni sociali, ecc. Dove questi elementi riescono a convivere e a reggersi a vicenda, le cose vanno anche relativamente bene. Ma si tratta di casi particolari (penso al Giappone), che dipendono comunque da una certa coesione culturale preesistente all’imposizione del modello statuale europeo.
Se la “nazione” non ha un vero fondamento storico, reale, ma è una “comunità immaginata” (secondo le definizione di Benedict Anderson), allora forse si può partire da questo concetto – la comunità immaginata – per provare a dargli un contenuto diverso e una veste giuridico-formale adeguata alle dinamiche storiche in atto.
La maggior parte dell’umanità, ormai, vive dentro comunità immaginate. Che sia la propria città, la provincia, il gruppo linguistico, l’etnia, lo stato, pochi nostri simili, sul pianeta, possono identificarsi con un gruppo umano di cui conoscono tutti i membri e dentro il quale hanno una rete di relazioni dirette e sempre attive. L’identificazione e l’appartenenza sono inevitabilmente riconosciute a comunità più vaste, a volte molto più vaste. E la cosa non ci disturba.
Molte persone sarde, per esempio, si considerano sinceramente appartenenti alla nazione italiana. Non è che ragionino sul termine e il suo senso, è un’adesione condizionata ma in qualche modo spontanea. Eppure dell’Italia quasi sempre non sanno nulla, tranne ciò che passano i mass media e la scuola (nazionalista). Le generazioni più giovani si interessano meno a questo livello del discorso e si sentono più facilmente appartenenti all’Europa. Altre persone sarde si considerano appartenenti esclusivamente alla collettività propriamente sarda, benché per quasi tuttə l’identificazione primaria, di solito, sia quella con la propria città o il proprio paese. In nessun caso si tratta di appartenenze giustificate con la conoscenza o il legame diretto di ogni membro della comunità in cui ci si identifica.
Beninteso, non si tratta di appartenenze fittizie o immaginarie (immaginaria≠immaginata). Sono invece appartenenze profonde, che superano quasi sempre in intensità l’appartenenza di classe.
Ciò che possiamo dire per le persone sarde si può dire per qualsiasi collettività umana. L’appartenenza statale-nazionale a volte c’è, a volte c’è ma è debole, a volte è contrastata da altre appartenenze (come nel caso dei popoli senza stato o di minoranze etnico-linguistiche non riconosciute). Non sono pochi i casi di appartenenza multipla.
Per come vanno le cose oggi e date le dimensioni demografiche dell’umanità (siamo ufficialmente otto miliardi di persone), credo che dovrebbe ormai affermarsi definitivamente l’appartenenza più importante e decisiva: quella all’umanità medesima e al pianeta Terra.
Conciliare le identità e le appartenenze specifiche (di nascita o elettive) con altre appartenenze più ampie, fino a quella planetaria, è anche una necessità politica stringente. Davanti agli sconquassi climatici ed ecologici, alle pandemie, alle diseguaglianze inaccettabili tra popoli, tra territori e tra gruppi sociali, insistere ancora su “idee senza parole” come “nazione” e “stato” e far dipendere da esse la sorte dell’umanità è davvero demenziale.
Lo vediamo chiaramente con le guerre. Quella in Ucraina e le altre in corso. Lo vediamo in tutti i casi in cui “l’interesse nazionale” è usato come copertura propagandistica di efferatezze altrimenti inaccettabili (di solito a vantaggio di cospicui interessi di parte o di élite dominanti).
Una prospettiva diversa è indispensabile. Una nuova formulazione dei principi ideali, giuridici e pragmatici su cui basare la strutturazione degli ordinamenti politici che faccia funzionare una democrazia solidale e a più livelli, a seconda dell’ordine di grandezza delle questioni. Dall’autogoverno delle singole comunità di base, che possono essere definite solo tramite il concorso della volontà collettiva delle persone interessate, fino al livello decisionale generale, a cui devono poter accedere tutte le macro-collettività in cui si riconoscono le collettività di ordine inferiore (ordine di grandezza, ribadisco, non di importanza o valore).
Una sorta di confederalismo globale, una sorta di Svizzera planetaria (senza troppe banche, magari). Con alcuni principi cardine insindacabili: i diritti umani e civili fondamentali (a partire da quelli espressi nella Dichiarazione universale dei diritti umani dell’ONU), il principio di autodeterminazione dei popoli, l’inappropriabilità dei beni essenziali alla vita, la primazia dei diritti collettivi generali sugli interessi privati, la libertà di spostarsi, la libertà di cambiare regime politico, la salvaguardia dell’ecosistema, della biosfera e della biodiversità.
Può sembrare una prospettiva ingenuamente utopistica. Ma senza un po’ di sana utopia non abbiamo alcuna possibilità di cambiare in meglio la sorte dell’umanità (nel suo insieme e nelle sue varie porzioni specifiche). A patto di non trarne un sistema dogmatico da imporre a qualsiasi costo. In ogni caso, la china che abbiamo preso al momento non mi pare destinata a condurci a una condizione generalizzata di progresso e benessere universali. Porsi il problema e ragionare sul da farsi non è un esercizio astratto e superfluo. E al mondiale di calcio tifate pure chi vi pare.
A proposito dei temi trattati in questo post, allargando il ragionamento e guardando soprattutto all’Europa, ho scritto un pezzo per il Forum 2043 di Autonomie e Ambiente, raggruppamento che a livello continentale fa capo all’EFA (o ALE).