Parole sbagliate costruiscono un mondo sbagliato

Domenica scorsa è uscito il tredicesimo fascicolo della Storia della Sardegna a fumetti, pubblicata dall’Unione Sarda. L’opera è curata e scritta da Bepi Vigna, uno dei massimi autori sardi di fumetti, che si è avvalso della collaborazione alle matite di una schiera di ottimi illustratori nostrani. Fin qui tutto bene, l’idea è ottima, l’obiettivo è meritorio, l’iniziativa sembrava promettente. Non tutti i numeri sono risultati all’altezza delle aspettative, ma del resto è difficile assemblare tanto materiale narrativo e tradurlo in forma di fumetto. E non per limiti del fumetto in quanto tale. Il fumetto solo nell’ambito culturale italiano è considerato una forma di intrattenimento per ragazzi. In realtà è uno strumento narrativo serio e di ampio respiro, con le sue regole formali, un suo apparato tecnico di riferimento, una lunga e prestigiosa storia, non meno del romanzo o del cinema.

Reso il giusto merito all’operazione, bisogna però segnalare il pericolo che essa racchiude. Un pericolo tanto maggiore quanto minori sono i filtri critici di chi ne fruisce. In un’arte in cui la parola è decisiva e insieme alle immagini crea un mondo in cui si entra e ci si immedesima, usare le parole giuste fa la differenza tra un’operazione artisticamente e culturalmente di valore e un’operazione invece – anche involontariamente – manipolatoria.

Il problema salta agli occhi con evidenza proprio nel numero 13, quello dedicato alla cacciata dei Piemontesi e all’epopea rivoluzionaria sarda. Si può discutere se per restituire in modo comprensibile e dotato di tutto il suo significato storico quell’epoca decisiva basti il racconto della cacciata dei piemontesi (episodio simbolico e politico di spessore, ma solo se contestualizzato e inserito in uno scenario più ampio, sia in senso geopolitico sia in senso cronologico). Ma in questo caso il nodo è un altro e riguarda proprio le parole e le immagini.

Il racconto scorre via in termini abbastanza filologici, nel tentativo di dar conto in modo vivido dell’accaduto. Poi, ad un certo punto, a pag. 28, nel riquadro in alto a destra, si vede un personaggio che esclama: “La nostra lotta deve portare all’autonomia!”. E qui casca l’asino. O meglio, casca la mascella per lo stupore. Questo è oggettivamente un errore, è una cosa sbagliata, storicamente e metodologicamente sbagliata. Non si può in alcun modo associare un concetto come l’autonomia (sottinteso “regionale”) a quei fatti e a quei personaggi. Qui il rischio manipolatorio si manifesta in tutta la sua portata.

Al tempo della rivoluzione sarda nessuno avrebbe mai non solo pronunciato quella parola ma nemmeno pensato di pronunciarla. Allora non si poneva nemmeno il problema, nel senso che non c’era alcun dubbio sul fatto che la nazione sarda (come si autodefinivano i protagonisti di quelle vicende) fosse un’entità storica ben individuata e dotata di una propria soggettività. Quel che volevano i rivoluzionari era affrancarsi dal feudalesimo e dal malgoverno sabaudo nonché, almeno nelle frange più consapevoli e politicizzate, istituire la repubblica. Di sicuro a tutto si pensava fuorché a un concetto come l’autonomia, allora inedito e che ha un senso solo dentro la nostra condizione di dipendenza politica contemporanea. Usare una parola sbagliata di questo tipo, con tutti i suoi risvolti culturali, simbolici e politici, in una pubblicazione rivolta a un pubblico vasto, non necessariamente preparato sulle vicende narrate (anzi, presumibilmente ignaro), è di una gravità estrema.

Così come è sbagliato, poco dopo, mostrare un rivoltoso su un balcone sventolare la bandiera dei quattro mori. Che del resto compaiono anche sulla copertina stessa del fascicolo. Anche questo è un errore grossolano. I rivoluzionari sardi, se proprio dovevano sventolare qualcosa, sventolavano drappi col tricolore francese, unico vero simbolo di riscatto e libertà, in quel periodo. Che usassero come emblema o come bandiera i quattro mori non è attestato da alcuna fonte ed è anzi altamente improbabile. I quattro mori, del resto, erano stati incorporati dai Savoia nel proprio emblema dinastico ed erano il simbolo della monarchia. Chi aveva sentimenti libertari e/o repubblicani sicuramente non li sentiva come un segno di emancipazione, non li vedeva come un simbolo di identificazione collettiva. Anche qui, un anacronismo mistificante, dunque.

Errori come questi hanno un peso. Contribuiscono a generare un immaginario fittizio, una memoria artefatta. E una memoria artefatta non è una base solida su cui costruire senso di appartenenza e senso di responsabilità sociale e politica. Riappropriarci della nostra storia richiede un grande sforzo, data la rimozione violenta cui siamo stati e siamo sottoposti, ma i tentativi di colmare tale lacuna devono essere all’altezza delle necessità. Perpetuare errori, equivoci, letture sminuenti, imporre parole e immagini sbagliate porta a costruire una visione di mondo altrettanto sbagliata, ci espone al rischio di ulteriori mistificazioni e ci impedisce ancora una volta di collocarci correttamente nel tempo e nello spazio. E’ insomma un problema dai risvolti notevoli e molteplici, di tipo politico e anche di tipo pratico e materiale, e come tale va affrontato, senza rimuoverlo o ridurlo a questione di poco conto.