Premonizioni

Gli eventi che scuotono la sponda sud ed est del Mediterraneo ci interrogano su molti fronti.

Il Mediterraneo è in tutto e per tutto il mare nostrum: non perché ci appartenga, quanto perché noi apparteniamo ad esso, alla sua geografia, alla sua storia. Non è pensabile che quanto succede sulle sue sponde non ci riguardi direttamente.

A parte questa considerazione generale, convalidata da millenni di storia, osservando più da vicino possiamo constatare alcune ricorrenze, nelle dinamiche in corso. Paesi non considerati nel novero di quelli più poveri del pianeta soffrono pesantemente della crisi globale, anche in termini materiali, relativamente alla soddisfazione di bisogni primari.

Ciò inevitabilmente comporta l’abbassarsi del livello di sopportazione dei disequilibri nella distribuzione delle risorse e nelle distanze socio-economiche tra la fascia più avvantaggiata e quella più povera delle popolazioni. Il tutto reso ancor meno accettabile dalla subordinazione a regimi corrotti, incentrati su figure di leader ormai anziani (dai settanta anni in su), vanamente resi presentabili mediaticamente da operazioni di maquillage chirurgico e/o dalle arti dei truccatori. Leader che si sono imposti come garanti di assetti geopolitici regionali, in virtù dell’appoggio internazionale (specialmente USA, ma anche francese e in genere occidentale), giovandosi del controllo dei mezzi di informazione di massa e della complicità dei maggiori centri di potere (economico, militare, ecc.).

Tali assetti, oltre che dall’aggravarsi delle condizioni economiche, sono messi in crisi in buona parte dall’imporsi della Rete come mezzo di comunicazione aperto, difficilmente controllabile, alla portata soprattutto dei giovani.

Proprio la mancanza di prospettive accettabili per i giovani, la netta prevalenza di aspettative decrescenti per le loro condizioni, anche in presenza di livelli di formazione ed istruzione più alti rispetto alle generazioni precedenti, sono una delle molle dell’esplosione di malcontento cui stiamo assistendo.

Tutto questo, ovviamente, al netto di altri elementi, che pure un loro peso lo hanno o lo avranno, comprese le interferenze esterne o i riposizionamenti dei centri di potere che fino ad oggi tenevano in piedi i regimi adesso contestati.

Se quanto precede non è del tutto infondato, allora non c’è che prendere atto di alcune impressionanti analogie con la situazione italiana: un regime allo sbando, incentrato sulla figura di un anziano leader, implicato in vicende di corruzione, anche morale; una distanza crescente e sempre più percepibile tra detentori di posizioni privilegiate e resto della popolazione; una situazione giovanile precaria e senza molte prospettive di miglioramento. Sono elementi che l’Italia ha in comune con i paesi oggi in subbuglio.

In questo scenario, è doveroso fare i conti con le possibili conseguenze politiche e sociali su di noi, specie considerando lo stato di crisi profonda della Sardegna. Stato di crisi fin qui sempre gestito e controllato in funzione del mantenimento dell’assetto di potere dominante, grazie a una egemonia pervasiva e occhiuta, padrona dell’offerta politica e mediatica, o di larga parte di essa.

Ma oggi questo assetto di potere mostra crepe e limiti evidenti. Abbiamo avuto un assaggio di quanto possa succedere nei mesi scorsi, con un susseguirsi di manifestazioni, non sempre pacifiche, per le vie di Cagliari, sotto le finestre o addirittura dentro le stanze del Palazzo. Una congerie di vertenze e proteste che per adesso non hanno trovato un collegamento tra di loro, né una sintesi politica. Non è detto che non succeda, però.

Quanto potrà durare infatti questo difficile equilibrio sulla lama del rasoio? Siamo sicuri che non basterà anche qui una scintilla (l’aumento del prezzo di qualche bene di prima necessità, qualche fatto particolarmente simbolico) per far scoppiare l’incendio?

È un problema che come cittadini attivi nella sfera pubblica, oltre che come cittadini e basta, dobbiamo porci, anche perché la scena politica è occupata da figuranti di basso profilo, del tutto inadatti a gestire una situazione realmente critica. Né esiste oggi come oggi una forza politica in grado di imporre una disciplina consapevole al malcontento crescente, benché fino ad ora disgregato, delle tante componenti sociali in fermento.

I nostri fratelli dirimpettai, quegli altri noi stessi che ci guardano dall’altra riva del nostro mare, ci stanno mostrando un nostro possibile futuro prossimo, ci stanno mettendo sull’avviso. La storia non è finita, né si ferma. E non ama tener conto dei desideri o delle aspettative ristrette e limitate degli individui o delle singole categorie sociali. Così come difficilmente tiene conto dell’illusorio controllo che sui processi profondi ritengono di poter esercitare le elite, le consorterie dominanti.

Sarebbe oltremodo auspicabile, date tali premesse, che tra i sardi prendesse finalmente piede una consapevolezza condivisa, il senso di appartenenza a una collettività storica dotata di una soggettività propria, da spendere  come antidoto a derive violente incontrollabili o, verso l’esterno, come forza da opporre all’imposizione di  interessi di parte o alieni.

Spendersi su questa strada, proporre orizzonti di senso condivisi, appellarsi a un bene che sia il più possibile comune, generale, al di là degli egoismi e dei campanilismi, non sarà certamente poco meritorio. L’auspicio è che possa bastare a scongiurare esiti dolorosi.