Il (con)federalismo è la soluzione, non il problema, e non solo in Italia

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Una delle questioni ricorrenti dentro il dibattito pubblico sull’emergenza Covid-19 è quella del “regionalismo” italiano come concausa dell’evidente fallimento delle politiche di contenimento del contagio.

Che si tratti di fallimento lo attestano i dati – almeno in alcune realtà – e lo indica indirettamente la stessa ricerca compulsiva di capri espiatori e di diversivi.

Il capro espiatorio per eccellenza sembra sempre il singolo cittadino indisciplinato, il “furbetto” di turno, per dirla in gergo giornalistico. Ormai questo è un vero topos mediatico. Ma si tratta di un evidente inganno.

Non esiste alcuna responsabilità individuale, nella inefficacia della risposta italiana al contagio. Le responsabilità sono tutte e interamente della classe dirigente, sia sul versante politico, sia su quello economico e culturale.

Anche il “regionalismo” è messo spesso e volentieri, a destra come a sinistra, sul banco degli imputati.

In questo, come già segnalato a più riprese, la sinistra italiana (comprese le sue propaggini provinciali e coloniali sarde) mostra un’inadeguatezza, rispetto alla realtà storica in cui agisce, e una debolezza teorica drammatiche.

Per lo più, i pareri espressi nei mezzi di informazione – negli editoriali come nel corpo degli articoli – tendono a stigmatizzare un presunto “regionalismo” italiano, che indebolirebbe l’azione governativa, in particolare nell’ambito sanitario. Qualcuno si è spinto addirittura a evocare un “iper-regionalismo”, auspicandone la necessaria fine.

Solo rare voci – di solito non precisamente mainstream, benché non necessariamente meno autorevoli – propongono una lettura alternativa.

Naturalmente, il tema è molto sentito nell’ambito degli studi etno-regionalisti e in quello della militanza indipendentista democratica, entrambi per nulla presi in considerazione dall’informazione principale.

Altrove (per esempio qui) il tema è affrontato più seriamente, sebbene in termini occasionali e soprattutto in relazione all’andamento sorprendentemente poco drammatico dell’epidemia in Germania. In questo caso, il federalismo sembra essere un fattore virtuoso, al contrario di quanto scritto a più riprese, allo stesso proposito, dai mass media italiani (un esempio qui).

In Italia dunque non si è innescato un reale dibattito, su questa tematica, bensì si procede in modo assertivo o tramite veri paralogismi e fallacie argomentative, prescindendo dalla realtà storica e dalle risultanze fattuali.

Il ragionamento si potrebbe rovesciare del tutto, in realtà. Il problema dello stato italiano non è l’eccesso di “regionalizzazione” – che è un’entità mitologica – bensì il suo opposto: la mancata realizzazione di un vero federalismo, basato sul principio dell’autodeterminazione, della democrazia effettiva, della solidarietà.

Sul perché in Italia l’opzione federalista sia da sempre minoritaria e per lo più osteggiata dalla classe dominante sussistono pochi dubbi. L’impianto istituzionale dello stato italiano unitario serve da sempre a garantire una sorta di sfogo coloniale interno, come soluzione alla congenita debolezza internazionale. Il centralismo ottuso e la negazione delle diversità interne sono state e sono ancora funzionali a processi di appropriazione e di estrazione di valore che favoriscono alcune aree dello stato e alcune fasce sociali.

Un centralismo anti-popolare, prevalentemente reazionario, in cui le classi dominanti locali si legano opportunisticamente all’apparato di dominio politico centrale, egemonizzato dalle aree geografiche più forti, esercitando la funzione di intermediazione e di controllo del territorio. A questo tipo di relazione di potere non è affatto estranea, ma anzi connaturata e indispensabile, la stessa criminalità organizzata, quasi un organo informale dello stato (a dispetto di chi, in rappresentanza dello stato, l’ha combattuta e magari si è sacrificato).

Da questa particolare configurazione, anche culturale alla fine, discende la mediocrità della classe politica del Mezzogiorno, della Sicilia e della Sardegna. Storie diverse, condizioni geografiche e demografiche diverse, ma un destino analogo, dentro la vicenda dello stato italiano così come si è realizzato. Gramsci, anche in questo, ci aveva visto benissimo.

La condizione subalterna e coloniale provoca di per sé una selezione al ribasso del personale politico e amministrativo, fin dentro gli snodi dell’amministrazione pubblica e para-pubblica locale, non solo nelle istituzioni rappresentative.

L’inefficienza degli enti locali deriva molto più direttamente da questo problema, che da una presunta inefficienza congenita del modello “regionalista”, in realtà mai compiutamente realizzato.

Tant’è vero che entità territoriali realmente autonome come il Trentino e soprattutto il Sud-Tirol mostrano esiti storici totalmente diversi, per lo più virtuosi.

In Sardegna il rapporto coloniale o para-coloniale con lo stato italiano è evidente, nel suo sviluppo storico e nei suoi esiti. Lo è da sempre e si è (paradossalmente?) via via accentuato nei decenni dello stato repubblicano e dell’autonomia speciale. L’alternanza regolare di giunte regionali cosiddette di centrodestra e di centrosinistra da più di vent’anni non ha fatto che accrescere i problemi di subalternità, dipendenza, mancanza di prospettiva politica che i decenni passati avevano lasciato in eredità.

Sulle partite principali (dai trasporti ai comparti socio-economici strategici, dall’ambito scolastico e universitario a quello sanitario, dalle infrastrutture all’energia) c’è stata una continuità molto più forte e più profonda delle pretese diversità di programmi; che alla fine si sono sempre rivelate più che altro diversità di linguaggio, di scelta lessicale, più che di sostanza.

La Sardegna ha pagato e paga ancora in termini drammatici non certo la sua autonomia, bensì la mancanza di vera autonomia e di autogoverno. I suoi governi regionali selezionati altrove, la sua classe politica ignorante e provinciale, dipendente per la propria sorte soggettiva dai centri di potere esterni e dalla propria abilità nelle arti clientelari e di intrigo di corte, non potevano offrire all’isola una qualità amministrativa migliore di quella che hanno offerto.

Proprio il fallimento dell’autonomia (così come già lo analizzava a suo tempo uno storico e un politico come Girolamo Sotgiu, ossia non certo un indipendentista duro e puro) è il migliore argomento a favore della necessità di un percorso di autodeterminazione democratica.

Non isolato e solipsistico. Su questo va fatta chiarezza. Anche in ambito indipendentista.

Le critiche all’Unione Europea non devono annebbiare la valutazione storica e politica sulla necessità di una forte integrazione europea e mediterranea. La distanza e la diversità dai sovranismi egoisti, reazionari e xenofobi va chiarita e tenuta ferma.

La piccola propaggine occidentale dell’immenso continente asiatico, ossia quella che chiamiamo Europa, ha letteralmente fatto la storia del mondo negli ultimi tre secoli, tramite il colonialismo, il razzismo, il capitalismo, il nazionalismo: tutti fenomeni collegati e interconnessi. Oggi è un elemento debole e diviso in un mondo molto più piccolo, in cui si confrontano entità di dimensioni e propensioni imperiali.

In questo scenario, mantenere l’impianto politico fondato sugli stati nazionali venuti fuori dalla Pace di Westfalia e dalle sue conseguenze, oltre che sbagliato comincia ad essere anche ridicolo.

La convivenza e gli stessi assetti socio-economici dell’Europa attuale andrebbero riformulati in termini democratici e popolari, sulla base di un solido principio confederale, solidale e collaborativo. Un tema già ampiamente trattato qui su SardegnaMondo, ma che quest’ennesima crisi chiama ancora una volta in causa.

Come si vede, è la dimensione degli stati-nazione contemporanei ad essere la meno efficace e la meno rispondente alle sfide storiche, comprese quelle ecologiche e climatiche (misteriosamente scomparse dalle cronache di queste settimane). Ormai tali istituzioni servono solamente a mantenere in vita oligarchie sempre più sclerotiche e autoreferenziali, rapporti sociali parassitari fondati sulla rendita e sullo sfruttamento, assetti politici tossici sia in termini economici sia in termini culturali.

Alla luce della dimensione del problema, il patetico balbettio reazionario che in Italia costituisce la modalità principale del discorso in proposito appare bene per quel che è.

Che in Sardegna la politica e l’ambito intellettuale non riescano ad affrancarsi da questo livello osceno di analisi e di proposta, ma si barcamenino in attesa di ordini, o si affannino a raggranellare le ultime briciole del banchetto, è uno spettacolo tristissimo.

Non mi stupirei se qualcuno, in Sardegna, arrivasse ad auspicare un commissariamento della Regione sarda, sulla base dell’inadeguatezza della giunta Solinas, contestando la stessa autonomia in quanto tale. È un obiettivo mai del tutto abbandonato della nostra classe dominante, che si etichetti come centrodestra o come centrosinistra poco cambia (viste anche le diffuse pratiche trasformiste che ne animano le schiere). Da un lato, una scusa per ergersi retoricamente e ipocritamente a difesa della sacra “autonomia regionale”, dall’altra una soluzione ideale – se realizzata come auspicano – per proseguire nel proprio compito da podatari e da parassiti con ancora meno responsabilità.

In definitiva, il processo di autodeterminazione e di democratizzazione, sia a livello locale sia a livello continentale, ha molti nemici, esterni e interni, ma ha anche molte ragioni a suo favore.

Se e quando usciremo dall’emergenza sanitaria non ci troveremo affatto, automaticamente, dentro un mondo migliore, ma più probabilmente in una situazione diffusamente incattivita e gestita da élite deboli ma spietate, totalmente asservite ai calcoli egoistici delle forze sociali padronali, in un quadro di ulteriore restrizione degli spazi democratici.

Si tratta di resistere dialetticamente dentro il dibattito pubblico, in tutte le sedi possibili, e di irrobustire tanto la mole di studi e di acquisizioni teoriche quanto le relazioni internazionali. Ancora meglio se con un’azione concreta di lotta politica e sociale sul campo.

Nessuna giustizia sociale sarà mai davvero perseguibile in Europa se si prescinde dal processo di autodeterminazione democratica e da una riformulazione confederale, paritetica, anti-coloniale delle relazioni tra i popoli. E nessuna autodeterminazione e ricerca di sovranità avrà mai un senso progressivo senza ammettere come fondamentale il processo di emancipazione sociale e civile di tutti i cittadini europei, di nascita o acquisiti che siano.

Questo deve essere chiaro anche e soprattutto dentro l’emergenza sanitaria in corso, onde non farci espropriare il discorso politico da chi ha interesse alla compressione oligarchica dei diritti e alla ulteriore reificazione profittevole (per pochi) di ogni aspetto della nostra esistenza.

4 Comments

  1. Qualcuno sa dove posso trovare la versione ad alta risoluzione di questa mappa delle minoranze europee usata come copertina dell’articolo?
    Ho provato a cercare “eurominority.eu” ma l’indirizzo mi porta ad una pagina fondamentalmente vuota…

    1. Hai ragione, Gabriele. Non ti so aiutare, però. Ammetto di aver rubato l’immagine senza preoccuparmi della fonte. Altre volte mi è capitata sotto mano qualche carta analoga e spesso si tratta di approssimazioni inaccurate e fuorvianti. In questo caso mi serviva solo come mera allusione al tema trattato, per questo non sono stato tanto lì a indagare.

      1. Il fatto è che questa mi sembra molto accurata, per questo sarei interessato a trovare la sua versione originale. Dove l’hai trovata?

        1. L’ho recuperata al volo tra le immagini che mi ha proposto DuckDuckGo (il motore di ricerca) quando ho cercato – mi pare – “federalismo europeo”. Primo tentativo di una ricerca alla buona e senza pretese. Come ti dicevo nell’altro commento, mi serviva giusto un’immagine evocativa rispetto al tema del post. Però è vero che è più accurata del solito, e questa cosa mi ha colpito subito. Mi sono imbattuto in altre mappe analoghe, ma spesso sono approssimative o del tutto inattendibili.

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