Michelangelo Pira ipotizzava un modello di comunità fondato sulla scuola, dove la scuola non fosse un elemento separato dal resto, ma fosse uno spazio aperto di apprendimento, socializzazione e persino produzione. Teorizzava anche la “scuola impropria” quella congerie di pratiche, nozioni, forme di socializzazione che si apprendono dall’esperienza diretta a contatto con “i grandi”, sul lavoro, in piazza, dentro la rete di relazioni di cui si compone la convivenza di una comunità.
Chissà cosa direbbe oggi alla notizia della soppressione di 29 scuole in diversi centri della Sardegna. La decisione, assunta dalla giunta regionale, ha suscitato molte discussioni. Le argomentazioni usate per giustificarla sono molto deboli. La pura necessità contabile non appare assolutamente sufficiente. L’enfasi posta sulla maggiore efficacia didattica e pedagogica è smentita da molti esperti, che non annettono alle piccole dimensioni o alla soluzione delle pluriclassi effetti così devastanti come quelli paventati dal presidente Pigliaru e dall’assessore Firino.
Il vero problema di questa decisione, però, sta a monte e non attiene tanto al contenuto, quanto al metodo e a ciò che esso rivela.
Il metodo è quello ragionieristico e aritmetico molto in voga negli ultimi anni. La crisi finanziaria globale è stata sfruttata abilmente dai fautori della mercificazione del mondo per giustificare tagli consistenti a diritti, servizi, strutture pubbliche, nonché per sottoporre i beni comuni alla ferrea legge del profitto. Se oggi si calcola che entro l’anno prossimo l’1% della popolazione mondiale sarà più ricco del restante 99% (fonte Oxfam) tale esito non è il frutto di una botta di sfortuna.
Chi governa oggi la Sardegna aderisce totalmente all’ideologia neoliberista e classista dominante. Questo era risaputo. Fa specie che qualcuno oggi se ne stupisca. Del resto, è la stessa ideologia che domina le scelte governative italiane (capeggiate dallo stesso partito che esprime la maggioranza in Sardegna). La cifra politica della sua azione è chiaramente quella reazionaria di chi vuole espellere progressivamente una parte crescente della società dal godimento dei diritti, dall’accesso a beni comuni come istruzione, sanità, cultura, che intende privatizzare servizi e territorio, risorse umane e risorse naturali. In questo, come in altre questioni, la divisione tra centrodestra e centrosinistra (o tra destra e sinistra) ha davvero poco peso. Suona ormai come una rappresentazione stucchevole, ad uso e consumo di un’opinione pubblica rimbecillita e privata di strumenti basilari di comprensione.
Un intervento sul dimensionamento scolastico in Sardegna era necessario, questo è vero. Tuttavia si sarebbe dovuto procedere in tutt’altro modo. Prima di tutto dotandosi di una legge regionale sulla scuola, da anni mancante e da tanti richiesta, ma che l’attuale giunta, benché lo avesse promesso in campagna elettorale, si è guardata bene dal presentare. Senza una legge a monte, senza un disegno complessivo di cosa dovrebbe essere la scuola sarda dei prossimi anni, intervenire con l’accetta dei tagli sul corpo molle delle strutture scolastiche, senza nemmeno conoscere i territori su cui si agisce, è un errore che nemmeno la presunta buona fede può salvare. La buona fede sarebbe anzi un’aggravante.
Ma non c’è solo questo. Alla base di una decisione del genere (come di altre, dello stesso tenore, quasi sempre relative all’ambito culturale) c’è un problema di fondo specifico della classe dominante sarda, di cui la classe politica è una funzione. Tale classe dominante non ha né mai ha avuto un reale interesse a risolvere alcunché in Sardegna. Non esiste, per questa categoria di persone, accuratamente selezionata, alcun vincolo a rendere conto del proprio operato ai Sardi. I Sardi e la Sardegna sono degli elementi incidentali, delle variabili dipendenti di una sfera di interessi e di un orizzonte politico che ha il suo centro altrove.
Obiettare alla scelta di chiudere le scuole che con essa si disarticola ulteriormente il tessuto sociale e culturale delle nostre comunità non serve assolutamente a niente. Anzi, indebolire il tessuto sociale e culturale delle nostre comunità è precisamente uno degli obiettivi di questa giunta, dei suoi mandanti e in generale di tutta la politica istituzionale sarda. Sono decenni che va avanti questa storia: ancora non l’abbiamo capito?
Con ciò non voglio certamente sottovalutare il merito del problema. La scuola dovrebbe essere un fattore decisivo in qualsiasi processo di riscatto e di autodeterminazione virtuosa, democratica, laica e egualitaria. Lasciarla in mano a questa politica è un peccato mortale che gli stessi insegnanti sardi, o quanto meno molti di loro, stanno commettendo con troppa miopia.
La scuola deve essere calata nella propria realtà e rispondere non ad astratti teoremi contabili ma alle caratteristiche e alle necessità del territorio, ivi comprese le dinamiche demografiche e culturali. Enfatizzare la dispersione scolastica senza ubicarla sembra l’ennesimo trucco per desertificare la Sardegna “di dentro”, anziché una vera preoccupazione per un problema reale. Vorrei conoscere le statistiche di abbandono degli studi tra grandi centri e piccoli comuni. A naso, non è detto che le sacche di maggiore disagio si trovino per forza nei secondi.
Ma anche se fosse così, se davvero fossero i piccoli comuni sardi ad avere maggiori problemi, non vedere la connessione tra i problemi della scuola e altri fattori sul tappeto (dalle carenze nei trasporti, alla desertificazione economica, dalla questione linguistica, alle forme crescenti di disagio sociale) è totalmente ingiustificato ed è una palese dimostrazione di incuria politica, se non proprio di una visione ideologica classista. I piccoli o piccolissimi comuni in Sardegna sono la stragrande maggioranza dei centri abitati, non si tratta di una eccezione marginale da trattare con distacco entomologico.
Le stesse classi dirigenti locali e in primis i sindaci hanno molto da rimproverarsi, in questa deriva. Essere ostinatamente attaccati all’apparato di potere dei partiti italiani e dei loro satelliti in Sardegna oggi come oggi è una scelta che si paga e si fa pagare ai cittadini. Anche in questo caso non capirlo è un atto doloso, più che una colpa. E come colpa sarebbe comunque grave, per chi si propone per governare le nostre comunità.
Se questo ennesimo episodio servirà a far aprire gli occhi ad amministratori e amministrati, potrebbe anche rivelarsi un malanno salutare. Se invece susciterà i soliti piagnistei sterili e mal indirizzati, non produrrà altro che ulteriore depressione e scoraggiamento. Una presa di coscienza e un’assunzione di responsabilità sono doverose. Non so neanche se non sia già troppo tardi.