Ecco una conferma emblematica di tanti discorsi, fatti anche da queste parti. Una intervista a Repubblica di Paolo Fresu, il jazzista “italiano” (of course) più famoso nel mondo, sintetizza in modo quasi didascalico i cliché (altrui e nostri), le titubanze identitarie e le sindromi autocastranti di cui spesso parliamo e di cui così chiaramente soffriamo.
Cosa c’è che non va in questo articolo?
Comincerei dal solito approccio dal un lato condiscendente e dall’altro approssimativo con cui i media italiani trattano le questioni sarde, da quelle fondamentali, a quelle più futili, dai fatti di cronaca alle notizie di costume. Così Berchidda improvvisamente si trova assegnato alla provincia di Cagliari (se è importante, deve essere vicino alla città più grande e più nota). Il progetto musicale presentato da Fresu, col pretesto del proprio cinquantesimo compleanno, non sarebbe dunque una iniziativa significativa in sé, ma prima di tutto un motivo di stupore: “il grande jazz in Sardegna? stupefacente!”. Come se non accadesse ogni anno da anni, ad opera dello stesso Fresu e di tanti altri.
Ma poi anche Pauleddu nostro ci mette del suo. “La Sardegna ha dato un contributo fondamentale alla cultura del nostro paese, esportando pensatori, artisti e politici di grande livello, sia di destra che di sinistra” dichiara. Il nostro paese sarebbe l’Italia, ovviamente. Antonio Pigliaru, Sergio Atzeni, Remo Bodei o Antonio Marras sarebbero un contributo fondamentale all’Italia? Mah… Mai che si pensi a noi stessi come a una parte del mondo e al proprio contributo come a un contributo all’umanità intera. E i “politici di grande livello, sia di destra sia di sinistra” devono sempre essere menzionati, non sia mai che qualcuno si dimentichi che i vari Segni, Cossiga o Berlinguer erano sardi!
E le origini “pastorali”? Vogliamo farcele mancare? Chi in Sardegna non è figlio o nipote di pastori? Non si può essere figli di impiegati, ristoratori, operai o insegnanti: ne andrebbe della propria credibilità di sardi! Attenzione, il problema non è se sia vero o no. Di suo sarebbe una notizia neutra (il padre di Paolo Fresu era pastore, punto). Il problema è farne uno stereotipo, una conferma del mito tecnicizzato della Sardegna perennemente agreste, monodimensionale, selvaggia e fuori dal tempo, terra misteriosa in cui dall’allevamento di ovini si può passare magicamente ai palchi teatrali di tutto il mondo, in virtù di un qualche talento carsicamente nascosto, ma riemergente nelle occasioni in cui veniamo riscattati (ad opera della superiore civiltà italiana, come pensavano i padri del sardismo?) dalla nostra condizione di ignoranza e grettezza.
Beninteso, queste non sono le ragioni o le conclusioni di Paolo Fresu. Sono le connotazioni chiare ed evidenti del suo discorso così come vengono messe in risalto dal taglio giornalistico e mediatico dato alle sue parole. L’impostazione, la cornice concettuale, in cui si inseriscono le risposte di Fresu non sono date da lui, ma da chi stende e impagina il pezzo e più in generale dalla egemonia culturale in cui siamo immersi, anche nostro malgrado. A Paolo Fresu si può solo rimproverare (come però sarebbe da fare con la stragrande maggioranza di noi) l’ingenuità di confermare tali stereotipi, magari partendo da un’intenzione opposta.
Dichiarare che la Sardegna è trascurata, è considerata “l’ultimo chilometro dell’impero”, in questo senso, è un sintomo di timidezza politica, non certo di calcolo. È il segnale che si ha ancora paura di alzare lo sguardo oltre la siepe per paura che là fuori ci sia il buio. Tanto più patologica, questa timidezza, in quanto ampiamente sorpassata di fatto dalla propria vita medesima (nel caso di Paolo Fresu, come di altri). Quella soggettività a tutto tondo, rivolta al mondo, che i singoli individui sardi dimostrano di aver conquistato non la si ritiene ancora possibile per l’intera nostra collettività.
Remore psichiche profonde, dovute a un immaginario pesantemente colonizzato, e una consapevolezza storica circa la nostra ubicazione nel mondo del tutto lacunosa, fanno ancora “massa critica” rispetto alla nuova consapevolezza di noi stessi che pure si sta facendo strada a vari livelli. Sarebbe bello e opportuno che i nostri testimoni fuori della Sardegna, specie quando tale qualifica impegnativa è da loro stessi assunta come propria e riconosciuta all’esterno, maturassero maggiore consapevolezza del proprio ruolo politico e storico. Aiutiamoli a farlo.