La nemesi

Fa specie osservare a distanza di dieci anni quasi esatti la replica di fenomeni e dinamiche ormai passati dalla cronaca ai libri di storia. Tra Genova 2001 e Val di Susa 2011 ci sono molte analogie e alcuni segnali di peggioramento della patologia di cui sono sintomo. Temo che gli anni a venire non ci regaleranno niente di meglio.

A parte le considerazioni di ordine politico, etico, economico, sociale che tali eventi suscitano (tutte però ampiamente rimosse dal mainstream informativo italico, non per caso, visti gli assetti proprietari e gli interessi cui esso risponde), mi verrebbe da fare una riflessione di tipo storico, anche  in relazione a noi, alla Sardegna e alla sua storia contemporanea.

Nel 2003, nel numero di settembre della rivista European Planning Studies, Gert-Jan Hospers dedicava un articolo alla questione del turismo come risorsa strategica per la Sardegna, segnalandone le magagne strutturali e di impostazione e facendo riferimento in particolare alla pervicace applicazione in questo settore dell’approccio top-down (ossia decisioni calate dall’alto e dall’esterno).

A tale articolo, rispondemmo io e Oliver Perra, col contributo di altri (M. Dibeltulo, F. Sanna, F. Sedda), nel 2009, sottolineando come l’approccio top-down non fosse circoscrivibile solo al settore turistico, ma fosse una costante di lunga durata nella storia contemporanea della Sardegna, tipica soprattutto dell’epoca sabauda e italiana fino ai giorni nostri, in special modo a partire dalla Restaurazione (emblematico in tal senso il famigerato Editto delle chiudende, del 1820).

Autocitazione a parte, quel che intendo mettere in evidenza è che il centralismo e i sistemi di repressione del dissenso non sono affatto tipici dell’attuale fase storica italiana, ma sono connaturati nella costruzione e nell’impostazione politica generale dell’ordinamento giuridico italiano, così come storicamente si è realizzato, fin dai suoi albori. Del resto la guerra al cosiddetto “brigantaggio” meridionale o al “banditismo” sardo, come anche la repressione di qualsiasi protesta popolare (a Milano come a Buggerru o a Cagliari) non sono fatti di questi anni. E allo stesso modo, reciprocamente, la strategia della tensione o le repressioni in piazza da Napoli nel 2001 alle manifestazioni studentesche dello scorso dicembre o appunto alla Val di Susa oggi, non sono una involuzione democratica recente.

Insomma, il difetto genetico di una compagine statale nata da una radice di suo abbastanza reazionaria, miope e dallo sguardo limitato (qual era l’amministrazione e l’assetto politico e giuridico del Regno di Sardegna sabaudo) non può che dare frutti di questo genere.

L’approccio top-down e la conseguente imposizione anche con l’uso della forza degli interessi dominanti sono stati sperimentati molto bene e direttamente dai sardi, veri pionieri della Storia in questo come in altri casi, ed ora – come una nemesi beffarda – sono subiti da popolazioni piemontesi.

Il che non mi induce affatto a sentirmi risarcito di un’ingiustizia, ma ne accresce casomai il sapore amaro e l’aspetto inaccettabile.

In questo stesso momento, mentre ancora ci gloriamo dello scampato pericolo nucleare, in Sardegna stiamo subendo altre misure della stessa identica matrice. Forse meno spettacolari e immaginifiche delle centrali atomiche e delle scorie radioattive, ma non meno significative. La questione dei radar a microonde sulla costa occidentale dell’Isola è un esempio anche simbolicamente pregnante di tale approccio impositivo. Ma come impatto concreto sulla popolazione non saranno certo meno drammatiche le misure economico-finanziarie che il governo italiano si appresta a varare per mettere una pezza (inutile) all’imminente tracollo dello stato.

Anche qui, come “regione” periferica e lontana, nonché demograficamente insignificante e politicamente inesistente, dovremo subire da un lato la continua sottrazione delle nostre risorse, anche di quelle che ci spetterebbero secondo la legge italiana (vedi entrate fiscali, senza considerare altro), dall’altro una ennesima imposizione di balzelli, tagli ai servizi sociali e all’istruzione, deprivazione infrastrutturale.

C’è chi sostiene ancora che l’autodeterminazione dei sardi non risolverebbe nulla. Mi piacerebbe che qualcuno si premurasse di dimostrarla, questa tesi. Una tesi che si scontra in modo sempre più evidente con la realtà, ma non ancora abbastanza con l’egemonia culturale e con gli interessi che la alimentano, cui dobbiamo soggiacere. Con la nostra stessa complicità.