Sovranità o autonomia?

La Corte Costituzionale ha accolto il ricorso del Governo italiano su una legge della regione Sardegna (LR 23 maggio 2006 n.7, istitutiva della Consulta per la redazione del nuovo statuto regionale) in cui si menziona esplicitamente la sovranità del popolo sardo. Secondo i giudici della Consulta, non sarebbe congruo accostare autonomia e sovranità (come si fa nel testo della legge in questione) in quanto i due principi sarebbero antitetici e incompatibili. Il ricorso del Governo italiano, naturalmente, nasce dall’allarme suscitato dalla parola “sovranità”, a prescindere dal merito e dalla forma del testo normativo. La sola, vaghissima evocazione di una pretesa di autodeterminazione da parte dei sardi spaventa lo Stato. La tempestività (inconsueta, bisogna sottolineare) con cui i Governi, tutti i Governi italici, intervengono nelle questioni relative all’autodeterminazione dei sardi è significativa.

Per anni, ad esempio, la regione autonoma sarda non ha potuto far entrare in vigore alcuna norma sulla lingua e la cultura dell’Isola, proprio a causa dei continui ricorsi dello Stato contro una simile eventualità. Salvo poi, in un momento di distrazione (o di resipiscenza, chissà) inserire la lingua sarda in tutte le sue varianti tra le lingue minoritarie esistenti all’interno dei confini italiani (L 482/99). Il passo era e rimane azzardato: riconoscere il sardo come lingua minoritaria, quindi i sardi come minoranza linguistica, può indurre a trarre ulteriori conclusioni, non tutte accettabili nella logica di “una nazione/uno stato” (quelli italiani, ovviamente) che dal Risorgimento e poi dal Fascismo a oggi imperversa nel mondo storiografico e politico.

Insomma, accettare a cuor leggero una pretesa, sia pur formale e retorica, di sovranità dei sardi sulla propria terra, diventa potenzialmente eversivo per l’ordine costituito.

Eppure la Costituzione della Repubblica Italiana parla chiaro: “La sovranità appartiene al popolo”, recita il secondo comma dell’art. 1. Sovranità, si specifica subito dopo, da esercitare in conformità del dettato costituzionale e delle leggi dello stato, è vero. Ma nulla nella previsione normativa sarda lascia supporre un’intenzione diversa. E d’altra parte se la sovranità appartiene al popolo, specificare in quali termini normativi essa debba essere esercitata da una specifica frazione del popolo (i sardi) su una specifica frazione del territorio (la Sardegna, un’isola) non fa che dare attuazione alla Costituzione medesima, in modo trasparente e nient’affatto eversivo.

Ma qui, temo, gioca un ruolo la cattiva coscienza dello Stato italico. I suoi rappresentanti sono da sempre portati a considerare la Sardegna come una colonia oltremarina buona per ogni esperimento, al limite come meta turistico/ludica, comunque strategicamente importante (sia dal punto di vista economico sia da quello militare), ma senza diritti di cittadinanza, al di là dei proclami ipocriti di amicizia e rispetto con cui si vela il malcelato disprezzo verso una genia tradizionalmente problematica e minus habens. Inoltre, sia pure ad un livello sub-cosciente, il sistema di potere attualmente dominante in Italia percepisce la pericolosità di un fenomeno annunciato da qualche anno e ormai emergente alla luce del sole: il ribaltamento della posizione politica e culturale della Sardegna da oggetto a soggetto storico. È un processo ancora in corso, ma sempre meno controllabile, che inevitabilmente porterà di qui a pochi decenni a ridisegnare i rapporti tra Italia e Sardegna. Ciò che rimane da verificare è se si tratterà di un processo pacifico, governato politicamente nell’ambito di soluzioni istituzionali condivise, ovvero di una svolta traumatica e più o meno violenta. I segnali che la gerontocrazia italica invia quasi quotidianamente (anche attraverso l’azione dei suoi “ascari” in loco) sono pessimi. Vedremo nei prossimi anni.