
È raro ma ricorrente che qualche testata giornalistica italiana di primo piano dedichi un minimo di spazio al tema dell’indipendentismo sardo. Di norma, quando succede, emerge il pressapochismo, il paternalismo e lo sfondo razzista del discorso. L’effetto sull’opinione pubblica sarda è pressoché nullo, salvo che nella comunità social degli indipendentisti, da cui di solito emergono prese di posizione indignate e tentativi di chiarimento. Quasi sempre di scarsa efficacia.
Mi ci metto dentro anche io, a scanso di equivoci. Mi è capitato, anche qui su SardegnaMondo, di commentare dichiarazioni o pseudo-analisi di commentatori italiani a proposito del tema “indipendentismo sardo e dintorni”, magari con l’ausilio di qualche interlocutore sardo (che io ricordi, sempre maschi) scelto appositamente per avvalorare le tesi del commentatore italico.
Non è necessariamente un male chiarire concetti teorici, posizioni politiche, prospettive storiche, specie su una questione così complessa e al contempo così mal raccontata come l’indipendentismo sardo. Che non è un occasionale vezzo di pochi fissati, né un banale posizionamento politico di comodo (la famosa regola per cui, se tutti gli altri posti sono occupati, ci si accomoda dalla parte del torto). Non è nemmeno un fenomeno di breve durata e/o superficiale.
Non esiste in merito alcuna vera ricerca storica, né un corpus di studi appropriato, e già questo fatto richiederebbe qualche analisi. Fatta salva una manciata di paper e di articoli usciti in riviste internazionali, quasi sempre frutto del lavoro di studiose e studiosi non italian* né sard*, nonché il meritorio lavoro politologico di Carlo Pala, dobbiamo affidarci a letture sparse e studi personali. Un lavoro che pochissime persone, anche in ambito indipendentista, hanno fatto. Anche perché non è facile. Occorrono strumenti del mestiere e una solida base teorica e storica.
Tuttavia è notevole che la storiografia sarda contemporaneista abbia dedicato così poca attenzione a un fenomeno tanto consistente e persistente. Ed è evidente la colpevole noncuranza con cui esso viene di solito liquidato dall’intellighenzia sarda e dai mass media.
Provo a fare un minimo di riassunto.
Fin dagli anni immediatamente successivi alla Fusione Perfetta (1847-8), cominciò a farsi strada in Sardegna una riflessione serrata, benché resa difficile dalle condizioni politiche oggettive, sui rapporti asimmetrici e svantaggiosi tra l’isola e il resto dello stato prima sabaudo poi italiano unitario. Verso la fine del XIX secolo e ai primi del XX, incrociandosi e a volte sovrapponendosi con le istanze emergenti dalle questioni sociali di quegli anni e col primo pensiero socialista, l’idea di una “emancipazione” (come si diceva allora) dell’isola rispetto al Regno d’Italia era tutt’altro che negletta tra chi si interessava di politica.
Erano istanze non ancora teoricamente e programmaticamente definite, ma innervavano tanto la produzione poetica popolare e colta (pensiamo a Pepinu Mereu e a Bustianu Satta, per citare due nomi molto noti, o ai due popolarissimi poemi Su triunfu d’Eleonora d’Arborea, di Franciscu Dore, del 1870, e Sa mundana cummèdia, di Bore Pòddighe, 1917-22), quanto le stesse grandi manifestazioni di piazza. Ne dava testimonianza lo stesso Nino Gramsci, ricordando quante volte egli stesso, partecipando a tali raduni, aveva gridato “a mare sos continentales!”.
Ci pensò il sardismo, nel primo dopoguerra, a politicizzare questo vasto movimento d’opinione e queste aspettative generalizzate, neutralizzandone però le richieste più radicali. Ma già all’indomani dell’uscita della Sardegna dal secondo conflitto mondiale (autunno 1943), nel bel mezzo di una delle stagioni più dolorose e dure della storia contemporanea dell’isola, il dibattito all’interno del sardismo residuo e delle sue nuove leve, così come in ambito socialista e comunista, riprese. Non a caso, proprio nel 1943 fu fondato il Partito Comunista Sardo, del resto quasi subito contrastato, anche con metodi spicci, dal PCI, e soffocato sul nascere.
La stessa autonomia regionale, infine riconosciuta con l’entrata in vigore della costituzione repubblicana nel 1948, non fu che una pallida concessione utile, tra le altre cose, a limitare la portata e l’attrattiva delle istanze più radicali presenti nell’isola. Non è dal nulla che, dopo meno di vent’anni, il tema dell’indipendenza riemergerà ad opera di un grande intellettuale di caratura internazionale come Antoni Simon Mossa. Da lì in poi la prospettiva indipendentista farà parte costantemente del panorama politico e culturale sardo, sempre senza godere di buona stampa, periodicamente represso con azioni di polizia e processi, ignorato dagli studi storici e politici.
La sua oscillante riemersione alle cronache non dipende tanto dalla sua scomparsa e dalla sua ricomparsa occasionale: non è mai scomparso del tutto; quanto dalle forme e dalla consistenza della sua azione e della sua diffusione. Ignorarne l’esistenza, ridurre questa lunga storia di idee, militanza, proposte tematiche, sforzi teorici, organizzazione a un epifenomeno poco più che folkloristico o addirittura anacronistico, come succede tuttora, è un torto alla realtà e una chiara manifestazione di timore da parte della classe dominante sarda e di quella italiana. Ne abbiamo avuto ripetute dimostrazioni.
Parlarne il meno possibile e parlarne male è il precetto seguito dai mass media italiani, imitati, con qualche sfumatura di differenza e qualche sporadica apertura, da quelli sardi.
Di recente, nella bolla social indipendentista (con tutte le sua varie sfumature di colore), ha fatto discutere un insignificante intervento di Aldo Cazzullo, noto editorialista conservatore del Corriere della Sera, in risposta a una lettera di un lettore sardo.
A stretto giro gli aveva risposto Francesco Casula, con larga condivisione su alcuni media locali e tra gli snodi delle reti social indipendentiste. La cosa sembrava finita lì, anche perché non è un evento tanto inedito, né sembra tale da spostare anche di poco il comune sentire diffuso in Sardegna, figuriamoci in Italia.
Invece, a distanza di parecchi giorni, la testata Sardinia Post ha riesumato la discussione in un pezzo in cui si dà la parola anche a uno storico sardo di un certo peso, non indipendentista, come Gian Giacomo Ortu.
A favore della prospettiva indipendentista sono invitati a parlare Giuseppe Melis, professore di marketing turistico all’università di Cagliari, e Pier Franco Devias, leader del partito Liberu.
Melis e Devias espongono i loro argomenti a contrasto delle tesi di Cazzullo e a sostegno dell’aspirazione all’indipendenza. Con toni e in termini diversi, ma non distanti.
Alla domanda sul perché i sardi dovrebbero essere indipendentisti (che è già una domanda mal posta), Melis risponde così:
Per restituire identità e dignità al popolo sardo. […] Cazzullo dice che ‘la bellezza di essere italiani ed europei è appunto nella diversità’. Magari l’Italia fosse così. Purtroppo è stata costruita con l’annichilimento e la folklorizzazione delle stesse e la Sardegna ne è l’esempio più limpido. Questa mia affermazione non è frutto di ideologie ma di un’analisi che combina approccio metodologico e fatti storici. La Sardegna fino al 1720 ha avuto una sua storia diversa da quella del Continente e della Sicilia.
Se l’Italia – monarchica o, soprattutto, repubblicana – avesse optato per un modello federale o confederale, ad esempio come la Svizzera, citata più avanti dallo stesso Melis, il problema sarebbe stato sensibilmente ridimensionato e sarebbe oggi più complicato giustificare un’aspirazione all’indipendenza della Sardegna.
Pier Franco Devias argomenta in termini più strettamente storici (riporto il testo dell’articolo di SardiniaPost):
Le parole di Aldo Cazzullo rientrano pienamente in un’ideologia imperante in una certa intellighenzia, ovvero la concezione che la Sardegna debba essere italiana e questo dogma non debba mai essere messo in discussione. La nostra Isola – prosegue – è stata una nazione parecchi secoli prima che l’Italia nascesse. Considerare le nazionalità in base alle annessioni è un po’ pericoloso perché facendo questo ragionamento allora anche gli eritrei sarebbero dovuti essere italiani. Le nazioni esistono a prescindere dai confini statali. Il diritto all’autodeterminazione dei popoli vale per tutti, non possiamo far finta che non esista quando riguarda il cortile di casa nostra. Riguardo ai morti c’è da ricordare che sono morti tantissimi sardi per ribellarsi ai Savoia. Le nazioni – conclude – sono intese in base a specificità storiche, geografiche, linguistiche, culturali, economiche. La Sardegna in tutto e per tutto è una nazione. Storicamente è stata diversa dai popoli della penisola italiana e quando ha avuto dei contatti sono stati contatti conflittuali e di dominazione. Questo è avvenuto dal periodo romano in poi.
Dico subito che trovo le risposte di Melis e Devias (così come la prima di Casula a Cazzullo) piuttosto deboli, sul piano politico e anche su quello storico. La storia è difficile da maneggiare come strumento di sostegno a posizioni politiche. Tende a divincolarsi, a presentare spigoli, a rovinare i ragionamenti più lineari con antipatiche contraddizioni e problemi non facilmente semplificabili. Onestamente, tenderei a farne un uso più prudente o comunque un po’ più articolato e approfondito.
Il concetto di nazione, poi, va chiamato in causa con estrema prudenza e solo per il periodo di tempo in cui ha senso farlo. Sostenere, come fanno molti esponenti indipendentisti (non solo Devias), che la nazione sarda esista da sempre, o da epoche comunque lontane, è un’asserzione indifendibile in qualsiasi dibattito minimamente serio. Il concetto di nazione che noi diamo per scontato non è un fattore storico reale, bensì un costrutto culturale e politico recente, con una precisa collocazione cronologica, dalla quale non si può prescindere. La nostra idea contemporanea di nazione non risale a più indietro della Rivoluzione Francese e si è affermata nel corso dell’Ottocento.
Più in generale, trovo scorretto e politicamente inutile, se non dannoso, ancorare l’aspirazione all’autodeterminazione per la Sardegna e chi ci vive, a concetti così astratti, a-storici, comunque discutibili, come la nazione, l’identità, la diversità dall’Italia.
Intendiamoci, che la Sardegna abbia avuto una sua storia peculiare, a tratti differente e divergente da quella delle terre propriamente italiane, è vero. Che la sua popolazione abbia maturato, nel corso dei secoli, usi, forme di relazione sociale, vicende culturali, ordinamenti giuridici a sé stanti è altrettanto vero. Basti pensare alla nostra storia medievale, alla vicenda del Regno di Sardegna, alla questione linguistica.
Tuttavia, non sono ragioni sufficienti a giustificare una pretesa così forte e per molti versi rivoluzionaria come quella dell’indipendenza.
Anche il discorso della minorizzazione della cultura, delle lingue e della storia di Sardegna va maneggiato con cura. Non è di suo un tema così robusto né facilmente comprensibile, se lo si astrae dalle condizioni storiche e dalle forme di relazione politica dentro cui si è sviluppato. Se si trascura il lato materiale, concreto, delle vicende umane, si finisce spesso per fare della mera ideologia, che, davanti a una ideologia più forte, egemone, semplicemente soccombe.
La prospettiva indipendentista o, più in generale, dell’autodeterminazione, in Sardegna ha una giustificazione storica ed è rilevante solo se la si riempie di contenuti robusti, a partire dal riconoscimento della condizione sbilanciata e asimmetrica dei rapporti con l’Italia e tenendo conto dei suoi risvolti socio-economici, civili, culturali e politici. Importa relativamente se i sardi siano o si sentano o no italiani. Tutte le rilevazioni fatte in proposito indicano che il senso si appartenenza alla propria collettività storica è estremamente radicato e diffuso, tra i sardi. Non è quello il problema. Caso mai il problema è capire cosa si annette, come costrutti ideali, stereotipi, elementi discorsivi, a tale appartenenza (e qui sì che casca l’asino!). Ma soprattutto rileva molto cosa comporta, materialmente e storicamente, l’appartenenza allo stato italiano in termini di qualità della vita, di diritti, di libertà, di benessere economico, di relazioni internazionali.
Chiaro che, in funzione propagandista, nella lotta politica, è inevitabile fare uso di concetti semplici e forti, di parole d’ordine e di slogan. Ma non si può partire da questi elementi discorsivi e restare ancorati ad essi come fossero l’unica e sola verità prima da cui discende il resto. È una forma di auto-inganno a cui cede troppa parte dell’indipendentismo odierno. Ed è anche un modo per restare al calduccio nel proprio spazio di comfort ideologico. Da qui nasce l’assunto consolatorio che noi indipendentisti abbiamo scoperto la verità e chi non ci segue ha torto o addirittura è un nemico.
Non che emerga esplicitamente questo, dalle argomentazioni di Melis e Devias (e Casula), ma il contesto ideale e il riferimento politico dei loro discorsi è molto più una forma di indipendentismo identitario che un campo di riflessione e di prassi più strettamente materialista e ancorato alla realtà concreta, alla vita vera della collettività sarda attuale. A me sembra un limite evidente di queste posizioni.
Che naturalmente sono legittime. Solo, non è legittimo pretendere che siano le uniche tesi a sostegno della prospettiva dell’autodeterminazione. Deve essere pacifico che, in quest’ambito politico, abbiano piena cittadinanza anche altre impostazioni, altri punti di partenza, altre cornici concettuali, a partire dalla questione, storicamente decisiva, del deficit di democrazia di cui la Sardegna soffre, in modo variabile ma costante, da sempre, anche in epoca repubblicana-autonomista.
Di questo sarebbe opportuno discutere, magari con una certa serenità e nel rispetto delle diverse opinioni in campo. È una faccenda che non riguarda solo le persone indipendentiste o quelle sensibili al tema, bensì ha una portata decisamente più grande. Pensiamo solo ai rischi sempre attuali di neo-colonialismo o ai diversivi di stampo conservatore e subalterno come l’insularità in costituzione: è necessario generare un discorso pubblico a contrasto di queste derive, che sia ben fondato storicamente, ancorato alle necessità concrete e strategiche della comunità umana dell’isola e facilmente comprensibile a livello comunicativo.
Se queste sono le mie riserve sulle argomentazioni di parte indipendentista, considero invece del tutto irricevibile la risposta che alla domanda di Sardinia Post dà lo storico Gian Giacomo Ortu. A proposito dell’indipendentismo sardo, Ortu dichiara:
È un tema ormai superato. Ho già scritto e detto in tante occasioni di essere contrario a qualsiasi forma di indipendentismo della Sardegna. Tornarci dopo che la questione ha avuto una qualche rilevanza politica negli anni ‘70 e ‘80 e anche più recentemente mi sembra ormai inutile. Nei miei libri ho scritto e spiegato che la storia della Sardegna è ben più complessa di quanto si creda.
Che la storia della Sardegna sia più complessa di quanto si creda è vero ed è un ulteriore motivo di sollecitazione per tutto l’ambiente storiografico sardo a darsi una bella mossa, magari pretendendo l’attenzione dovuta e le risorse necessarie da parte delle istituzioni accademiche (fare ricerca storica, come qualsiasi altra ricerca, costa, ma va fatta). Il resto del discorso però è a dir poco stupefacente per la sua pochezza. Lo scrivo con un certo rammarico, perché ho sempre apprezzato il lavoro di Gian Giacomo Ortu come storico. Ma proprio in quanto proveniente da uno storico questa risposta è inaccettabile. Non è lecito liquidare in modo tanto grossolano un fenomeno così endemico, così connaturato alle vicende sarde dell’ultimo secolo e mezzo. Testimoniando per giunta una mancanza di informazione e di attenzione anche sull’attualità che sinceramente non mi aspetto da alcun* intellettuale, e da uno storico meno che mai.
Se dunque l’ambito indipendentista deve ancora dotarsi di un corpus di riflessione, di un bagaglio teorico e di un’attitudine allo studio e all’aggiornamento che fin qui sono sempre stati trascurati a vantaggio di costrutti semplificatori e di slogan, da parte dell’intellighenzia sarda, nelle sue varie voci e incarnazioni, è legittimo pretendere meno approssimazione, meno sciatteria, meno snobismo. Che poi hanno sempre quel retrogusto sgradevole di classismo e di auto-razzismo tipici delle classi dirigenti subalterne dei paesi sottoposti a forme di colonizzazione.
Insomma, come si vede, tutto sommato ciò che pensano gli Aldo Cazzullo di turno sulla prospettiva indipendentista sarda non è la cosa più rilevante di cui dovremmo occuparci. Ma, nel caso decidessimo di occuparcene, dovremmo sviluppare una dotazione di argomentazioni più robusta e articolata, tale da resistere anche ad uno scrutinio severo. E, in ogni caso, offrire alla comunità umana della Sardegna – e, nelle circostanze che lo richiedono, al suo corpo elettorale – temi e proposte più concreti, più connessi con i bisogni reali delle persone, dentro una prospettiva emancipativa ad ampio spettro. Credo sia questa la lezione più significativa che possiamo trarre dalla circostanza.
Caro Omar,
non ho detto superato, ma usurato, e non ho espresso alcuna posizione sull’indipendentismo sardo, di cui ho scritto in modo articolato e mai liquidatorio in numerosi articoli, saggi e volumi. Semplicemente m sono sottratto a una discussone che al momento non suscita il mio interesse.
Cordialmente
Gian Giacomo Ortu
È una posizione legittima, ci mancherebbe, ma criticabile.
Non siamo d’accordo, ne prendo atto. Succede.
Il dibattito sul tema indipendentismo, indipendenza, autodeterminazione democratica può essere considerato usurato solo nel senso che troppo spesso, specie sugli organi di informazione, è trattato con sufficienza e pressapochismo, in termini stereotipati. A maggior ragione avrebbe bisogno di essere rilanciato e approfondito. Non per gusto soggettivo o per adesione ideale, ma semplicemente perché è IL TEMA di questa fase storica, in Sardegna.
Grazie per la precisazione, in ogni caso.