Esce in questi giorni in televisione, sul canale della Radio Televisione Sarda e sul canale UNO4, In su corru ‘e sa furca, fiction scritta da Giacomo Casti, Diego Pani e Davide Melis, prodotta e realizzata da Karel. Una novità nei palinsesti televisivi sardi che, per tanti motivi, merita qualche riflessione.
Questo è il lancio su FaceBook, di pochi giorni fa:
L’ambientazione è semplice. Un locale, qualcosa di più di un classico tzilleri, qualcosa di meno di un club, come ce ne sono stati e ce ne sono ancora, a Cagliari e non solo. Un gestore stanco e scoraggiato e un sodale, più giovane e meno intristito dalla vita, che lo aiuta a reclutare musicisti per le esibizioni sul piccolo palco allestito all’uopo. Questi sono i personaggi fissi che fanno da trait d’union tra le puntate, le introducono e le chiudono. Offrono anche in qualche modo, coi loro dialoghi, qualche spunto tematico in ognuno dei 12 episodi.
Sono interpretati da Giacomo Casti e Diego Pani, nella doppia veste di autori e interpreti. E sono anche gli unici due personaggi fittizi (quasi completamente) che recitano in scena. Gli altri, che compaiono nelle diverse puntate, sono persone che interpretano se stesse.
Persone di varia estrazione anagrafica, geografica (sarda) e professionale, con una certa prevalenza dell’ambito culturale e artistico, che si trovano occasionalmente al tavolo di un locale e parlano tra loro di quello che vogliono, dai fatti personali ai temi più vari. Ce n’è per tutti i gusti, in effetti, e con ampia gamma di registri linguistici.
E fin qui potrebbe non sembrare un progetto particolarmente innovativo. Lo diventa – direi forse: nostro malgrado – perché è tutto realizzato in sardo. Sia i due personaggi fissi, sia i loro ospiti parlano in sardo (e in gallurese, almeno in un caso). A ciò si aggiunge la partecipazione di diversi musicisti e musiciste, anch’essi caratterizzati per usare il sardo nelle loro produzioni.
A dirla così può suonare come l’ennesimo progetto relativo alla lingua sarda finanziato con denaro pubblico. A tal proposito, circola una vulgata parecchio fantasiosa sull’ammontare esagerato dei finanziamenti in quest’ambito.
Per inciso, lamentarsi che intorno alla lingua sarda (alle lingue sarde) girino dei soldi pubblici e sminuire per questo qualsiasi progetto che ne derivi è, nel migliore dei casi, un errore di ragionamento.
Che una realtà linguistica minorizzata come la nostra abbia bisogno di interventi attivi per uscire dalla propria condizione subalterna è un fatto banalissimo, che giusto in Sardegna può ancora sembrare scandaloso. Che la cultura, l’arte, lo spettacolo abbiano bisogno di essere finanziati per esistere è ugualmente un fatto scontato. Se parliamo di un livello di produzione professionale. E questi ambiti creativi *sono* ambiti professionali. Meglio precisarlo.
Del resto, aspettare che siano solo i finanziamenti privati a consentire la realizzazione in termini professionali di progetti artistici o in generale culturali – posto che esista questa sensibilità nel capitalismo arretrato e per lo più parassitario e/o estrattivo italico (e sardo) – espone al rischio che siano prodotte solo opere gradite ai finanziatori, nel loro interesse. In un contesto socio-economico e politico fragile come quello sardo non è un pericolo da poco.
In generale, i finanziamenti pubblici, pur con tutti i loro problemi, sono indispensabili. In realtà sono troppo esigui e troppo faticosi da ottenere.
In questo caso, per tornare all’oggetto del post, la qualità dell’operazione toglie dubbi e sospetti. Perché la qualità c’è. Dal punto di vista del suono, dell’immagine, dell’allestimento e della regia, i dodici episodi mantengono un livello alto.
Le puntate risultano inevitabilmente eterogenee, data l’estrema varietà di persone coinvolte e la loro più o meno grande dimestichezza con una situazione di questo tipo. Parlo anche per esperienza, dato che nella serie ci sono anche io. Il problema dell’allestimento scenico e dei dispositivi tecnici del set è relativo. Certo, c’è sempre chi è più o meno timido/a e non è detto che la situazione in sé metta chiunque a proprio agio. Ma in generale, dopo il primo impatto, in questa circostanza si trattava di essere se stess*, senza troppi filtri. Nessun copione da memorizzare, nessuna parte da recitare.
La difficoltà maggiore è stata il doversi esprimere in sardo per le persone che non lo fanno abitualmente e/o non hanno una dimestichezza consolidata con la lingua. Il che a momenti traspare, ma è anche uno dei punti di interesse dell’operazione.
Così come lo è, in questo caso anche per le persone sardofone, riconoscere da un lato le interferenze dell’italiano e da un altro le innovazioni lessicali e a volte anche sintattiche dovute all’evoluzione della lingua e al suo uso attuale.
Non è un difetto, beninteso. Anzi, è un fenomeno normale in qualsiasi lingua viva. Il problema, riguardo al sardo, è duplice.
Per moltissimo tempo – e in parte ancora oggi – lo si è considerato una lingua “ancestrale”, legata al passato, la lingua dei nonni o degli avi, della vita agreste, della povertà. Come tale, forse meritevole di tutela (su questo, le obiezioni sono poche, in genere), ma da considerare come un “bene culturale”, come un reperto da museo, non come elemento vitale e fecondo della nostra collettività. In quanto bene culturale, da salvaguardare nella sua presunta, primitiva purezza.
Dal punto di vista socio-linguistico e storico sono sciocchezze, ovviamente. Ma godono ancora di una certa popolarità, anche in certi ambienti culturali, professionali e politici.
Un altro problema del sardo è che, privato di un suo insegnamento scolastico, anche come lingua veicolare, e dunque di una sua alfabetizzazione diffusa, rischia di impoverirsi e cedere definitivamente allo stato di dilalia, anticamera della scomparsa. In parte questo fenomeno è stato tamponato dall’uso ormai ampio del sardo scritto, pur con le incertezze e a volte le polemiche (inutili) riguardo grafia e standardizzazioni più o meno condivise. Il processo è in corso e i nuovi media in questo senso sono stati d’aiuto, ma non è certo il caso di cantare vittoria.
Ciò che questa serie rivela, nella sua apparente semplicità, è che persone diverse, di zone diverse dell’isola, possono trovarsi e conversare di qualsiasi cosa – dai libri, alla tecnologia, dai temi storici, alla cultura pop, al cibo, alle questioni sociali – senza problemi né di intercomprensione né di impiego della lingua in tutti i registri possibili.
Con tanti saluti a due delle principali obiezioni anti-sardo: a) persone di diverse zone dell’isola che parlano ognuna il proprio sardo locale non si comprendono reciprocamente; b) col sardo non puoi parlare di tutto.
Lo stesso può dirsi per la scelta delle esibizioni musicali, elemento non di contorno bensì costitutivo del progetto. Al di là anche qui dell’uso disinvolto e versatile della lingua, si tratta di esempi della musica che si produce e si suona oggi nell’isola e che spesso ne varca serenamente i confini, ma che non passa facilmente nelle radio a più ampia diffusione e ha meno visibilità di quanto meriti. Qui si presenta con tutta la sua diversità di forme e con le commistioni e ibridazioni tra tradizione e innovazione che la arricchiscono e la vivificano.
La serie suggerisce il possibile rovesciamento significativo del vecchio stigma penalizzante sulla lingua sarda. Lingua di un mondo vecchio e della povertà, ho scritto sopra. Lingua “inutile”, si dice oggi più comunemente. Eppure, a ben guardare, oggi è più facile che ci si debba scusare perché non si conosce il sardo e/o non lo si usa, che viceversa. Anche questo, un fenomeno in corso, su cui non possiamo dire l’ultima parola, ma evidente.
In definitiva, nei dodici episodi è sintetizzata ed esposta, con serena normalità, una Sardegna distante da quella delle cronache e veicolata dall’egemonia culturale penalizzante che ci affligge. Una gamma di esperienze e di scelte di vita che restituiscono il quadro sociale e culturale dell’isola fuori delle cornici concettuali di comodo in cui la gente sarda si pensa. E non parliamo della visione stereotipata che hanno della Sardegna di là del Tirreno. Visione troppo spesso assecondata e promossa anche nell’isola, a volte per calcolo, a volte sotto la spinta dell’aspirazione a integrarsi in un “diverso da sé” immaginato come migliore, più evoluto, più gratificante.
Che siano invece persone a loro modo realizzate, portatrici di una propria dote di conoscenze, di una propria professionalità consolidata, in molti casi di un riconoscimento pubblico, a usare il sardo non in termini folkloristici o per posa, bensì per parlare di temi contemporanei, persino difficili o controversi, può spiazzare e spezzare i pregiudizi su noi stess* e sulla Sardegna.
Per questo In su corru ‘e sa furca ha una portata che va oltre la sua qualità tecnica e la sua riuscita narrativa. È a tutti gli effetti un esperimento decoloniale. Senza fare troppa teoria, senza prosopopea intellettualistica. Persino le citazioni di Gramsci – anch’esse in sardo, cosa che a Nino sarebbe piaciuta – sono inserite nel flusso narrativo senza suonare come stucchevoli ostentazioni autoreferenziali. Un tentativo riuscito e potenzialmente fecondo, per la sua intrinseca portata emancipativa, di fare buona cultura “nazional-popolare” (per restare a Gramsci).
Non ho idea di quanto possa riuscire gradita questa serie al pubblico televisivo. Che in Sardegna è mediamente anziano e, nelle sue fasce meno attempate, ormai abituato all’offerta bulimica di fiction seriale delle piattaforme streaming e dei canali in abbonamento. Da questo punto di vista, la stessa ricezione dell’opera è un elemento di interesse e potrebbe tranquillamente costituire l’oggetto di una ricerca sociologica.
In ogni caso, In su corru ‘e sa furca è un’operazione apripista, nella prospettiva di rendere ordinario, a tutti i livelli di comunicazione, l’uso del sardo e delle altre lingue dell’isola. Non una pretesa “identitaria”, bensì la rivendicazione di un diritto democratico. E costituisce anche senz’altro un arricchimento tematico, contenutistico, dell’offerta televisiva.
A parte la performance del sottoscritto e a dispetto dei dubbi iniziali sulla sua riuscita (lo confesso), personalmente la promuovo a pieni voti. Non vi resta che guardarla e farvene un’idea vostra.