
A pandemia ancora in corso, si susseguono gli incontri internazionali dedicati al problema del cambiamento climatico e al dissesto ecologico del pianeta. In entrambe le questioni esiste una forte contrapposizione tra “apocalittici e integrati” e tra conformisti e dissenzienti, su cui però la politica e l’informazione spesso operano in termini semplificatori e deformanti.
Sulla questione del covid-19, nonostante tutto l’apparato mediatico e i governi cerchino da mesi di indirizzare attenzioni ed eventuali dissensi dentro cornici controllabili, esistono posizionamenti non riconducibili a schematismi facili.
La narrazione dominante, che vede da un lato chi combatte il virus e i suoi effetti dall’altro un capro espiatorio indicato all’occorrenza, si scontra con una realtà oggettivamente più complessa, di cui la maggioranza delle persone si rende conto spesso vagamente, ma con inquietudine.
Dentro questa maggioranza, una quota a sua volta maggioritaria tende ad aderire, per convinzione o per paura, ai precetti veicolati dal potere e incanalati dai media; una quota minore ma non inconsistente esprime dubbi e anche critiche, ma con orientamenti diversi e a volte opposti, in molti casi senza che questo abbia conseguenze dirette sulle scelte pragmatiche. Per fare l’esempio dei vaccini, molte persone vaccinate e del tutto in regola con le prescrizioni governative (green pass, ecc.) mantengono comunque un atteggiamento di dubbio sulla gestione pandemica e sull’azione della politica. Altri si affidano alle comode e deresponsabilizzanti tesi cospiratorie. La porzione di no-vax, ossia di persone radicalmente ostili ai vaccini in quanto tali, sono un’esigua minoranza, a volte rumorosa, ma solo perché amplificata ad arte dal circuito mediatico.
Le manifestazioni definite dagli organi di informazione, in modo liquidatorio, “no-vax” o “no-green pass” (con una sovrapposizione indebita), in realtà sono il sintomo di un disagio più vasto e più profondo, che innerva la rete di relazioni sociali e le dinamiche interpersonali, che esiste comunque, a dispetto dell’egemonia viro-centrica, classista e autoritaria.
Non cogliere tutti i risvolti di questo dissenso, benché non sempre chiaro nelle sue proposizioni e nelle sue manifestazioni esteriori, non ne sminuisce la carica critica e i nuclei di verità da cui nasce. Semplicemente esime i pavidi e gli opportunisti da uno sforzo di comprensione e di chiarimento, pure necessario.
Codificare il dissenso come eversivo, o liquidarlo come ottusamente reazionario, affibbiando a qualsiasi espressione di dubbio sminuenti etichette di comodo, fa il gioco dei grandi centri di potere che cercano di governare lo scenario attuale e possibilmente di avvantaggiarsene. Nel quadro italiano, mi pare del tutto evidente che le scelte governative, già sotto la presidenza del consiglio di Conte e con forza ancora maggiore sotto Draghi, siano perfettamente in linea con i desiderata della Confindustria e dei grandi interessi costituiti internazionali. Tanto sul fronte della risposta alla pandemia, quanto su tutti gli altri dossier strategici, in primis sul discorso energetico e della cosiddetta transizione ecologica.
Il legame tra strategie anti-pandemiche e questione climatica-ambientale sono più stretti di quanto comunemente venga detto. Questo, a prescindere dall’origine del virus SARS-CoV-2 e dalle circostanze della sua diffusione. Che si sia trattato di spill-over tra qualche specie animale selvatica e specie umana o, come sembra sempre più probabile, di un incidente di laboratorio con molti responsabili (Cina e USA prima di tutti), è innegabile che le dinamiche socio-economiche e politiche in cui si è innestata la pandemia hanno delle caratteristiche tali da favorirne la diffusione e gli effetti nocivi.
Le ampie diseguaglianze sociali sia dentro le comunità privilegiate sia, in termini ancor più drammatici, tra queste e il resto dell’umanità, sono al contempo una causa del successo di questo virus e una conferma della pericolosità storica dell’attuale modello di produzione, di divisione del lavoro e distribuzione delle risorse. Il disastro ecologico in corso, di cui i mutamenti climatici sono solo uno degli effetti, ne discende direttamente.
Su questo, i governi e i centri di interesse privato dominanti da tempo cercano di orientare l’opinione pubblica in un senso vantaggioso per sé. Da un lato negando il problema. Una quantità enorme di denaro, in questi anni, ha costantemente foraggiato centri studi, organi di informazione, autorevoli opinionisti, esponenti politici per far prevalere l’idea che il cambiamento climatico non esiste o, se esiste, non ha a che fare con l’attività umana. E, in tutto questo, hanno ottenuto se non altro di escludere dal dibattito tutto il resto del complesso dissesto della biosfera, a cominciare dalla grande estinzione di massa già in corso e dalla drastica e pericolosissima diminuzione della biodiversità.
Un’altra parte del mainstream mediatico e politico, apparentemente schierata sul fronte opposto, ossia quello di chi non nega il problema e vorrebbe affrontarlo, in realtà è essa stessa parte integrante del problema. Si tratta delle posizioni prevalenti sulla scena internazionale. Transizione ecologica sì, ma governata in modo verticistico e autoritario e al contempo orientata a favorire gli stessi grandi interessi che fin qui hanno tratto vantaggi dalla devastazione ambientale. Perciò: incetta di denaro pubblico; investimenti in tecnologie tutt’altro che risolutive, ma assai remunerative; narrazioni strumentali. Non a caso rispunta l’opzione nucleare, o si cerca di imporre come soluzione ideale lo sfruttamento capitalista di spazi naturali o suoli agricoli per la produzione di energia da fonti sì rinnovabili (sole e vento), ma sfruttate in termini di profitto privato.
In ogni caso, dietro molta retorica favorevole alla transizione ecologica, si cela spesso, più o meno abilmente, il favore per le fonti fossili e per la modalità neo-coloniale di produzione e sfruttamento del lavoro e delle risorse. Indicativa, in questo senso, un’inchiesta del Washington Post di pochi giorni fa a proposito della COP26 in corso a Glasgow. I governi, anche quelli dichiaratamente favorevoli alla transizione ecologica, si prestano a fare il lavoro sporco, usando dati falsati, alimentando false aspettative.
Lo denuncia anche il climatologo Michael Mann, come riportato da Valigia blu:
Nel saggio “La nuova guerra del clima” (Edizioni Ambiente, 2021), il climatologo statunitense Michael Mann affronta le insidiose tattiche messe in campo dalle aziende del fossile per ritardare la transizione ecologica. La nuova guerra del clima non è più contro chi nega la realtà dei cambiamenti climatici, ma contro quelli che chiama gli “inattivisti”, coloro che mirano a deviare l’attenzione dalle misure necessarie e a focalizzarsi su false soluzioni.
Il nuovo libro di Mann è una vera e propria guida che insegna a districarsi tra le trappole di chi si proclama “ecomodernista” e propone la geoingegneria come soluzione, di chi fomenta sfide di “purezza” tra chi adotta lo stile di vita più ecologico o ancora di chi si dispera perché “ormai non c’è più tempo”. Sono queste, secondo lo scienziato, le strategie degli “inattivisti”, che hanno un solo obiettivo: distogliere l’attenzione dal cambiamento sistemico e fare in modo che si possa continuare a bruciare combustibili fossili.
In questo quadro, sia che si tratti di pandemia sia che si tratti di crisi ambientale globale (ma anche di altro), appare non solo necessario ma direi auspicabile mantenere vivo e dinamico un ampio fronte di dissenso e di dubbio. A contrasto sia delle semplificazioni cospiratorie sia, e direi soprattutto, del conformismo acritico di matrice scientista e spesso classista e anti-popolare. Il dissenso e il dubbio, persino quando hanno parzialmente o totalmente torto, sono una protezione indispensabile contro qualsiasi deriva autoritaria, di là da venire o già in corso.
Non è solo un aspetto contingente di questo passaggio storico. È un principio universale valido a un livello direi biologico ed evolutivo. Così come la biodiversità è funzionale al perpetuarsi della vita, anche laddove appaia ridondante, così la diversità culturale e politica, la varietà di sensibilità e di opzioni, sono funzionali alla vitalità sociale e alla perpetuazione della nostra specie.
A questo principio generale rispondono il diritto di parola, la libertà di pensiero e di manifestazione dell’opinione, molto più che a un precetto giuridico liberale.
Il fastidio ostentato da molti commentatori di grido e da una certa parte dell’opinione pubblica, sui vari media, verso le posizioni dissenzienti rispetto alle decisioni governative e verso l’attivismo climatico sono forme di conservatorismo ottuso, a vantaggio di chi domina lo status quo e ci lucra su.
Non cogliere i nuclei di verità da cui parte molta della contestazione di piazza contro la gestione della pandemia e/o ostentare disprezzo verso le giovani attiviste come Greta Thunberg o Vanessa Nakate non è indice di ragionevolezza e di intelligenza, ma molto spesso solo una triste manifestazione di egoismo di classe o di banale stupidità.
Stupisce e merita ammirazione, invece, la capacità che ha il movimento per la giustizia climatica non solo di non farsi intimidire e zittire, ma anche di non farsi ingabbiare, corrompere, anestetizzare dai tentativi di cooptazione paternalistica.
Meraviglioso il modo in cui proprio Greta Thunberg e Vanessa Nakate hanno accolto la comparsata di Barak Obama alla COP26 di Glasgow. Mentre tutti i media progressisti (o sedicenti tali) si sdilinquivano dietro all’abilissimo ex presidente USA, loro ne smascheravano l’ipocrisia e precisavano la propria distanza dalla sua retorica auto-assolutoria. Chapeau!
Ciò che ci insegna il giovane e lucidissimo movimento per la giustizia climatica e ciò che devono suggerirci le manifestazioni di dissenso verso le scelte governative in materia di covid-19 (così come, su un altro piano ma in consonanza, il femminismo intersezionale) è che il dissenso serve, è una cosa buona, ne abbiamo bisogno. Non importa affatto che siamo d’accordo o no. Non è nemmeno centrale il problema delle infiltrazioni fasciste in alcune manifestazioni italiane, che ci sono nella misura in cui si lasci loro lo spazio di agibilità. Il fascismo va escluso e marginalizzato sempre e comunque, proprio perché, tra le altre cose, è di suo un elemento di inquinamento politico a vantaggio delle classi dominanti.
Non dobbiamo lasciarci condizionare nel nostro giudizio da ciò che ci impone l’informazione mainstream. Dobbiamo invece essere sollevati e grati per il fatto che non domini incontrastato il pensiero unico, che ci sia ancora chi osa mettere in discussione il Potere, la “ragione ufficiale”, la Scienza (con la maiuscola, ossia una forma di fede). È una delle caratteristiche necessarie di qualsiasi democrazia, molto più della possibilità di andare a votare ogni tot anni.
In Sardegna questa lezione è mal compresa e quasi sempre rigettata anche dall’intellighenzia progressista e dalla sinistra istituzionale. In fondo sono esse stesse fattori di conservazione anti-popolare e anti-democratica, nello scenario sardo contemporaneo. Tant’è vero che anche del fatto che moltissima parte dell’elettorato sia esclusa da ogni rappresentanza istituzionale e che a votare ci vada ormai giusto una metà degli aventi diritto non è che si preoccupino più di tanto.
Confido che negli ambiti politici e culturali meno compromessi si possa invece ragionare diversamente, senza snobismi o purismi dottrinari, e non solo assecondare ma anzi alimentare e riempire di contenuti e di istanze emancipative il dissenso diffuso. Finché esiste.