Questione energetica, questione coloniale? I nodi che vengono al pettine

Ieri, 15 giugno, in occasione della Giornata mondiale del vento, si è tenuto presso la basilica romanica-giudicale di Saccargia (SS) un imponente raduno-concerto, organizzato dal coordinamento dei comitati contro la speculazione energetica. Migliaia e migliaia di persone di ogni fascia anagrafica e di provenienza diversa hanno voluto testimoniare non solo la propria solidarietà, ma prima di tutto il proprio impegno diretto in una battaglia democratica che sembra avere pochi precedenti nell’isola.

In realtà, i precedenti sono innumerevoli, ma li si conosce poco. Questo va precisato subito. Negli ultimi due secoli, diciamo dalla Restaurazione post-rivoluzione e post-napoleonica in poi, i momenti di ribellione e mobilitazione popolare sono stati innumerevoli. Spesso poco studiati e male raccontati, quasi sempre sconfitti dalla repressione e prima ancora dalla mancanza di un orizzonte politico e strategico. *Quasi* sempre, non *sempre*.

Ieri a Saccargia si è citato più di una volta il precedente di Pratobello (giugno 1969, 55 anni fa giusti), forse anche per via di una nutrita delegazione di Orgosolo, tra cui spiccava la presenza di alcune signore diversamente giovani, testimoni dirette di quei fatti. Non so se sia lecito istituire un parallelo così diretto tra le due vertenze e le due mobilitazioni. Però c’è almeno un aspetto che le accomuna. Ora ci arrivo.

Prima va detto che l’evento di ieri poteva risultare un clamoroso fallimento, per tanti motivi. Intanto, perché non era facile da organizzare, sul piano materiale e logistico. Notevole che, anche in questa circostanza, come in mille altre, abbiamo invece assistito a una smentita fattuale dello stereotipo sull’invincibile incapacità della genia sarda di collaborare. Il famoso “pocos, locos y mal unidos”, che ancora oggi rispunta in molti discorsi da social, si è trasformato per magia in un “medas, sàbios e unidos”.

Il problema della divisione tuttavia esisteva, non a livello di collaborazione operativa, bensì di coesione tra le varie anime del coordinamento dei comitati. Il colloquio finalmente concesso dalla presidente Todde venerdì scorso stava lasciando strascichi problematici tra chi lo considerava una vittoria di per sé e chi ne contestava gli esiti. In realtà, sono vere entrambe le valutazioni.

Quell’incontro, sostanzialmente imposto dalle cose alla reticente e renitente presidente Todde, è stato oggettivamente un successo della mobilitazione popolare. Che i contenuti emersi e la posizione manifestata dalla massima carica della Regione Autonoma siano stati deludenti è altrettanto vero. Il documento finale del coordinamento dei comitati precisa la delusione e la disillusione sui contenuti, ma non deve mettere in ombra la vittoria – sia pure parziale – rappresentata dall’aver costretto la presidente Todde a riceverli.

I timori della vigilia sono stati superati grazie al successo di una manifestazione partecipata, vitale, eterogenea e autodeterminata come non se ne vedevano da tempo.

La copertura offerta dal gruppo Unionesarda – su cui è lecito interrogarsi, vista la sua eccezionalità – è stata importante. Ma non ha determinato l’entità e la qualità dell’evento.

Anche in questa circostanza è emersa una caratteristica di questa grande e diffusa mobilitazione anti-coloniale: si tratta di una mobilitazione informata, consapevole, documentata. Ricorda, in grande, quella di Arborea contro il progetto estrattivo della SARAS, una decina d’anni fa. O, fatti i dovuti distinguo, quella della Val di Susa (Piemonte) contro il TAV.

Non è un aspetto secondario. Trasformare il malcontento in forme contingenti di protesta non è difficilissimo. Più difficile alimentare la protesta con lo studio, la diffusione e la condivisione delle informazioni, il confronto tra territori diversi, la coscienza del senso preciso del problema.

Per esempio, nonostante i tentativi di far passare l’azione dei comitati come una reazione ostile alla transizione energetica tout court, anche ieri in più occasioni si è ribadito che in realtà il problema è la prospettiva coloniale e meramente estrattiva con cui la speculazione energetica sta investendo l’isola, non le fonti rinnovabili in sé. Puntualizzazione che va ribadita, per spazzare il campo da obiezioni a volte capziose.

Rilevante è la stessa solidarietà tra territori diversi e la diffusa consapevolezza che il problema non è locale, ma generalizzato. Lo ha chiarito Claudia Zuncheddu, nelle sue interviste sul campo, lo hanno precisato diverse persone a nome dei vari comitati.

Per esempio, ieri era presente il comitato da poco nato a Mamoiada, centro non ancora investito dal problema. Ma ai confini del suo territorio la minaccia è già presente, con i progetti riguardanti la zona tra Nuoro, Orgosolo e Oliena, che hanno allarmato popolazioni e amministrazioni locali. È un fatto non da poco che la mobilitazione prenda avvio in solidarietà con comuni limitrofi e in termini preventivi.

Comunità informate e coscienti, dunque, e solidarietà sovra-locale. Questi sono fattori fondamentali, da tenere presenti e alimentare costantemente.

E qui c’è l’aspetto su cui vorrei soffermarmi. Torniamo sul parallelo tra queste mobilitazioni e la lotta di pratobello di 55 anni fa. Ieri Michele Atzori aka Su Dotori ai microfoni di Videolina faceva notare che questa vertenza popolare, a differenza di altre, sta avvenendo *mentre* succedono le cose, non a posteriori, per contestare degli esiti dannosi rilevati a cose fatte.

Basti pensare al Piano di Rinascita industriale o alla stessa occupazione militare di migliaia e migliaia di ettari sardi. Troppo spesso le peggiori nefandezze perpetrate ai danni della Sardegna e della sua popolazione sono state realizzate senza particolari opposizioni, se non di qualche voce solitaria e sacche marginali di contestazione.

In questo caso, come nel caso di Pratobello, la reazione popolare è stata invece immediata. Sulla questione della speculazione energetica l’indipendentismo si batte da almeno un quindicennio e i primi comitati si sono formati ormai anni fa. Il pericolo è stato percepito pressoché subito. L’aggressione al territorio è stata così ampia e rapace che le contestazioni hanno presto perso il loro carattere minoritario e di nicchia, per diventare massive e distribuite su pressoché tutto il territorio sardo.

Nel caso di Pratobello, la brutta sorpresa dell’istituzione di un poligono di tiro nel territorio comunale di Orgosolo cadde in un periodo di partecipazione politica e di mobilitazione sociale già attive. Il blitz governativo fu prontamente riconosciuto nei suoi tratti inaccettabili e respinto.

Nel caso dell’aggressione speculativa energetica la faccenda è più complessa e di difficile soluzione, perché si sommano la volontà coloniale dello Stato centrale con gli interessi avidi e senza scrupoli di entità private, a fronte di un’inerzia (complice) delle istituzioni sarde: un combinato devastante per potenza e pervasività.

Quello che però differenzia da altre circostanze sia la lotta di Pratobello sia la presente vertenza anti-speculazione è che il terreno non è stato preparato prima da campagne persuasive martellanti e capillari. Mentre nel caso del Piano di Rinascita e dell’occupazione militare, tra anni Cinquanta e Sessanta, gli espropri e la sottrazione di territorio furono propagandati come misure utili alle comunità, propedeutiche a un nuovo sviluppo e a un benessere mai conosciuto, sia nel caso di Pratobello sia nel caso delle speculazioni energetiche attuali questo ampio e profondo lavoro di persuasione è mancato.

Per fortuna, verrebbe da dire. Senza l’intervento della disinformazione e della manipolazione di massa, i problemi facilmente appaiono subito per quelli che sono, nella loro consistenza attuale e nella loro minacciosità per il futuro.

Per giunta, una volta squarciato il velo opacizzante dell’egemonia culturale che ci vuole subalterni, passivi e in qualche caso conniventi, il passo verso lo smascheramento di altri inganni è breve. Ieri si è parlato diffusamente, da più parti, persino in qualche intervento di amministratori locali, di “colonialismo”. E non poche persone intervenute hanno istituito una connessione con le altre vertenze vecchie e nuove ancora aperte: occupazione militare, sanità, inquinamento, trasporti, diritti negati, ecc.

Riconoscere la natura coloniale delle decisioni prese dal Governo italiano in questa partita strategica aiuta a riconoscere la stessa natura coloniale di altre questioni aperte.

Questo lavorio di collegamento, di ragionamento diffuso, di presa di coscienza popolare è una delle minacce più serie che lo Stato italiano con i suoi podatari locali da tempo cerca di sventare con ogni mezzo. Perché è il prodromo di una politicizzazione delle vertenze aperte, ossia il passo decisivo troppe volte mancato nei periodi di grande mobilitazione popolare degli ultimi due secoli.

Nulla garantisce che in questa circostanza la mobilitazione popolare abbia successo e che da questa nasca un salto di qualità politico che consenta di modificare il corso delle cose. Però le premesse ci sono. Ora è responsabilità di chi anima i comitati, della politica non succube verso i centri di interesse e le leadership esterne, dell’intellettualità libera fare in modo che il processo di conquista democratica non si interrompa. Senza velleità egoistiche né pretese di egemonizzare un processo così complesso e articolato. Con la doverosa dose di generosità e di responsabilità.

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