Introduzione
Nel contesto storico europeo, le caratteristiche più tipiche tradizionalmente attribuite alla Sardegna sono l’endemica povertà demografica e l’arretratezza economica. Tali fenomeni, fusi insieme nell’immagine di una terra senza storia, hanno finito per creare una vera convenzione storiografica, come se si trattasse di dogmi indubitabili, non meritevoli di accertamento critico.
Benché nel corso del XX secolo sia notevolmente migliorata la capacità di giudizio storico sui problemi dell’isola, hanno faticato a farsi largo, sia a livello accademico sia nella percezione diffusa (in primis dei sardi stessi), analisi più meditate e obiettive rispetto al radicato pregiudizio di un destino ineluttabile – perciò trascendente qualsiasi spiegazione razionale – di povertà e spopolamento. In realtà, questi due fenomeni, pur reali e drammatici, non esauriscono la storia di un popolo e della sua terra: ne costituiscono però una possibile chiave di lettura. In ogni caso hanno cause che, sia pure nella loro complessità, l’analisi storica ha il compito di discernere, senza arrendersi ai luoghi comuni.
Excursus storico
Tra VI secolo a.C. e VII d.C. la Sardegna non fu una terra demograficamente ed economicamente depressa. I pochi dati a disposizione, anche presi con beneficio d’inventario, lasciano supporre che da questi due punti di vista la distanza dalle le altre terre romanizzate dovesse essere relativa. Le pianure erano state avviate alla produzione cerealicola già sotto i cartaginesi (VI-III sec. a.C.) e il loro livello produttivo cresce certamente nei secoli di dipendenza da Roma (III a.C. – V d.C.). Le zone montane, per forza di cose a vocazione pastorale, soffrono l’espansione agricola indotta dai dominatori, ma (specie in epoca imperiale) beneficiano anche della possibilità di scambi generata dalla cresciuta articolazione produttiva e commerciale. La stessa endemia della malaria non aveva impedito in epoca punica e ancor più romana il sorgere e il prosperare sulle coste sarde, fatalmente esposte alla colonizzazione della zanzara anofele, di grandi città tra le più fiorenti del Mediterraneo occidentale. La densità di popolazione dell’isola tra età repubblicana e principato da alcuni storici viene valutata intorno ai 300’000 abitanti. Altri riducono drasticamente tale stima, benché ciò comporti un disaccordo con le fonti disponibili.
Gli ultimi secoli dell’antichità sarda (V-VIII) sono caratterizzati da alterne vicende politiche e socio-economiche. Non va però sottovalutato che mentre la penisola italica veniva sconvolta prima dalla guerra greco-gotica (anni 535-553), poi dall’invasione longobarda (seconda metà VI secolo), la Sardegna, liberata senza grandi traumi dalla dominazione vandalica (a. 534) rimaneva immune da ulteriori conflitti, mantenendo integre le strutture istituzionali e l’organizzazione socio-economica imperiali, tanto da essere una delle principali fonti di approvvigionamento frumentario per la Roma papale del primo medioevo. Contemporaneamente, nelle regioni interne della Barbaria le comunità non sottomesse ivi stanziate danno vita, a quanto sembra, ad una confederazione dai caratteri innovativi rispetto alla tradizione tribale. In ogni caso i dati disponibili sono per lo più indiretti, comunque insufficienti a quantificare con approssimazione accettabile i mutamenti produttivi e demografici.
Dal secolo VIII, com’è noto, l’espansione araba nel Mediterraneo e l’isolamento dal resto dell’Impero Bizantino, costringono la Sardegna a rinchiudersi in se stessa, con la conseguente contrazione dei traffici e dei contatti culturali col resto delle terre romanizzate. È soprattutto allora che le coste si spopolano, lasciando campo libero a paludi e acquitrini, mentre il regime economico si riorganizza in forme di sussistenza e le istituzioni politiche si evolvono di conseguenza.
Le forme abitative, nel periodo tra la fine di fatto della dipendenza da Bisanzio (VIII-IX secolo) e la comparsa sulla scena internazionale dei regni giudicali (XI secolo), si cristallizzano nella tipologia diffusa e dispersa ereditata probabilmente da tradizioni antichissime mai del tutto abbandonate. Il nucleo fondamentale del nuovo sistema, disciplinato dall’ordinamento giuridico giudicale, ha alla sua base la comunità del villaggio (sa bidda), struttura socio-economica votata all’autosufficienza e basata sulla gestione comunitaria delle risorse. Si tratta di una forma di organizzazione della convivenza umana dotata di forti profili difensivi, in un mondo sottoposto ad una evoluzione problematica. A lungo le tipologie produttive e distributive, parcellizzate e disperse in un territorio indubbiamente vasto, furono sufficienti alla sopravvivenza e ad un modesto accumulo di surplus. Di conseguenza non richiesero sforzi maggiori di innovazione e colonizzazione di nuove terre, definendo così una società poco dinamica, anche se non per questo poco articolata. La scarsa antropizzazione del territorio è inestricabilmente connessa con tale regime produttivo-distributivo, manifestandosi, a seconda del punto di partenza dell’analisi, come causa ovvero come effetto del medesimo. Ma non si tratta di processi estranei ai principali fenomeni sociali ed economici europei del periodo. Se si prescinde dai possedimenti arabi (Spagna e Sicilia), a parte il prepotente urbanesimo che caratterizzò la penisola italica centro-settentrionale dopo il Mille, il resto del continente europeo presenta dinamiche economiche e demografiche a cui la Sardegna, certo in forme tipiche, si limita ad allinearsi.
In ogni caso è giusto sottolineare, in un contesto oggettivamente difficile com’era la situazione dell’isola tra VIII e XI secolo, l’originalità e l’efficacia del sistema economico e politico giudicale, che alle forme di convivenza e di produzione scaturite dall’emergenza diede un ordinamento giuridico condiviso e forme istituzionali stabili.
Fenomeni diversi e confliggenti caratterizzano l’ultima fase dell’epoca giudicale (XII-XIV secolo), dando adito ad interpretazioni diverse. In generale, non sembra lecito ipotizzare una significativa contrazione produttiva e demografica, bensì il contrario. Ma qualsiasi sviluppo socio-economico è difficilmente quantificabile, vista la perdurante esiguità documentaria. La tradizionale economia di sussistenza basata sulle assegnazioni a sorte delle terre e sulle rotazioni agrarie e l’economia mercantile e monetaria di origine esogena si allacciano e si intersecano, con esiti non facili da discernere. La crescente urbanizzazione tra metà del XIII e metà del XIV secolo (Sassari, Oristano, Castel di Calari, Villa di Chiesa, Castel Genovese) da un lato genera dinamiche economiche di rottura, rispetto al modello classico del villaggio autosufficiente ad economia chiusa, dall’altro probabilmente contribuisce in qualche misura all’incipiente spopolamento rurale. Le risorse sarde (uomini, legname, derrate alimentari, lana e poi soprattutto argento) prendono la via dei grandi mercati mediterranei, ma ciò non modifica sostanzialmente il regime produttivo prevalente, né le condizioni di vita della popolazione. Eppure il fenomeno dello scambio diseguale non significa necessariamente la sottomissione passiva dell’intera isola agli interessi pisani, i quali dovettero invece sempre essere mediati dalle istituzioni giudicali. Nel complesso, insomma, è anacronistico definire per questo ambito cronologico rapporti economico-politici di tipo propriamente coloniale.
Quanto alla dimensione più strettamente demografica, benché sul finire dell’epoca giudicale si abbiano i primi riscontri documentari, tuttavia non c’è accordo tra gli studiosi. Secondo stime approssimative in quest’arco cronologico dovevano contarsi in Sardegna tra gli 800 e i 1100 centri abitati. La popolazione dell’isola doveva aggirarsi tra le 120’000 e le 500’000 unità; la prima cifra sembra però eccessivamente bassa, alla luce del numero di centri abitati e supponendo una media di nuclei familiari per villaggio sufficiente a mantenere in piedi il sistema produttivo locale. In ogni caso, non sembra di poter affermare che l’isola fosse allora una terra drammaticamente spopolata, rispetto al resto d’Europa.
Le cose cambiano radicalmente nel corso del XIV secolo, in concomitanza (non casuale) con l’avvento sulla scena dei catalano-aragonesi. Essi, come conquistatori, impongono una rottura drastica con le dinamiche socio-economiche fondamentali dell’isola. Più che la componente vessatoria del regime feudale da essi importato, pure innegabile, il vero discrimine col passato è da un lato il mutamento nel rapporto tra le comunità e il potere centrale, dall’altro tra le comunità e il territorio. Mutamenti tali da suscitare subitaneo malcontento nella popolazione, nonché ragionevoli timori alla corte arborense, pure ancora alleata della corona aragonese.
Giunti alla metà del XIV secolo, si annunciano i prodromi del crollo economico e demografico da cui l’isola non saprà più riprendersi per lunghi secoli. Il sistema feudale aragonese aveva già imbrigliato e soffocato le attività produttive più dinamiche e assoggettato quelle tradizionali agli interessi signorili e della corona. A questo si aggiungeranno l’imperversare della Peste Nera e soprattutto, forse in modo ancor più determinante, lo stato di guerra permanente che da allora e per un settantennio sconvolgerà l’intera isola.
Il lungo e acerrimo conflitto tra l’Arborea giudicale e la corona d’Aragona titolare del Regno di Sardegna sarà gravido di conseguenze di lunga durata. La sconfitta finale dell’Arborea lascerà campo aperto all’imposizione degli istitui feudali e alla totale subordinazione dell’isola agli interessi generali, sia economici sia militari, della Corona spagnola. Persa importanza come meta di scali commerciali per l’imporsi delle rotte oceaniche, perseguitata dalle incursioni corsare barbaresche, cui spesso si aggiungeranno quelle francesi e quelle inglesi, l’isola è infine coinvolta nella lunga e profonda crisi iberica del XVII secolo, con difese meno efficaci rispetto ad altre terre dell’immenso impero spagnolo.
Già nel censimento del 1485 (quindi subito dopo la fallimentare ribellione di Leonardo di Alagon) i villaggi sardi risultano solo 369, da circa 800 che erano un secolo prima. Nel frattempo, ridotte le attività commerciali dei porti e spente quelle estrattive dei centri minerari, alle comunità sarde non rimane che ancorarsi agli ancestrali usi comunitari, appena sufficienti – e spesso insufficienti – a garantire la sopravvivenza delle popolazioni rurali di fronte alle esazioni signorili. C’è da aggiungere che il XVI e il XVII secolo sono per la Spagna anche due secoli di guerra, prima contro Francia e Impero Turco, poi nel nord Europa e contro l’Inghilterra. Le ambizioni egemoniche iberiche richiedono anche alla Sardegna un pesante contributo d’uomini e la costringono a continui stati d’assedio che concorrono drammaticamente a depauperarla di uomini e risorse.
I secenteschi tentativi di colonizzazione delle terre più radicalmente spopolate (la Nurra, la Gallura, il Sarrabus e il bacino del Sulcis-Iglesiente) non contribuiranno ad una inversione di rotta demografica né daranno vita a realtà produttive di rilevanza generale.
La situazione socio-economica sarda si rapprende su un livello di arretratezza da cui non uscirà praticamente più.
Naturalmente il giudizio negativo circa il periodo spagnolo del Regno di Sardegna non deve fare velo sulla complessità dei processi e sui loro diversi risvolti. La penuria di uomini e la debolezza economica si accompagnano, a volte giustapponendosi incoerentemente, con fenomeni culturali ai quali dobbiamo oggi gran parte del nostro immaginario collettivo. Molte grandi feste padronali, i riti della settimana santa, il vestiario tipico, molte espressioni artistiche e musicali sono un’eredità di quel periodo.
Il passaggio della Corona di Sardegna in capo ai Savoia lascia sostanzialmente immutate le condizioni dell’isola. D’altra parte, l’esplicito mantenimento dei privilegi signorili, concordato dalla nuova casa regnante con l’aristocrazia sarda, non lascia margini per riforme radicali. Riforme che in ogni caso l’amministrazione sabauda si guarda bene dal tentare. La situazione economica ristagna e quella demografica è sempre precaria. Il censimento del 1751 registra l’esistenza di 355 centri abitati, numero uguale e addirittura inferiore rispetto alle stime di tre secoli prima, con un numero di abitanti computabile intorno alle 360’000 unità.
Solo nella seconda metà del XVIII secolo l’amministrazione piemontese provvede ad una generale razionalizzazione centralista, che tuttavia finirà per scontentare tutti: la popolazione, comunque sottoposta al diritto feudale e gradualmente privata delle residue potestà locali; l’esigua borghesia, limitata e impastoiata dalla burocrazia piemontese e dai limiti imposti dal regime baronale; la nobiltà, che vede messe in pericolo antiche prerogative senza ancora poter aspirare alle più alte cariche del regno.
L’adozione di strumenti di credito agrario (i monti granatici), sebbene riesca in qualche misura a sanare le storture peggiori di un sistema estremamente esposto ai capricci meteorologici, non riesce a far mutare significativamente la situazione. Le città, e soprattutto Cagliari, in tale contesto continuano a vivere in condizioni di parassitismo verso le campagne. Le attività artigianali sono al livello minimo, quelle commerciali troppo vincolate dalle penose condizioni dei porti e della flotta, nonché soggette a misure politiche che ne frenano le spontanee possibilità di sviluppo. Già verso la fine del XVIII secolo qualche osservatore più sensibile agli sviluppi filosofici e scientifici del continente europeo comincia a intravedere i problemi in una chiave moderna. Solitamente la ricetta auspicata è l’abolizione degli usi comunitari e la promozione a livello diffuso della proprietà piena della terra. Passeranno la stagione rivoluzionaria (1794-1802) e i primi anni della Restaurazione prima che si riprenda a parlare di riforme, in una situazione sociale ed economica sempre più degradata.
Tuttavia le riforme finalmente attuate non produrranno il progresso tanto atteso. Le chiusure delle terre e il progressivo smantellamento del sistema di usi comunitari e diritti civici (a partire dal 1820) provocheranno repentini e sproporzionati arricchimenti di pochi, favorendo ancor di più la rendita a danno dell’investimento e del lavoro. La pretesa di catapultare direttamente nella modernità un’intera popolazione ancorata a ritmi naturali, ad usi ancestrali e ad una percezione del tempo ciclica, senza la gradualità e la maturazione spontanea che tale passaggio aveva avuto altrove, si rivela presto fallimentare. La stessa abolizione dei feudi (1838), le cui spese di riscatto da parte dello stato sono accollate alle medesime comunità che per secoli avevano subito il peso maggiore del regime baronale, non fa che generare ulteriore scontento. Condizioni materiali e culturali tanto precarie spingono alla ribellione. Tipica del XIX secolo è il ciclico riproporsi di veri e propri moti popolari, spesso spontanei, altre volte strumentali a giochi di potere tra maggiorenti, o tra istituzioni civili e chiesa cattolica. Contemporaneamente si verifica la prima presa di coscienza della storia e della realtà dell’isola da parte dell’emergente classe intellettuale sarda, per lo più di matrice liberale. In questo quadro di attese e desideri di modernizzazione si iscrive la richiesta di abolizione delle antiche istituzioni del regno (carica viceregia, Parlamento, supremo tribunale della Reale Udienza), col conseguente approdo all’Unione Perfetta con gli stati del continente (1847). Non passeranno molti anni perché la delusione per gli effetti di tale scelta politica susciti le prime manifestazioni di pensiero autonomista.
In questo stesso periodo i tentativi di sfruttare le indubbie risorse dell’isola (sottosuolo, legname, sughero, pelli, formaggio) generano un ciclo economico di tipo (propriamente) coloniale: capitali e competenze tecniche stranieri prendono in appalto intere porzioni del territorio sardo generando un flusso in uscita di materie prime grezze e un flusso in entrata di prodotti finiti, spesso con l’obbligo per i lavoratori di acquisto esclusivo a prezzi maggiori di quelli di mercato. La popolazione sarda, che all’inizio del XIX secolo ammontava a circa 500’000 abitanti, in occasione del primo censimento del Regno d’Italia (1861) viene computata ancora in 573’000 abitanti.
Solo nell’ultimo trentennio del XIX secolo e ancor più nel primo mezzo secolo del XX la crescita demografica subisce una certa accelerazione, benché in tale periodo non manchino i fenomeni regressivi. Pauperismo e analfabetismo relegano l’isola in coda alle statistiche del regno e ha esiti drammatici la denuncia dei trattati commerciali con la Francia (1887), con il conseguente abbandono delle campagne, la recrudescenza dei fenomeni criminali e la durissima guerra al banditismo. A tutto ciò infine segue la Prima Guerra Mondiale. Ma un relativo miglioramento delle condizioni materiali tra anni Venti e anni Trenta fa sì che nel 1936 la Sardegna superi il milione di abitanti: il doppio rispetto a un secolo prima.
Alla fine del secondo conflitto mondiale (dicembre 1946), in condizioni ovviamente difficili, specie per le città, ma non drammatiche in termini assoluti, la popolazione sarda è salita a 1’213’876 abitanti.
La stagione della ricostruzione, con l’avvio sia pure stentato dell’autonomia e le drastiche misure antimalariche, vedrà un ulteriore incremento demografico che porterà gli abitanti all’ammontare di 1’276’013 nel 1951, quasi 63’000 abitanti in più nel giro di cinque anni. Del resto quell’anno, il 1951, merita di essere ricordato anche per la storica circostanza di essere il primo da molti secoli durante il quale nessun sardo contrasse la malaria.
Che le cose sull’isola non siano comunque mutate radicalmente lo segnala la stasi della crescita demografica del decennio successivo (solo all’incirca 7’500 abitanti in più nel 1961), dovuta in primo luogo alla nuova ondata migratoria.
Le misure legislative straordinarie a favore dello sviluppo, meglio note come Piano di Rinascita, daranno un contributo effimero alla crescita economica sarda, causando a medio e lungo termine più problemi di quanti ne abbia risolto. Ne fa fede l’esito dell’inchiesta parlamentare della Commissione presieduta dal senatore Giuseppe Medici, conclusa nel 1972. Dalla relazione finale emerge un quadro desolante della realtà socio-economica sarda. Anche in seguito alle conclusioni della Commissione Medici il governo italiano deciderà nel 1974 di finanziare un nuovo intervento straordinario (il c.d. Secondo Piano di Rinascita), con esiti però ancora una volta deludenti. Nonostante questo, nel 1975 la popolazione sarda supera il 1’500’000 abitanti. Negli anni Novanta raggiunge 1’600’000 abitanti, ma alla fine del XX secolo si impone una stasi demografica, dovuta ad un bassissimo tasso di natalità e a nuovi fenomeni migratori. Negli stessi anni si manifesta prepotentemente una nuova urbanizzazione, dovuta però allo spopolamento delle zone interne e al trasferimento di molte famiglie nelle città maggiori.
Nel 1999 (giugno), in un momento di crisi profonda della rappresentanza politica e nel corso dell’ennesima, delicata fase economica di transizione, gli abitanti della Sardegna sono computati in 1’651’682. Al principio del XXI secolo la densità di popolazione (69 ab./Km2) è la terza più bassa in Italia dopo Val d’Aosta e Basilicata, una delle più basse d’Europa. Il prodotto interno lordo è ancora il 57% di quello delle regioni settentrionali italiane. Le carenze nelle infrastrutture interne e nelle comunicazioni con l’esterno sono ancora notevoli. La cura del territorio ancora limitata. Nelle tabelle di aggiornamento degli obiettivi fissati per il 2010 nella conferenza di Lisbona (capacità di innovazione tecnologica, occupazione, occupazione femminile, finanziamento della ricerca) la Sardegna in Italia risulta ancora al 19° posto su 20 regioni.
Nonostante questo, forse anche in virtù dell’aumentata mobilità interna e verso l’esterno e di un livello d’istruzione crescente, non mancano i segnali di nuove energie, di un dinamismo creativo che vorrebbe conciliare attività tradizionali, salvaguardia del patrimonio ambientale e innovazione tecnologica. Quanto questi segnali potranno tramutarsi in progresso sociale, economico ed anche demografico, sarà ovviamente il futuro a dirlo.
Ipotesi critica
Ciò che si evince dall’esame dei dati economici e demografici in un arco di tempo tanto ampio è che la scarsa densità di popolazione e l’arretratezza economica della Sardegna non si possono attribuire in modo deterministico a cause oggettive evidenti come le caratteristiche climatiche e geo-morfologiche dell’isola. È senz’altro vero che l’estensione in latitudine, l’esposizione ai venti, la natura del suolo e del regime idrico, la malaria, hanno sempre fatto della Sardegna una terra difficile su cui vivere. Ma gli strumenti a disposizione per renderla produttiva sono stati a lungo assai primitivi, destinati alla sussistenza delle comunità o alla soddisfazione di interessi alieni, per lo più parassitari, senza positive ricadute sul territorio. Inoltre, altrettanto tradizionalmente, l’isola è stata preziosa fonte di risorse per chi deteneva di volta in volta il controllo del potere economico e politico, quasi sempre entità non sarde. Ciò che ha fatto in modo che i limiti naturali prevalessero sulle altrettanto naturali potenzialità economiche è stata dunque la gestione e la distribuzione delle risorse, non la loro assenza. Il problema è complesso, dunque, e di non facile lettura.
In questa sede, senza voler negare la rilevanza di altre concause, concentrerei l’attenzione in particolare sulle dinamiche politiche e culturali. Nello specifico, da un lato sulla questione della sovranità, dall’altro su quella del particolarismo. Sovranità intesa come fonte di legittimità dell’ordinamento giuridico, nonché come nesso tra popolazione, territorio e formazione delle decisioni politiche. Particolarismo, a sua volta inteso come propensione diffusa ad esaurire la sfera dei propri interessi, concreti e non, nel proprio ambito individuale, locale o sociale.
L’epoca giudicale, al di là delle nostalgie romantiche e delle ricostruzioni agiografiche, da questo punto di vista si presenta come un unicum nella storia sarda per via della stretta corrispondenza tra economia, società ed ordinamento giuridico. Si tratta di un periodo storico in cui le istituzioni detentrici della sovranità sono di matrice autoctona, in un sistema compiuto e integrato, visibile e comprensibile nei suoi meccanismi, dalla base al vertice, all’intera collettività. In tale sistema, gli interessi e le prerogative delle varie comunità locali si integrano in un ordine superiore senza esserne frustrati. È una condizione che obiettivamente i sardi non conosceranno mai più.
Al contrario, la lunga vicenda del Regno di Sardegna si caratterizza per lo spostamento verso l’esterno non solo e non tanto dell’autorità politica, ma soprattutto del centro degli interessi che quella era preposta a garantire e realizzare. Sebbene la condizione formale del regno fosse quella di un’entità superiorem non recognoscens, al pari degli altri regni costituenti la composita Corona prima aragonese, poi spagnola, ciò non annulla la realtà concreta di una terra asservita a interessi economici e strategie politiche totalmente esogeni. In questo senso si verifica una perdita netta di sovranità. Tanto più in quanto si afferma la tendenza delle classi dominanti sarde a disinteressarsi delle sorti generali dell’isola, per privilegiare piuttosto la conservazione o l’accrescimento delle proprie posizioni sociali, politiche ed economiche. Tendenza che non muta al passaggio della corona in capo ai Savoia né, successivamente, con le riforme ottocentesche. Persino le periodiche manifestazioni di insofferenza della classe baronale sarda si ascrivono più facilmente all’ambizione dei maggiorenti locali di conquistare un migliore e più proficuo inserimento nel sistema di potere spagnolo e poi sabaudo, che a un consapevole disegno politico di riconquista della sovranità perduta. L’abolizione delle istituzioni autonome del regno sardo e l’Unione Perfetta con gli stati del continente, generate anch’esse dall’aspettativa di omologazione sociale e politica dell’emergente borghesia isolana, in questo senso si rivelano da subito scelte infelici: si riducono ben presto alla rinuncia a quel residuo barlume di sovranità che, benché ormai solo formale, avrebbe potuto costituire una risorsa politica importante anche negli anni a venire. Con l’Unità e la nuova denominazione dello stato, da Regno di Sardegna a Regno d’Italia, l’isola perde qualsiasi titolo ad un ruolo significativo nel nuovo contesto politico.
Nel frattempo è andato radicalizzandosi il particolarismo localistico tipico dell’isola. La singola comunità familiare o al massimo del villaggio ha come punto di riferimento, per le questioni amministrative, per quelle fiscali, per quelle giurisdizionali, solo il signore locale, o più spesso i suoi rappresentanti in loco. Lo stato, il re, sono entità lontane, che si esprimono in una lingua straniera e secondo sistemi di regole e di valori alieni e spesso incomprensibili. Il grado di partecipazione della grande maggioranza dei sardi alla sfera generale è legato a contingenze locali: una carestia, la minaccia di un attacco straniero, un’incursione barbaresca. La produzione di senso e la stessa sopravvivenza materiale si realizzano entro i confini della bidda, al più dell’immediato circondario. Rispetto all’epoca giudicale non c’è alcun progresso in termini di apertura reale delle comunità, semmai al contrario un’ulteriore chiusura, specie se il fenomeno è messo in relazione con i contemporanei sviluppi della modernità nel resto d’Europa.
Falliti i menzionati tentativi ottocenteschi di valorizzazione e promozione della storia, della cultura e della lingua della Sardegna da parte della nuova classe intellettuale isolana e rimasti sterili i contemporanei primordi del pensiero autonomista, un barlume di resipiscenza si verifica nel primo dopoguerra, nel corso del dibattito suscitato dai reduci del fronte, poi sfociato nella fondazione del Partito Sardo d’Azione. Irresolutezze, divisioni interne e il fatidico avvento del regime fascista decreteranno la fine di questa stagione.
Dopo il secondo conflitto mondiale, l’approvazione dello Statuto Speciale, le misure anti-malariche e le promesse di una legislazione votata allo sviluppo complessivo dell’isola sembrano dare l’avvio ad una fase diversa. In realtà lo spazio di manovra politica ed economica della neo-costituita regione autonoma è già depotenziato in partenza. In più la nuova classe egemone sarda si limita quasi sempre a fungere da mediatrice tra i centri di distribuzione delle risorse finanziarie (banche, stato italiano, Comunità Europea), gli interessi speculativi (industriali e immobiliari) e le proprie clientele, garantendo da un lato lo status quo politico e sociale, dall’altro la conservazione dei propri privilegi. Una visione “patrimoniale” della rappresentanza politica e dell’accesso al reddito di tipo ancora “feudale”, che ha contribuito non poco a frustrare le risorse spontanee e più dinamiche della società.
La mancanza di una strategia politica di ampio respiro nella classe dirigente sarda degli ultimi sessant’anni è dovuta in gran parte al rifiuto pressoché totale delle responsabilità di governo, ossia alla rinuncia a qualsiasi forma di “sovranità”, anche di quelle porzioni di essa pure formalmente garantite dallo Statuto autonomo, nonché ad una diffusa percezione degli interessi ancora e sempre di tipo particolaristico, sia in termini territoriali sia in termini di appartenenza politica o sociale, che la classe dominante anziché combattere ha alimentato. Le conseguenze sono ben note, in termini non solo di ritardi infrastrutturali e produttivi, ma anche di insufficiente coesione interna della comunità isolana e di scarsa sensibilità (a tutti i livelli) verso la sfera pubblica e gli interessi generali.
L’attuale inversione di tendenza, specie nel crescente senso di appartenenza ad una sola terra e ad un solo popolo (come ci piace definirci) e nella rivendicazione di forme sostanziali di autodeterminazione, è un processo in corso i cui effetti non si sono ancora del tutto manifestati.
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