I social, la politica, la libertà e noi

¿Quiénes son los dioses de American Gods?

Da tempo rifletto – non sempre lucidamente, lo ammetto – sul mio rapporto con i social media e in generale sull’impatto che questi strumenti di comunicazione hanno sulla vita delle persone.

Immagino che non sia una riflessione originale. Anzi ne sono sicuro. La compagnia è ampia e a volte buona.

Solo a volte, però. Di solito i ragionamenti su questo tema vanno dal moraleggiante/reazionario all’apocalittico-ma-integrato.

Lascio a chi legge l’assegnazione a queste due categorie – apparentemente estreme – di ciò che si scrive e si dice in giro.

Il problema non è facilmente risolvibile tramite semplificazioni e schemi rigidi.

Su questo terreno la teoria si scontra molto facilmente con la pratica, dando vita quasi sempre a contraddizioni e aporie.

Usare i social o no? E, se sì, come? E quali? E, forse prima di tutto, perché?

Ma anche: cosa sono i social? Come funzionano?

A molti di questi interrogativi ha già risposto qualcuno, in modo ragionato e coerente.

Prima di tutto WuMing, nella riflessione in due parti reperibile qui e qui, a cui rimando. Personalmente non posso che associarmi, sposandone, prima ancora che le conclusioni, l’impianto e l’impostazione.

Tuttavia ho l’impressione che non basti più – posto che sia mai bastato – spiegare il funzionamento, i limiti e i pericoli dei social. Dei social in quanto tali non *dell’uso-che-se-ne-fa*.

Chiarisco quest’ultimo aspetto.

Sostenere che un medium sia uno strumento comunque neutro e che la cosa che ne cambia effetti e risultati, sia in generale sia individualmente, sia l’uso che se ne fa, è una argomentazione fallace.

Si era occupato di confutarla già Marshall McLuhan, a suo tempo, e a naso – fatte salve precisazioni e correzioni accessorie – l’impianto del suo ragionamento mi sembra tuttora valido.

Aggiungiamoci gli studi e le tesi di George Lakoff e di Henry Jenkins e abbiamo per le mani già un bell’armamentario concettuale per sostenere la nostra riflessione sulla faccenda.

Tornando al punto principale, direi che alla fin fine il dilemma fondamentale resta quello pragmatico: cosa fare coi/nei/dei social media?

Ultimamente tendo a pensare, sulla scorta dei WuMing, che ci sia poco da scegliere: vanno disinnescati in modo radicale e consapevole.

Non in termini meramente luddisti (distruggiamo le macchine e siamo salvi!). Nemmeno in termini reazionari (troppa gente che scrive e comunica in libertà, senza meritarlo e/o averne i mezzi).

Piuttosto, in modo democratico e creativo.

Mi pongo il problema non solo per quanto riguarda me e la mia condizione particolare, ma anche e soprattutto relativamente ai processi socio-politici attuali in Sardegna.

L’isola, stante la sua condizione generale di debilitazione socio-economica, demografica e politica, subisce in termini ancora più forti la sudditanza verso la media-sfera italiana.

Prima di tutto – ancora e chissà per quanto – quella televisiva. Ma anche quella dei social.

Una media-sfera dominata da pochi soggetti e, riguardo alla Sardegna, inquinata da conflitti (o forse meglio, convergenze) di interessi nocivi, scarsa trasparenza, organicità alla condizione para-coloniale vigente.

I social sembrano tutto sommato uno spazio più libero e meno controllato, in cui possono esprimersi e conquistare visibilità e consensi anche istanze alternative alla brodaglia indigesta della politica di Palazzo.

In effetti, negli anni recenti, i social (specialmente Facebook, ahinoi!) hanno costituito il terreno privilegiato di comunicazione, confronto e battaglie collettive, per la militanza politica non istituzionale e per le reti (formali e informali) in cui si articola.

Sono stati anche uno spazio creativo, in cui si è sublimata in forme satiriche spesso efficaci la contestazione al Potere costituito (in tutti i suoi ambiti) e alla condizione subalterna dell’isola.

Tuttavia stiamo parlando pur sempre di un’azione che si è svolta dentro un contesto etero-controllato, proprietario (ossia privato), finalizzato a carpire e raccogliere informazioni personali a scopo commerciale (e non solo).

Non è sempre stato così.

Certo, “sempre”, nel tempo accelerato in cui viviamo, è un avverbio che può essere reso anche con, “negli ultimi vent’anni”.

Abbiamo fatto l’abitudine a salti tecnologici, sia pure molto più apparenti che reali, che rendono obsoleto un intero panorama mediatico nel giro di pochi anni.

Diciamo allora che questo “sempre” significa “nell’era di internet” e dell’internet “di massa”.

Come funzionava la comunicazione alternativa, in ambito politico e militante, ma anche culturale, prima del dominio dei social?

Perché – sembrerà strano – quest’epoca così difficile da spiegare a un adolescente odierno è esistita. E noi c’eravamo.

Senza social si poteva vivere. Così come a lungo si è potuto vivere senza internet. Ed anche senza telefono, se è per quello.

Internet è stata una bella scoperta per la variegata militanza alternativa, quella che non godeva di buona stampa, o non godeva di stampa affatto.

Forum e blog a lungo (a lungo relativamente ai tempi accelerati di cui sopra) hanno funzionato a meraviglia come spazi di riflessione, condivisione di contenuti, confronto a distanza, costruzione di una socialità plurale parallela a quella fisica, concreta.

Chi ha dai trentacinque anni in su e ha frequentato un po’ la militanza indipendentista sarda dei primi anni Duemila ricorderà sicuramente i forum su Politica online ed altre esperienze analoghe (come la mitica piattaforma silanese dei Conchidortos).

Astraendoci dalla litigiosità e dall’inconcludenza che dominavano la scena (senza dimenticare l’azione di trollaggio sistematica, a cui ancora non si riuscivano ad opporre anticorpi maturi), quella è stata una bella palestra dialettica per molti.

In ogni caso, mentre la politica istituzionale e buona parte della militanza alternativa sia indy sia di sinistra restavano ancorate a forme di comunicazione pienamente novecentesche, già allora si manifestavano ed erano attive ed operanti altre forme ed altre forze comunicative.

Una compagine che seppe sfruttare benissimo questa nuova disponibilità di media non controllati fu iRS.

Dopo gli inizi sulle piattaforme condivise da vari soggetti, organizzati e non, iRS si dotò di una sua piattaforma e di un suo forum, che divenne un punto di riferimento sia per simpatizzanti e attivisti, sia per curiosi e osservatori.

Non azzardo una valutazione troppo enfatica se dico che molta della militanza indipendentista degli ultimi anni, non solo vicina a quell’organizzazione, si sia formata su quel forum telematico.

Poi sono arrivati i social.

Ricordo bene l’impatto dei social sulla comunicazione politica indipendente. Non sono passati tanti anni.

Quando, nel 2012 o giù di lì, dentro il partito ProgReS, in cui militavo, si pose la questione della comunicazione interna, ci fu il tentativo di non cedere al campo gravitazionale di Facebook.

Fu allestito addirittura una sorta di social network interno, per evitare la migrazione della comunicazione tra militanti e organi del partito fuori dalla sfera di controllo dell’organizzazione medesima.

Uno sforzo che allora risultò vano.

Poco più tardi il problema già sembrava non esistere più. È stato facilissimo diventare tutti quanti clienti/dipendenti/produttori di contenuti del social-mostro di Zuckerberg (e soci).

Nessuna controindicazione, nessuno sprazzo di consapevolezza sono bastati a scongiurare questa migrazione di massa nelle mani di un apparato di accumulo informativo e di controllo come Facebook.

Non esime da un severo esame di coscienza nemmeno l’aver privilegiato altri social (in primis Twitter).

Ma questi sono solo episodi di un’esperienza soggettiva, una specie di aneddotica di supporto, che non spiega ciò che è successo né espone una qualche conclusione intellegibile.

Semplicemente servono ad avvalorare con un’esperienza vissuta la disamina sulla deriva che ha preso, tra le altre cose, anche la comunicazione politica alternativa, non istituzionale, sedicente indipendente (e, in questo caso, indipendentista).

Modalità, contenuti, connessioni e forme del confronto si sono adagiati dentro le cornici approntate dagli algoritmi e dalle scelte aziendali (e politiche) del padrone.

La stessa deriva in stile “contest permanente” (a colpi di like e di condivisioni) ha finito, rapidamente, per snaturare e ridisegnare la comunicazione politica.

Finendo anche – e spesso – per generare equivoci sul peso sociale reale (ed anche su quello elettorale) delle istanze politiche comunicate via social.

E non entro volutamente nel merito, qui, delle altre questioni aperte: la questione del tempo di vita rubato e della dipendenza (molto simile alla ludopatia), della micro-fama cercata a tutti i costi, delle parole d’odio, dell’ambiguità dei padroni dei social stessi verso le peggiori schifezze politiche esistenti (in primis fascisti et similia), ecc. ecc.

Tutta roba su cui ugualmente va fatta una severa riflessione.

È un problema enorme, come si vede.

Un problema che si pone nei termini in cui lo hanno sapientemente squadernato i succitati WuMing e che, per quanto riguarda la militanza politica, sociale e culturale in Sardegna, assume contorni ancora più preoccupanti.

Non voglio né posso, in questa sede, esaurire la questione, né proporre ricette definitive per risolvere il busillis.

Vorrei però che fosse chiaro il rischio che stiamo correndo e che fossero evidenti i limiti a cui ci siamo più o meno volontariamente sottoposti affidando contenuti, comunicazioni, analisi, satira, informazioni e dati di ogni tipo a Facebook (prevalentemente) e ad altri social media privati.

La riflessione dei WuMing può essere utile come riassunto e come pro memoria, per questo insisto sulla necessità di leggerla e di meditarla. Dopo di che bisognerà farsi carico di un ragionamento collettivo e condiviso sul “che fare?”.

Ridare rilevanza alla rete di blog, siti informativi non mainstream, spazi virtuali autonomi sarebbe senz’altro una buona idea.

Credo serva anche una certa dose di rinnovata creatività nel cercare e allestire nuove forme di comunicazione di tipo social, sganciate dal controllo proprietario e dalla tirannide dei suoi algoritmi.

Peccherò di ottimismo, ma ritengo che in Sardegna e nella rete di contatti e di militanza “in esilio” di cui dispone il variegato movimento politico-sociale-culturale alternativo e democratico (ecologista, femminista, autodeterminazionista, indipendentista, ecc.) ci siano le forze e le competenze per lavorare a una rete social (o post-social) autonoma e libera.

Ma direi che non dovremmo limitarci a questo. Forse, prima ancora, andrebbe fatta una riflessione sulla necessità di creare connessioni, condivisioni e momenti di incontro anche off line, nel mondo fisico.

Occasioni non necessariamente assembleari (personalmente sono ostile all’assemblearismo, metodo tra i meno democratici ed efficienti per discutere e decidere insieme su qualsiasi cosa).

Molto meglio le occasioni conviviali o gli eventi politico-culturali plurali, articolati e organizzati sul modello dei vari festival, ma con tratti di orizzontalità, apertura e fantasia che i festival (letterari o musicali che siano) di solito non hanno (le organizzazioni indy ne sanno qualcosa, ma un altro esempio può essere il Festival ad Alta Felicità del movimento no-TAV).

La necessità di sottrarre la comunicazione e le relazioni sociali al controllo e all’estrazione di informazioni e di valore a vantaggio di privati e di apparati governativi è primaria sia in senso politico sia in termini operativi.

Non posso chiedere a tutte e tutti di sganciarsi ex abrupto e magari in una sorta di gigantesco seppuku collettivo dai social principali. Però mi sento di chiedere se non altro di pensarci. E di pensare alle alternative possibili e auspicabili.

Posso prendere impegni solo per me stesso. E lo farò. Comincerò da subito a diradare la mia presenza social, in attesa di ulteriori sviluppi.

Lo farò cosciente di quanto possa pesare questa decisione, nella mia condizione doppiamente problematica di “persona pubblica” (pur nella sua relativa insignificanza) e di disterrau.

D’altra parte, la recente esperienza della censura operata proprio ai danni di SardegnaMondo da Facebook (importa poco se dietro segnalazioni ostili, come emerge dalla ricostruzione dei fatti, o per via di qualche inghippo degli algoritmi) ha lasciato il segno.

Diciamo che tenderei a prenderlo come un segno. Non divino, magari, ma ben chiaro.

Questo spazio, in ogni caso, resterà aperto e attivo. Anche come interfaccia pubblica per comunicare col sottoscritto.

Sul resto, mi aspetto un ampio dibattito e possibilmente una presa di coscienza collettiva. Se poi ne scaturirà un salto quantico, o evoluzionistico se si preferisce, della comunicazione politica-sociale-culturale democratica, libera e autonoma in Sardegna, tanto meglio.

2 Comments

  1. Sarà che il tema mi appassiona, al di là e prima della politica, ma l’idea che nessuna tecnologia è neutra, come ricordano i Wu Ming, è da avversare con forza. Lo stesso ingenuo rapporto mezzo-fine è una lente appannata per leggere il carattere pervasivo della tecnica moderna, una ‘seconda natura’ per dirla con Ortega y Gasset. Chi si abbandona a quest’idea, chi non è consapevole di stare ‘in acqua’, rinuncia a riflettere sul fondamento, sulla cornice, sul frame, dove i ruoli sono già assegnati e la storia è già scritta.

    1. Non lo dicono solo i WuMing, che nessuna tecnologia è neutra. È un’acquisizione consolidata e anche suffragata da dati di esperienza, oltre che da teorizzazioni robuste. Poi, che non si possa fare finta di esistere in un mondo a parte, questo è giusto. Ma né loro, né io, né la vasta schiera di analisti e teorici che ragionano di questi temi sosteniamo una cosa del genere. Solamente, nel mondo, nel mondo-così-com’è, bisogna starci consapevolmente e anche in maniera creativa, non banalmente passiva o addirittura subalterna.

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