
Una sfilata di alta moda a contenuto sardo scatena entusiasmi e polemiche. L’assalto coloniale, fatto con la scusa della transizione energetica, accende gli animi. Turismo sì, turismo no. Temi complessi, spesso banalizzati, in cui però la costante è l’elusione del vero nodo.
Qualche giorno fa è stata data la notizia di una sfilata del marchio di moda Dolce&Gabbana ispirata al vestiario “tradizionale” sardo. I media isolani ne hanno parlato come di un fatto di rilievo, un riconoscimento della nostra “identità” da parte di “gente importante”. Un po’ la solita sindrome da colonizzati che ci portiamo appresso da tempo.
Dello stesso tenore gli articoli entusiasti per la presenza di Jeff Bezos in Sardegna, con tanto di commossa gratitudine per aver accolto presso la sua augusta persona nientemeno che una delegazione dei Boes e Merdules di Ottana. Vestiti di tutto punto, in pieno luglio, come fosse gennaio.
È davvero faticoso stare appresso a tutte le manifestazioni di subalternità e di genuflessione auto-colonizzata a cui assistiamo costantemente. È faticoso perché bisogna contrastare una narrazione diffusa, veicolata dai maggiori mass media e anche sui social da pagine “identitarie” inclini all’auto-esotismo (ehm), e largamente introiettata da una grossa fetta della popolazione sarda.
La sfilata di D&G ha suscitato anche polemiche, va detto. Alcune persone, sui social, hanno gridato alla profanazione: il vestiario “tradizionale” sardo non deve essere sfruttato da nessuno, tanto meno se lo si rivende come “Made in Italy”.
Questo tipo di obiezioni non mi convince. L’alta moda è un settore creativo in cui si attinge a tutto quello che si può. Ispirarsi al vestiario “tradizionale” sardo non è una mancanza di rispetto (anche perché l’operazione è dichiarata), non è un atto di prepotenza. Non ha insomma, da questo lato qui, alcuna valenza negativa. Al di là del fatto che possano piacere o non piacere Dolce e Gabbana, sia come stilisti, sia come personaggi pubblici.
L’aspetto che si può deplorare è caso mai la narrazione (tossica) che ha accompagnato la sfilata, quella relativa alla Sardegna presentata come terra antica e ferma nel tempo, esotica, incontaminata, dal mare bellissimo, e via stereotipizzando.
La stessa pretesa di tradizionalità del vestiario sardo è una sorta di mito identitario su cui dovremmo riflettere. E decostruirlo per bene. Non lo farò in questa sede, ma va detto che molti “costumi” sardi sono invenzioni contemporanee e comunque la fossilizzazione flolklorica di usi vestiarii di fine Ottocento ha in ogni caso poco di tradizionale, anche quando i pezzi, i tessuti e gli stili siano autentici.
Insomma, le attenzioni dei media e delle persone compulsivamente dedite a commentare questo tipo di fatti si sono concentrate malamente su aspetti di contorno, con una notevole dose di fraintendimenti. Sbagliando focus, si perde di vista il vero problema. Vale anche per la questione dell’assalto coloniale in ambito energetico.
Anche qui, ci si divide spesso su aspetti rilevanti, ma perdendo di vista il nucleo problematico dell’intera faccenda.
Andria Pili, su FB, chiamando in causa un articolo di Susana Batel, studiosa del ISCTE-Instituto Universitário de Lisboa, ha scritto:
Susana Batel est una psicologa ambientali, chircadora de su Centro de Investigação e Intervenção Social de s’Universidadi de Lisbona. Issa, inghitzendi de is cuntzetus de sa critica postcoloniale e decoloniale e tenendi in contu ca su cuntzetu de giustesa e “sustainability” ambientali no bastet, at iscritu de “renawable energy colonialism” definindiddu comenti su materializai de relatas socioistoricas, sociopsicologicas, economicas, politicas de podere cun respetu a s’impreu de s’energia rinovabile e is cusseguentis apoderamentus de ispatziu e risorsas.
Custu cuntzetu pertocat su dominai unu logu o unu pòpulu a manera de fai energia renovàbili, in dimensionis diferentis: transnatzionali, intra Nord e Sud globali o atressu de s’atzioni in unu logu de capitalis de meda natzionis, addia de is relatas intre duus Istadus; internatzionali, intra duus Istadus-Natzionis o aintru de su matessi Istadu puru, cando b’at natzionis diferentis, po essempru s’Inglaterra chi isfrutat su Galles, Puerto Rico in antis de is USA; intranatzionali, intra tzentrus e periferias, tzidadis e sartus, intra is guvernus e is comunidadis indigenas. Custa forma de colonialismu si mustrat comenti apoderamentu de terra e energia, stigmatizatzioni de is logus, disegalidadi, desacatu de su paisagiu, de sa cultura e de is maneras de bivi is logus. In prus, est una manera po fai sighiri su colonialismu e ponni a banda is comunidadis nativas de is decisionis.
La questione, insomma, non è una fissazione da sindrome NIMBY o un vezzo da “professionisti della protesta”, come amano dire i sostenitori della (ag)giunta Todde, bensì un tema rilevante negli studi sociali a livello internazionale.
Il nodo della transizione energetica “alla sarda” (o forse meglio “all’italiana”) è precisamente la sua natura eminentemente coloniale. Non è la questione delle rinnovabili in quanto tali. Non è la questione della negazione della crisi climatica (ma direi più in generale ambientale e ecologica). Non è nemmeno la questione del volersi sottrarre alla “nostra parte”, come abitatori dell’isola sarda, nella transizione energetica globale.
Chi mette in prima fila queste argomentazioni, o lo fa strumentalmente, per far deragliare il dibattito, o lo fa per ignoranza. In entrambi i casi non va bene affatto.
Discutere di questa faccenda puntando su aspetti specifici *che non sono quelli decisivi*, alimenta la confusione, distrae, fa sprecare energie, divide inutilmente il campo.
C’è chi, per esempio, non senza qualche ragionamento sensato, difende la realizzazione del Tyrrenian Link. Anche qui, la faccenda non è astratta. Non si tratta di ragionare sulla necessità di un megacavo che connetta Sardegna, Sicilia e penisola italiana. A certe condizioni e con le dovute precauzioni potrebbe essere anche una misura utile alla Sardegna. Ma il tema *non è questo*.
Il tema è: perché si fa, perché ora, a favore di chi, perché lì e non altrove, perché in queste modalità. Ossia, è precisamente la questione dell’approccio coloniale e della subalternità – assunta come scontata – della Sardegna e di chi la abita. Come fosse una terra non antropizzata, o comunque “sottosviluppata”, a disposizione del buon civilizzatore bianco e delle sue sacrosante esigenze.
Le dichiarazioni recentissime della stessa Terna, per bocca di Giacomo Donnini, non lasciano adito a dubbi, sulla natura dell’operazione:
L’energia delle fonti rinnovabili è per sua natura intermittente e pertanto dobbiamo prevedere un’importante capacità di trasporto: una rete che consenta di prelevarla dove viene prodotta e di portarla dove viene consumata, sostanzialmente quindi da Sud verso Nord, dove si concentra la maggior parte dei consumi civili e industriali.
Nessuno scrupolo, anzi la convinzione che sia giusto agire così, nei superiori interessi dell’Italia (del nord), ossia della civiltà, di fronte alle zone meno civilizzate e tributarie, della cui sorte non è rilevante occuparsi.
Lo stesso problema riguarda il settore turistico. Duraturo mito della narrazione dominante nella Sardegna contemporanea, il turismo è solitamente presentato come risorsa decisiva della nostra economia. In modo singolare – e significativo – la stessa mitologia si ritrova nei discorsi di tante persone sarde e in quelli di molti turisti (soprattutto italiani).
La Sardegna dovrebbe/potrebbe vivere di turismo, si dice. Spesso come auspicio, e al contempo come atto d’accusa verso l’inettitudine atavica della gente sarda, incapace di sfruttare al meglio una tele, enorme risorsa.
I discorsi di turisti scocciati per qualche disservizio (magari immaginario), che minacciano di lasciare l’isola al suo triste destino di abbandono senza la loro presenza salvifica, sono pressoché quotidiani. Alzi la mano chi non ne ha avuto esperienza almeno una volta. Gli stessi mass media sardi ci marciano, su questa retorica degradante e auto-colonizzata.
Eppure si sa che il turismo, di suo, è un’industria parecchio impattante, che non crea nulla ma distrugge molto, che scardina tessuti sociali e culturali, soprattutto dove esista già in partenza una relazione asimmetrica, un rapporto di forza sbilanciato.
Studi internazionali e esperienze ormai consolidate in zone turistiche di mezzo mondo lo hanno dimostrato da tempo. Eppure, ogni santa estate, in Sardegna siamo punto e a capo con la stessa tiritera. E paghiamo il prezzo – sempre più salato – di una ulteriore servitù. Basti pensare al consumo di risorse idriche e energetiche, al problema della gestione dei rifiuti, agli effetti inflattivi, alla questione abitativa, al degrado ambientale, alla disarticolazione sociale e culturale causati – tutti insieme – dal flusso turistico estivo in Sardegna.
La stessa idea di turistizzare anche le altre stagioni e piegare ogni nostra possibile risorsa – come il patrimonio storico-archeologico e quello demo-antropologico (vedi carnevali estivi e altre oscenità analoghe) – al servizio del visitatore occasionale è il portato patologico di una mentalità assurdamente subalterna, di cui facciamo fatica ad accorgerci. Ma che ha delle conseguenze pratiche drammatiche.
Eppure, anche in questo caso, viene sempre eluso l’aspetto decisivo, materiale e politico, del tema. Lasciando tutto al proprio destino di crescente degrado.
È inevitabile chiamare in causa ancora una volta il ceto istruito e l’ambito intellettuale. Dove sono? Cosa fanno? Perché tacciono o addirittura alimentano gli equivoci e le mitologie degradanti che ci riguardano? Temo che troppe persone, che potrebbero avere voce in capitolo, preferiscano il quieto vivere, le possibilità di carriera, o si crogiolino nell’ottusa convinzione di essere superiori al volgo incolto e incivile.
Ovviamente, si tratta di una visione estremamente stupida e ignorante e anche di pie illusioni. Quello che succederà alla Sardegna nei prossimi anni succederà a tutte le persone che la abitano. Anche a chi preferisce lo status quo o si illude di sfuggire alle peggiori conseguenze di quel che succede oggi.
Ciascuno e ciascuna di noi alla fine si dovrà assumere le responsabilità delle proprie scelte, delle proprie parole e azioni e delle proprie omissioni.