Il giorno della Memoria, come tutte le operazioni egemoniche, ha il paradossale risvolto di essere in realtà una giornata della rimozione e del non detto. Almeno, per larga parte del mainstream mediatico. Ma in queste faccende la complessità ha spesso la meglio, così, alla fine, l’evocazione ideologica di una memoria che si vorrebbe strumentale ad assetti strutturali di dominio, diventa anche motivo di ragionamenti e sguardi diversi, a volte stridenti o rivelatori.
Cosa c’è in comune, ad esempio, tra i focolai di rivolta che agitano la sponda est e sud del Mediterraneo (per ora) e l’Olocausto? E noi, noi popolo senza Storia, o fuori dalla medesima, cosa abbiamo a che fare con tutto ciò?
Una possibile chiave di lettura con cui aprire lo scrigno del rimosso è uno dei pilastri della Modernità trionfante, almeno sulla carta. È quel principio di eguaglianza, quello che campeggia tra le parole d’ordine della Rivoluzione Francese, che è invocato e sancito da tante carte costituzionali e dalla stessa dichiarazione dei diritti universali dell’umanità. Una delle conquiste fondanti della nostra era, ora al tramonto.
Eppure, proprio la Modernità più prossima a noi ha decretato il tradimento profondo di tale principio. Tradimento per perversione e tradimento per elusione.
Nel 1889, a cento anni dalla Grande Rivoluzione, a Parigi si celebrò l’Esposizione Universale, grande dimostrazione di trionfo della civiltà umana, il cui simbolo (originariamente pensato come provvisorio) era la Torre Eiffel. Proprio tra i padiglioni dell’Expo, all’ingresso, c’era una zona adibita a zoo, uno zoo in cui si dava conto della varietà non di specie animali o vegetali esotiche, ma delle “razze” umane. Indigeni, nativi dei quattro angoli del mondo, “selvaggi”, erano esposti lì come esemplari da osservare con meraviglia e soprattutto con gratitudine per la propria condizione di esseri umani evoluti, superiori.
Era l’epoca del grande colonialismo e dell’antropologia positivista, ricordiamolo. La diseguaglianza tra gli uomini era finalmente giustificata da teorie scientificamente accertate, dal consenso della comunità accademica del mondo civilizzato. Che esistessero razze diverse, per lo più “inferiori” a quella bianca europea, era un dato comunemente accettato. Non dimentichiamoci che tra queste strane comunità umane c’eravamo anche noi sardi, non ancora italiani speciali, ma più che altro una sorta di enclave semitica, “orientale” (come sosteneva il buon padre Antonio Bresciani), nel bel mezzo del Mediterraneo europeo. Razza, tra l’altro, come accertato dagli studi antropologici di quegli stessi anni, “congenitamente delinquente”.
Era la Belle Epoque, poco da dire. È vero che a Cagliari giravano i tram, si andava al caffé e al teatro e si stampavano e leggevano riviste e giornali, ma la Sardegna e i sardi appartenevano comunque a quel limbo di terre e genti dimenticate nell’oblio dalla grande Storia, popolazioni la cui sorte era possibile riscattare solo in virtù di una superiore civiltà (quella italiana, nel nostro caso) che le avrebbe estratte dai bui recessi dello stato di natura.
Sulla scorta dell’antropologia positivista, dell’eugenetica e di una strana interpretazione della selezione naturale darwiniana, si giustificavano allora le distanze sociali (era in corso una poderosa rivoluzione industriale e tecnologica, nel frattempo) e quelle culturali. Di lì a poco, si comincerà anche a giustificare la segregazione degli “inadatti alla vita”, come i pazzi, gli storpi, i malati, i portatori di tare genetiche e poi “razziali”. E non nella Germania nazista, ma negli Stati Uniti e in altri civilissimi e democratici paesi. Il nazismo non fece che assolutizzare e rendere sistematica una rimozione del principio di eguaglianza già ampiamente messo di fatto e di diritto in discussione in molte altre parti del mondo europeo.
Che il tutto fosse funzionale ad assetti di potere e a vantaggi di classe lo diciamo en passant. Il trionfo del capitale passava anche per queste vicende meno presentabili, che ci piaccia o no ammetterlo.
Ma perché oggi, proprio oggi che si celebra invece la condanna universale degli orrori nazisti, della strage di ebrei, rom e sinti, omosessuali, comunisti, sovversivi, malati, ecc., dovremmo ricordarci del principio di eguaglianza e applicarlo ai casi presenti? Be’, a uno sguardo non superficiale sui fatti di questi giorni (rivolte in Tunisia, Algeria, Egitto, Albania e prima ancora in Grecia) non può sfuggire che una delle cause profonde del malcontento generalizzato è la pervasiva disparità di condizioni sociali ed economiche, le aspettative decrescenti di tutta una generazione di esseri umani destinata a vivere peggio dei propri genitori, la constatazione che mentre larga parte delle popolazioni si impoveriscono, una minoranza di privilegiati prospera.
Il fallimento storico generalizzato dell’applicazione di quel principio, troppo spesso relegato alla sua accezione meramente formale, è una delle radici della situazione conflittuale contemporanea e sarà una delle ragioni dei disordini, anche violenti, di là da venire.
Perché il principio di eguaglianza, una volta enunciato e proclamato come fondante della nostra convivenza civile, è difficile da eliminare del tutto. Può essere pervertito, parzialmente vanificato, rimosso dall’agenda politica e dalle scelte economiche decisive. Ma non può essere cancellato del tutto. Né dalla memoria collettiva (appunto), né dalla storia.
Il principio di eguaglianza è il contrappeso necessario che la Modernità ha saputo ideare a contenimento delle stringenti e spietate dinamiche interne del capitalismo. Quelle stesse dinamiche che si vorrebbe oggi applicare pure e semplici, a ogni ambito della nostra vita, beni fondamentali compresi, in virtù di una loro presunta naturalità e inevitabilità, di una loro immanenza nel tessuto storico umano. Mano invisibile provvidenziale cui affidare la nostra sorte collettiva e dunque individuale. Non lo sentite anche voi, quasi ogni giorno, il reiterato richiamo ai “Mercati”, cui sarebbe necessario rispondere nelle scelte politiche macroeconomiche e sociali? Un’entità impersonale, sovranazionale, onnicomprensiva a cui rendere conto delle nostre necessità vitali.
Ma il principio di eguaglianza o è praticato concretamente o non è che un flatus vocis. L’eguaglianza o è sostanziale o non serve ad altro che a coprire retoricamente una realtà totalmente divergente. Eguaglianza intesa come rispetto per tutte le diversità, per tutte le minoranze, ma anche come garanzia generalizzata di poter portare a compimento la propria persona, di poter cercare liberamente il proprio posto nel mondo. Perché senza la concretizzazione di questo principio, anche quello parallelo di libertà perde consistenza, finisce per essere un eufemistico sinonimo di arbitrio, di difesa dei privilegi acquisiti, di discriminazione.
Attenzione: alcune parole d’ordine, alcune cornici concettuali grazie a cui si giustificavano emarginazioni, sopraffazioni e poi stermini, ricominciano a circolare liberamente anche oggi. Che a qualcuno, in una civile e democratica città dell’Italia, venga negato un diritto (per esempio di accedere a una casa a fitto controllato) per via del suo status di straniero immigrato, puzza tanto di discriminazione razziale, o sociale. Che da qualche parte in Italia si proponga, asserendone la perfetta legittimità politica e giuridica, l’eliminazione da scuole e biblioteche di alcuni libri per via delle posizioni politiche dei loro autori, sa tanto di avversione per il pensiero complesso e/o divergente, potenziale prodromo dell’eliminazione fisica, tramite apposito rogo, di quegli stessi libri, e di tutti gli altri, magari.
Insomma, oggi, nella giornata della Memoria, proviamo a esercitare sul serio questa mirabile facoltà del cervello umano. Ricordiamo e connettiamo i ricordi. Riappropriamoci di anticorpi civili e politici che qualcuno sta cercando di debilitare. Rimettiamo al centro della nostra riflessione e della nostra prassi il principio di eguaglianza, inadempiuto debito dell’umanità moderna verso se stessa. Solo a questa condizione varrà la pena di celebrare questa ricorrenza.