Nel mondo grande e terribile ci sono più cose di quante ne contenga la nostra filosofia

A leggere le lamentele o i commenti di chi si è appassionato a una causa o è portatore di interessi settoriali sembrerebbe che le questioni fondamentali siano solo le loro, prese però una per una. Che si tratti di paesaggio, di energia, di lavoro, di questione linguistica, di scuola o di altro, il refrain è sempre il medesimo: questa e solo questa è la questione fondamentale e chi non lo capisce o rifiuta questo assunto è un nemico.

Prendiamo due ambiti in particolare: la questione della salvaguardia del paesaggio e quella linguistica. Circa la prima, solo pochi giorni fa Flavio Soriga scriveva sulle pagine della Nuova che il paesaggio è la nostra risorsa più importante. Prese per buone le argomentazioni di Soriga, il dubbio è che questa tesi non tenga conto di una realtà decisamente più articolata, di cui il paesaggio sardo è giusto un elemento e di certo non indipendente dagli altri. Certo, le preoccupazioni per le scelte deleterie dell’amministrazione Cappellacci sono legittime. Ma non bisogna dimenticare che il paesaggio sardo non è minacciato solo dall’aggiramento del Piano Pesaggistico Regionale (come sembra far pensare la Nuova) bensì anche – per dirne una – dalla improbabile estensione della coltura del cardo, utile a quel grande inganno che promette di essere la “chimica verde” a Porto Torres (operazione pure sposata e promossa in vari modi dalla Nuova medesima).

Nel caso della questione linguistica si assiste a fenomeni simili. Il variegato Movimento Linguistico ha molti meriti e anche qualche risultato dalla sua parte. Ma di sicuro non brilla per aggiornamento e per ampiezza di vedute. Per lo più i suoi esponenti più in vista sono fermi agli anni Settanta del secolo scorso, come studi e come approccio. Inoltre è sempre presente una visione sardista o persino nazionalista (a volte forse inconscia), che ne indebolisce tanto l’impianto teorico quanto la propositività politica. Anche in questo caso comunque la questione della lingua sarda (e solo della lingua sarda, perché alla fine a questo si riduce il dibattito) è presentata come quella fondamentale e dirimente.

In entrambi questi esempi emerge un errore di fondo: una sorta di astrattezza autoreferenziale che concentra il mondo in un punto e poi separa quest’ultimo dal suo stesso referente concreto. Insomma, si parla di paesaggio e di lingua come se fossero due entità a sé stanti, valide di per sé, a prescindere dalla componente umana, storica, che dovrebbe abitarli e animarli. Ma né il paesaggio né il sardo hanno valore in sé, se staccati dalla loro componente umana. Il paesaggio sardo e la lingua sarda non sono niente se non connessi con i sardi stessi. Lì però nascono gli attriti. Se si esce dalle cornici consolatorie degli integralismi astratti e si entra con entrambi i piedi sul terreno storico e dunque politico, la realtà si presenta d’un tratto in tutta la sua irriducibile complessità e – come suol dirsi – casca l’asino.

Perché il paesaggio non è qualcosa di separato dalla componente antropica, specie in una terra costantemente abitata dall’uomo negli ultimi quindici millenni. E sostenere che il paesaggio è la nostra unica, vera risorsa significa generare una narrazione in cui i sardi sono una variabile dipendente e un elemento accessorio e quasi di disturbo. Senza contare il disconoscimento clamoroso di tutte le altre nostre risorse materiali e immateriali, con l’effetto di perpetuare la visione di una Sardegna povera, arretrata ma pittoresca, destinata ad essere conservata per la fruizione turistica (facoltosa) e nulla più. Così come impostare la questione linguistica in termini nazionalistici equivale a ignorare che in Sardegna esiste già oggi una condizione di multilinguismo che non solo va garantita (per evidenti ragioni di democrazia), ma che è anche una ricchezza. Non si può perorare l’imposizione di una egemonia del sardo sulle altre parlate dei sardi, senza pagare lo scotto delle divisioni, delle discriminazioni, dell’etnocentrismo cantonale: siamo sicuri che sia un prezzo che dobbiamo pagare? O il plurilinguismo e la giusta collocazione del sardo tra le lingue europee possono trovare altre strade, più democratiche e dinamiche, per essere garantiti?

Insomma, le questioni fondamentali non si possono costringere in cornici troppo strette e/o a narrazioni di parte. Uscire dall’autoreferenzialità è indispensabile. Abbandonare l’idea che la nostra visione settoriale sia l’unica realmente significativa è doveroso. Così come è d’obbligo liberarci della propensione a classificare gli interlocutori in base al loro grado di aderenza alla nostra tesi: o con me o contro di me. Non è un modo civile e produttivo di impostare il dibattito pubblico.

Compito della politica – di una nuova politica, chiaramente, non della bassa macelleria clientelare che ci domina attualmente – dovrebbe essere di sviluppare potenzialità, di aprire scenari, di affrontare la complessità mobilitando tutte le risorse e le forze sociali e intellettuali di cui disponiamo, connettendole in una rete di rapporti, a loro volta fertili di soluzioni e di creatività. Questo non si può fare se non si sconfigge il conservatorismo interessato, la logica del muretto a secco, la miopia di chi fa prevalere su tutto la paura di perdere la propria posizione (con i vantaggi di carriera ed economici a volte associati). O si ragiona dentro una visione sistemica o non caveremo un ragno dal buco, come purtroppo è già successo. E non ce lo possiamo più permettere.