Come la pandemia, anche la guerra in Ucraina è rapidamente diventata centro focale dell’infodemia dilagante e motivo di conflitto sui social media. Un fenomeno di per sé interessante, come oggetto di studio. Ma allarmante, sul piano sociale, culturale e politico.
Non eravamo ancora usciti del tutto dalla battaglia dialettica tra “apocalittici e integrati” a proposito di covid-19, vaccini ecc. (dove spesso gli apocalittici erano i più integrati e gli anti-apocalittici i reietti), che ci siamo ritrovati, come per magia, incasellati nelle opposte tifoserie a proposito di Ucraina, Putin, NATO, Russia e geopolitica da quattro soldi.
Le due vicende hanno caratteri piuttosto simili, se non identici. Il lavoro dei mass media, in combinazione con i social, genera semplificazioni tossiche, etichette di comodo, polarizzazione, “gameficazione” (ossia, tutto diventa un grande gioco, un contest permanente). Si genera così un rumore di fondo costante e pervasivo che compromette qualsiasi possibilità di esercitare la capacità critica e di sottoporre allo scrutinio del ragionamento fatti e atti, specie quelli della sfera politica.
Si tratta di una modalità di gestione delle masse e della cosiddetta opinione pubblica più sofisticata della banale censura, più pervasiva e solo apparentemente più morbida dell’esercizio della forza bruta (che però è sempre in agguato, se servisse).
Sia nel corso della pandemia (che, a rigor di termini, non sarebbe ancora finita), sia ora in occasione del conflitto ucraino, l’infodemia dilagante ha sostanzialmente garantito ai governi, e soprattutto a quello italiano, spazi di manovra molto ampi, al riparo da qualsiasi reale opposizione. L’intruppamento del ceto medio istruito tra le milizie a guardia del Palazzo è stato determinante. L’ingaggio, spesso del tutto spontaneo, della stragrande maggioranza del ceto intellettuale a favore del governo è stato un capolavoro, sia pure a vantaggio del “lato oscuro della forza”.
Queste dinamiche, che appaiono costitutive dei nuovi rapporti sociali e politici della transizione epocale in corso, caratterizzano sia il livello generale della comunicazione e delle relazioni tra gruppi sociali e tra forze storiche, sia il livello minuto, specifico dei rapporti umani tra persone.
La disarticolazione e la devastazione morale e cognitiva che la dipendenza da social media sta provocando è un prezzo altissimo che stiamo pagando per la conservazione, ormai più formale e superficiale che sostanziale, della residua libertà di pensiero e di parola.
Non è un caso che oggi più che mai sia così difficile allestire un minimo di opposizione organizzata, o anche solo una premessa collettiva a una opposizione organizzata. Alla frammentazione sociale corrisponde ormai la disarticolazione dell’opinione pubblica in tante micro-opinioni individuali, quasi sempre tributarie verso categorie concettuali e slogan prodotti e riprodotti dallo stesso ambiente social a cui si aderisce, radunate dagli algoritmi in “bolle” autoreferenziali, che danno la sensazione ingannevole di far parte di una comunità attiva.
Anche quando le persone coinvolte possiedono un minimo di formazione politica, un livello di istruzione medio-alto e un proprio bagaglio culturale consolidato, tendono a riproporre costrutti e concetti tratti da tale riserva personale; ma sempre in termini irriflessi, meccanici, quando non del tutto indotti. Persino quando emerga qualche contenuto originale, obliquo o difficilmente schematizzabile nelle rigide categorie amate dagli algoritmi, essi vengono rapidamente assorbiti e ricondotti alle forme e alle dinamiche consentite.
Per lo più, ci si divide e si litiga sulla base di schemi semplicistici (e spesso sempliciotti) e di etichette di comodo. Anche le informazioni più utili e le considerazioni più valide vengono subitaneamente sopraffatte da attacchi personali e giudizi perentori basati su pochi o nessun elemento, da commenti inutili, da fallacie argomentative di varia tipologia e intensità. Questo avviene soprattutto su Facebook, il social medium più brutto, greve e tossico che ci sia al momento.
Il problema non risiede affatto nella grande libertà di espressione garantita dai social media, come vogliono far credere i custodi delle distanze di classe e dei rapporti sociali consolidati. Risiede invece nella sterilizzazione e nella normalizzazione del dissenso collettivo che questa apparente libertà produce. In definitiva, la questione non è il caos, l’estremo arbitrio consentito a chiunque, bensì l’opposto: l’irreggimentazione, la riduzione della complessità, la prevedibilità.
Chiaro, da tutto questo meccanismo le corporation del Web traggono informazioni, estraggono valore. È il loro scopo. Ma tutto questo ha anche l’effetto, più strettamente politico, di sterilizzare il dibattito pubblico e di rendere del tutto innocua la libertà di pensiero e di espressione.
Naturalmente, la realtà è troppo complessa e articolata per essere del tutto domata dentro questi meccanismi. Ma, come accennato più sopra, la nostra epoca così sovraffollata e così interconnessa garantisce una possibilità di controllo e manipolazione delle masse analoga, se non più efficace, del controllo esercitato nei tempi passati dalla religione e dai regimi monarchici, dispotici, carismatici.
Se scendiamo con i piedi sul terreno e proviamo a situare concretamente gli effetti di queste dinamiche relazionali e politiche, è facile constatare quanto esse incidano non solo nella vita individuale di ciascuna persona, ma anche e soprattutto nelle questioni pratiche della vita comunitaria e nelle vicende politiche.
La Sardegna, come sempre, è un ottimo caso di studio.
Sul piano della politica politicata possiamo constatare quanto segue:
– è caduta da tempo e definitivamente ogni parvenza di senso del regime autonomista, con esecutivi regionali sostanzialmente commissariati dall’esterno e incapaci e/o inadeguati a svolgere un reale compito di governo;
– la dialettica politica istituzionale è ridotta a mera rappresentazione scenica, con esibizioni sempre più stanche e stereotipate o, ormai per la maggior parte del tempo, inerzia e silenzio sistematici (vi risultano non dico atti e decisioni, ma almeno prese di posizione o dichiarazioni impegnative da parte di qualche forza politica o di loro singolə esponenti su qualcuno dei temi principali di questi anni?);
– da anni è stata abilmente azzerata la possibilità di reale rappresentanza democratica dentro le medesime istituzioni, in primis il Consiglio regionale, sia attraverso la riduzione del numero dei consiglieri, sia tramite la legge elettorale regionale, un mostro giuridico e politico di cui si parla sempre troppo poco;
– la classe politica sarda si dedica a procurarsi e garantirsi carriere, prebende, spazi di potere, vantaggi economici e di status a spese dell’erario, senza più alcuna connessione con istanze ideali o con forze sociali realmente esistenti.
Se passiamo all’analisi delle questioni aperte e dei processi storici in corso, la situazione non appare più consolante:
– spopolamento e impoverimento dilagano;
– i problemi strutturali e di natura strategica restano tutti aperti e in molti casi in fase di aggravamento (energia, trasporti, scuola, crisi manifatturiera, crisi agricola, inquinamento delle aree industriali e militari, disarticolazione sociale, ecc.), il tutto nel contesto di una nuova campagna neo-colonialista, specie in ambito energetico; senza considerare che tra poco il governo dovrà decidere dove ubicare il deposito unico statale delle scorie radioattive e il timore che la scelta ricada sulla Sardegna è più che giustificato.
Alla luce di tutto questo, ci si potrebbe aspettare la crescita e l’affermazione di un ampio fronte democratico, civile, culturale in opposizione all’inerzia colpevole della politica istituzionale e in risposta a tali problemi. E magari anche una crescita delle istanze di autodeterminazione, un protagonismo più intenso e di maggiore qualità dell’ambito indipendentista. Al di là delle appartenenze personali, sarebbe un segnale di vitalità e di salute del tessuto civile e culturale dell’isola.
Ora, posto che non siamo ancora in una situazione di totale rassegnazione, perché non lo siamo, va segnalato tuttavia che non è ancora emerso, nemmeno in forme embrionali, qualcosa di simile a un processo del genere. Non è visibile, non se ne avverte l’esistenza.
In compenso, se si sbircia sui social media e si ha la ventura di essere in relazione con la la “bolla” di contatti giusta, si può assistere al desolante spettacolo di qualche decina, al massimo poche centinaia, di individui che battibeccano e ostentano ognuno il proprio ego a rimorchio dell’agenda stabilita per noi dai centri di potere e di consenso dominanti in Italia. Ebbene sì, anche il variegato mondo dell’autodeterminazione e dell’indipendentismo è pesantemente condizionato dagli schemi e dalle dinamiche della manipolazione infodemica italiana.
È stato così a proposito della pandemia di covid-19, con tutti i suoi risvolti, è così adesso per la questione della guerra in Ucraina. L’auspicata capacità di analisi e di lettura autonoma, il necessario sforzo di elaborazione e di traduzione delle informazioni in scelte di principio e di azione adeguatamente calibrate e indirizzate non ci sono stati. Almeno fino ad ora.
Nella continua competizione di ego, fomentata dall’architettura stessa di FB, che purtroppo è il social preferito dalla politica sarda, specie indipendentista, si perde completamente di vista la realtà in cui siamo situati, gli effetti che le vicende internazionali stanno producendo su di noi, le decisioni che intanto altri stanno prendendo sulla nostra pelle.
È come se Facebook avesse preso il posto e la funzione dell’attività politica reale, dell’organizzazione, della mobilitazione, dell’attivismo, delle lotte.
C’è chi dice: chi se ne frega dell’Ucraina, pensiamo a noi. Ed anche questa è una posizione estremamente stupida, oltre che di una grettezza imbarazzante. Anche perché se tu ti disinteressi delle vicende internazionali, le vicende internazionali, comunque, in un modo o nell’altro, si interessano a te.
Non è questione di rinchiudersi da sé nella propria “riserva indiana”, è questione di maturare una capacità di giudizio e una forza politica autonome, solide, almeno adeguate alla sfida di questo tempo. Non dico per ribaltare la situazione nel giro di pochi anni, o nell’arco di una legislatura regionale, ma quanto meno per mettere mano a qualcosa di concreto in quella direzione.
Dai gruppi sociali e dai grumi di interessi consolidati che dominano la scena e selezionano la classe politica istituzionale non c’è da aspettarci niente di più o di diverso da quello che stanno facendo: i propri comodi. Dall’Italia, o dal Qatar, o da chissà dove altro, possiamo invece aspettarci solo nuove e più pervasive imposizioni di stampo coloniale. Come sta già avvenendo, mentre noi bisticciamo su Facebook (“noi” si fa per dire, io evito da un bel po’ di partecipare al circo).
Non sarà facile disintossicarci dall’infodemia e recuperare spazi di incontro e di azione collettiva, dopo questi due anni di isolamento forzato e di divisioni profonde e trasversali a tutti i gruppi sociali, a tutte le formazioni intermedie (già alquanto debilitate) e persino all’interno delle famiglie. Così come non sarà facile mantenere un minimo di lucidità sotto il bombardamento, fortunatamente solo metaforico, di sollecitazioni emotive e di paura prodotte dai media a proposito della guerra in Ucraina. Non sarà facile, ma è necessario.