Nel 1979 Fernand Braudel, trattando della fine dell’egemonia economica olandese verso il 1740, scriveva:
È vero che si verifica un passaggio dai compiti elementari e “sani” della vita economica ai più sofisticati giochi della finanza. Ma Amsterdam è coinvolta in un destino che ne travalica le responsabilità dirette: la sorte di ogni capitalismo dominante è di essere preso negli ingranaggi di un’evoluzione già individuabile secoli addietro […] e che finisce, a causa del suo stesso successo, per arenarsi sulla soglia di attività e di acrobazie finanziarie dove l’economia nel suo complesso arriva difficilmente a raggiungerla, a meno che non rifiuti di seguirla. Se si cercano le cause o le ragioni dell’arretramento di Amsterdam, si rischia in ultima analisi di ricadere su quelle verità generiche che valgono per Genova agli inizi del XVII secolo, come per Amsterdam nel XVIII, e forse anche per gli Stati Uniti di oggi, che a loro volta maneggiano carta moneta e credito fino a limiti pericolosi.
(Civiltà materiale, economia e capitalismo. Secoli XV-XVIII. Vol. III: I tempi del mondo, ed. it. Torino, 1982)
Mancavano ventun’anni all’esplosione della bolla della new economy e ventinove al manifestarsi della crisi dei mutui subprime (con tutte le ben note conseguenze). Era un profeta Braudel? No, era uno storico. Uno storico che – forte della tradizione della Scuola delle Annales – sapeva destreggiarsi tra varie discipline mettendole al servizio di una ricostruzione storica che non fosse mera erudizione antiquaria ma – per usare le sue stesse parole – un “veicolo straordinario di conoscenza e di ricerca”.
Un attento lettore di Braudel era Giovanni Arrighi, economista e storico dell’economia, scomparso nel 2009, non prima di aver pubblicato (in inglese) una postfazione a uno dei suoi testi più celebri: Il lungo ventesimo secolo. In tale postfazione, facendo un bilancio degli ultimi anni di vicende economiche mondiali, Arrighi ritornava sulla preconizzazione di tre possibili scenari generati dalla crisi attuale (che egli considerava sistemica): uno scenario in cui l’Occidente nel suo complesso imponesse una sorta di nuovo impero globale egemonizzato da Europa e Stati Uniti; uno scenario con un centro politico egemone in Asia (Cina, in particolare), tendenzialmente rispettoso delle diversità culturali e produttive; uno scenario di caos e possibile escalation bellica generalizzata.
A distanza di una dozzina d’anni, Arrighi doveva constatare che l’Occidente aveva probabilmente perso il treno, accontentandosi di seguire gli USA nel loro tentativo solipsistico di resistere ai processi in corso in modo aggressivo. Il secondo scenario aveva i suoi limiti nella constatazione che una riformulazione dei rapporti economici e sociali internazionali, sia pure nel contesto di un’egemonia asiatica, risultava difficile, se non si tenevano presenti gli oggettivi confini della crescita della produzione e dei consumi, non si risolvevano i problemi ecologici e non si mettevano in discussione gli stessi modelli economici dominanti (servirebbe insomma una vera rivoluzione). Il terzo scenario – quello caotico e conflittuale – alla fin fine appariva il più realistico:
Il crescente peso economico della Cina nell’economia politica globale non garantisce di per sé l’affermazione di una società di mercato mondiale che abbia il proprio centro in Asia orientale e che sia basata su un reciproco rispetto delle culture e delle civiltà del mondo. Come si è detto sopra, un risultato del genere presuppone un modello di sviluppo radicalmente differente, il quale, tra le altre cose, sia socialmente e ecologicamente sostenibile e rappresenti per il Sud del mondo un’alternativa più equa alla continuativa dominazione occidentale. Tutte le precedenti transizioni egemoniche sono state caratterizzata da lunghi periodi di caos sistemico, e questo rimane un possibile approdo alternativo.
Una conclusione tutt’altro che rassicurante. Ma neanche Giovanni Arrighi era un profeta. Ciò può indurci a sperare che l’alternativa peggiore tra quelle da lui prospettate possa non compiersi mai. Purtroppo, a oggi, non possiamo dire che questa possibilità sia stata smentita dai fatti. L’est europeo è tutt’altro che tranquillo e le forze storiche in ballo, con la loro solita ostinazione, non sembrano darsi troppa cura delle piccole grandezze, quali sono gli individui e le famiglie, bensì solo dei numeri grandi, su scala continentale o planetaria e, quanto a tempi, almeno secolare. Una beffa per i seguaci del verbo di Margaret Thatcher, mal consigliata dalla sua ideologia di riferimento, secondo la quale la società non esiste, ma esistono appunto solo gli individui e le famiglie. Gli individui e le famiglie sono inseriti in un flusso di processi, di fatti e di relazioni che non si esaurisce mai nel “qui e ora”.
Naturalmente ciò non toglie che le cose che ci toccano direttamente, nella nostra sfera personale, abbiano una concretezza che altre vicende, sia pure importantissime, tendono a non possedere. Perciò è sempre bene trovare un compromesso tra la comprensione delle vicende macroscopiche e i casi della nostra vita, o quanto meno della rete di relazioni di cui siamo uno dei nodi.
Disporre di una strumentazione storica appropriata aiuta molto in questo compito. Poter ricollegare le nostre vicende, quelle del nostro presente e del nostro passato, quelle della nostra comunità e del nostro territorio, alle vicende più generali, consente di darcene ragione e di non rimanere troppo spiazzati davanti al succedersi degli eventi.
Il fatto che noi Sardi non sappiamo un tubo della nostra storia e quel che sappiamo lo sappiamo male, ci espone invece a un continuo stato di stupore e spesso di indignazione verso fatti e circostanze che appaiono sempre ingiusti, o crudeli, o comunque difficili da capire. Rifugiarsi nei luoghi comuni e nell’ineluttabilità stabilita da un destino arcano fa comodo, in questi casi, ed esime dall’assumersi troppe responsabilità.
Tuttavia, se questo può essere relativamente innocuo in tempi di crescita economica e sociale, in una fase di crisi come l’attuale diventa deleterio. Oggi non possiamo permetterci di essere così ignari e così sprovveduti davanti alle vicende del mondo. Il momento non è facile e il futuro non sarà tenero con gli stupidi e gli ignoranti. La pressione selettiva generata dalle condizioni storiche sfavorisce l’idiozia e l’ottusità.
Quel che ci manca, insomma, non sono tanto o solo beni materiali e denaro, e nemmeno simboli a cui ispirarci o elementi di identificazione ideologica. Per carità, tutta roba che può far comodo, a certe condizioni. Ma l’impressione è che la nostra lacuna più rilevante sia proprio una lacuna cognitiva. Non saperci ubicare nel tempo e nello spazio si rivela ogni giorno di più un lusso che non possiamo affatto permetterci.
Sapere, ancora pochi giorni fa, di persone, in Sardegna, preoccupate perché veniva annunciata un’ondata di maltempo… sull’Italia meridionale fa pensare che le leggi dell’evoluzione darwiniana non giochino a nostro favore. Assistere a decisioni della nostra classe politica che sembrano provenire da un altro pianeta, non dispone l’animo all’ottimismo più spensierato. E tutto ciò ha la sua radice più profonda nell’ignoranza di noi stessi. E anche nella pigrizia irresponsabile di non volerne tenere conto. Il che può sembrare paradossale in un momento in cui a governare la Sardegna ci sono dei professori universitari. Invece tutto risulta estremamente lineare e coerente, se si conosce un po’ la storia delle nostre istituzioni universitarie, della nostra politica e degli ultimi duecento anni di vicende sarde nel loro insieme.
Riappropriarci della nostra storia è indispensabile. Non serve a nulla, però, farlo in maniera ideologica e tutta schiacciata sul nostro mito identitario (sia pure per ribaltarlo, ma senza cambiarne gli elementi). Non serve nemmeno per fondare percorsi politici, né per lucrare denaro in qualche strano e fantasioso modo. Serve “solo” a salvarci la pelle.
Sono tutte questioni già affrontate, da queste parti, è vero. Ma un richiamo ogni tanto fa bene e l’autorità di illustri studiosi può forse contribuire a far prendere più sul serio un poblema che risulta di giorno in giorno più penoso e dai risvolti più pericolosi.