A babbo morto e a territorio devastato

Ieri notte io e la mia consorte abbiamo segnalato un vasto incendio boschivo – notturno – tra Pozzomaggiore e Suni. Era tardi, la zona non è coperta dal segnale telefonico. Non sono stati bei momenti. Fino al giorno prima, a Nuoro, abbiamo respirato il fumo del grande incendio di Sa Serra. Transitando nelle campagne tra Bonorva e Macomer era difficile scorgere un tratto di territorio non percorso dalle fiamme.

Questa premessa aneddotica non ha nulla di originale, per chi abiti la Sardegna in modo non occasionale, non distratto e/o turistico (come purtroppo fanno anche molte persone sarde). Ma mi serve per introdurre qualche considerazione sulla questione degli incendi estivi.

Parlare di calamità o, da un altro lato, solo ed esclusivamente di dolo, non serve a inquadrare il problema. Non entro nei dettagli, perché non è mestiere mio. Rimando a quanto ne scrive, da anni, perlopiù inascoltato, un grande esperto come Giuseppe Mariano Delogu.

Tra le altre cose, Delogu dice questo: i grandi incendi di questi giorni (e di questi anni) andavano spenti vent’anni fa. Non è un errore. Proprio vent’anni fa. Sta a significare che siamo in clamoroso ritardo per affrontare una piaga che ormai ha infranto i soliti schemi interpretativi e anche le prassi consolidate.

Tonino Dessì, già assessore regionale all’ambiente, dal canto suo scrive questo, su FB (riporto testualmente, copia-incollando):

Ogni estate in Sardegna scenari di guerra nella infinita lotta tra incendi e territorio.
Di analisi ormai nemmeno tentiamo di farne più.
Cosa accomuna Molentargius, Bonorva, Alghero, Villacidro, Nuoro?
Sappiamo che si tratta di “concause”: dolo di danno, colpa in conducendo, irresponsablità dei più disparati comportamenti, talvolta vera e propria piromania.
E insieme progressivo abbandono del territorio, nessuna manutenzione dei boschi e delle campagne, periferie urbane come discariche, strade i cui bordi traboccano di rifiuti.
Prevenzione pressocchè nessuna, tanto che la novità, se così si può dire (ma ormai sono vent’anni che lo osserviamo), sta nella vulnerabilità dei centri abitati.
Infine il progressivo depauperamento numerico e generazionale dell’apparato regionale.
Infine anche la rinuncia istituzionale a una capillare campagna di informazione, di sensibilizzazione e di allarme preventivo.
Infine, soprattutto, il mancato ripensamento della strategia.
Ho spesso parlato di “difesa civile permanente”, fortemente proiettata nella prevenzione, imperniata capillarmente sui comuni e supportata da un apparato (Corpo Forestale, Agenzia Forestas) flessibile e fortemente aggiornato sul piano professionale, da un coordinamento del volontariato e da una strumentazione tecnologica previsionale, ma anche investigativa (uso dei satelliti, ora anche delle risorse dell’AI), avanzata.
Non è che queste cose le scriva da oggi. Le pensavo e ne parlavo da Assessore, puntualmente le ho riproposte ogni anno successivo alla mia cessazione.
Ma non ho più trovato in nessuna circostanza la passione e la dedizione di allora, in campo istituzionale e politico.
Senza questo ripensamento non ne usciamo più: tanto varrebbe abbandonare tutto il territorio rurale a se stesso e ritirarsi nel presidio delle foreste gestite e dei centri abitati.
Perchè sia chiaro: questi incendi sono inutili a ogni scopo. Le leggi in materia, pensate per stroncare gli incendi speculativi soprattutto nel Sud Italia, prima ancora che in Sardegna, proibiscono ogni intervento umano sui territori boschivi percorsi da incendi, che non sia strettamente di protezione civile. Per dieci anni non vi si può pascolare, coltivare, edificare, realizzare opere infrastrutturali, nemmeno rimboschire. Tutto va lasciato alla ripresa naturale del territorio. Le aree, secondo la legge, andrebbero censite, classificate e vincolate con apposita annotazione catastale, da riportare anche negli atti di trasferimento dei fondi.
Sennonchè anche qui si innesta una novità le cui conseguenze non siamo in grado di valutare: il cambiamento climatico e il connesso acuirsi di fenomeni come l’alterazione dei cicli stagionali secco-piovoso in cicli siccità-alluvioni non garantiscono un ripristino normale del manto vegetazionale non dico nel relativamente breve termine legale di un decennio, ma neppure in un periodo naturale più lungo.
Comunque, ancora una volta, eviterei di evocare “complotti”. È vero che le mafie criminali possono investire a lungo termine, riciclando facilmente il danaro e acquisendo terreni per l’avvenire. Però non è un affare di lucro sicuro e comunque non vi sono riscontri significativi, nè nella Penisola, nè tantomeno in Sardegna.
Il fatto è che nel fuoco cova tuttora un male oscuro, insito dentro le nostre comunità e dal quale le stesse non hanno appreso come difendersi. Non che nel resto del Sud (ma al Nord spesso è lo stesso: si pensi alla Liguria) sia poi così diverso.
E su questo nessuno riesce a dire qualcosa che aiuti quantomeno nella comprensione.
Purtroppo.

Dal punto di vista tecnico non posso aggiungere nulla. Dal punto di vista più ampiamente politico, invece, mi sento di fare una riflessione su quanto sia connessa l’incapacità della nostra classe politica e più in generale dirigente ad affrontare seriamente, con consapevolezza e capacità pragmatiche le varie “emergenze”, ormai strutturali, che ci affliggono.

L’emergenza incendi esiste da prima che io nascessi (e non sono pochi anni). Ero piccolo quando ci fu il grande incendio del Monte Ortobene e purtroppo potrei scandire il succedersi delle tante estati, da allora in poi, seguendo l’elenco dei roghi che hanno devastato pressoché ogni angolo dell’isola.

I meccanismi di risposta al problema hanno faticato a trovare la giusta misura, ma col tempo qualche passo avanti lo si è fatto. Non nelle ultime tre legislature regionali, però. Le condizioni climatiche sono andate mutando rapidamente e la pianificazione degli interventi preventivi e emergenziali non ha tenuto il passo.

Uno dei motivi, per come la vedo io, è che manca totalmente nel nostro ceto politico il senso di responsabilità primario verso il territorio che amministra. La relazione tra la politica regionale e la Sardegna non è immediata bensì mediata. Mediata dalla salvaguardia delle rendite di posizione, dalla fedeltà ai vari capi d’oltremare che garantiscono carriere e legittimazione, dai favori alle varie consorterie affaristiche e clientelari su cui si basa il suo consenso.

Le regolari informate di consulenti e nominati, più o meno esperti, di cui ogni minoranza accusa la nuova minoranza a ogni cambio di legislatura (sono sempre gli stessi giri) sono una prassi consolidata. Uno sperpero di denaro pubblico che si aggiunge agli altri.

Nel ceto politico sardo manca l’idea stessa di dovere e poter fare delle scelte autonome dagli ordini di scuderia di partito (italiano) e svincolate da interessi e obiettivi parziali e/o di corto respiro.

Non è un problema di destra e sinistra. Da tempo, – e tanto più dopo il 2013, con la blindatura oligarchica garantita dalla terribile legge elettorale regionale (uscita rapidamente dai discorsi e dalle agende, noto) – il ceto politico sardo è una sorta di melma torbida, indistinta. In cui sguazzano predatori più o meno grossi, pesci pilota, strani animali mutanti adattati a ogni possibile condizione e circostanza, bestie abilissime nel mimetismo, persino, incidentalmente, qualche brava persona (magari non proprio la prima della classe, diciamo).

Purtroppo, non si può nemmeno contare sull’apporto costruttivo di un ceto intellettuale e accademico all’altezza, ripiegato com’è su carrierismi opportunisti e legami opachi con la stessa politica. Ormai, più un elemento di conservazione (a volte con tratti apertamente reazionari e persino anti-sardi), che una controparte critica o una fonte di stimolo e proposte.

Esiste, benché si tenti di eluderlo, un problema incancrenito di subalternità, assunta in dosi massicce, digerita e metabolizzata e ormai costitutiva della prassi politica isolana. Lo vediamo in diretta con la giunta Todde. Presentatasi come la sola, giusta e sacrosanta alternativa alla disastrosa giunta Solinas (a sua volta favorita dalla precedente, ugualmente disastrosa, giunta Pigliaru), si sta rivelando per il bluff che in realtà sembrava fin da subito.

Oltre al solito effetto annuncio, ormai pratica consolidata, poco o nulla di concreto. Sul tema incendi, forse meno che su altre partite. Eppure da febbraio a oggi non è che non ci sia stato il tempo di prendere coscienza della situazione e di cominciare a metterci mano.

Gli incendi non sono una maledizione e non è nemmeno vero ormai che si tratta sempre di un disegno criminale in grande stile, o dell’azione di qualche piromane. È un problema strutturale da affrontare con giudizio, coscienza, competenze (quelle di cui si vanta il “campo largo”, salvo tradire con i fatti questa pretesa), lungimiranza (anche basta con le campagne elettorali permanenti!).

Pianificazione; interventi sistematici di prevenzione; sostegno al popolamento delle campagne (e in generale contrasto dell’impoverimento demografico); dotazione dei mezzi e del personale indispensabili a tutti i livelli; aggiornamento costante; ri-pubblicizzazione (dove necessario) dei troppi servizi appaltati a privati; informazione capillare e addestramento di base di tutta la popolazione, a partire dalle scuole: questo andrebbe fatto. Non me lo invento io. È persino banale ribadirlo. È un programma di governo.

Non si è fatto in passato, non sembra ci sia l’intenzione di farlo adesso. Il ritardo di vent’anni minaccia di allungarsi. I grandi incendi incombono. Non ce lo possiamo permettere.

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