Le elezioni in Norvegia hanno consegnato la vittoria al partito laburista, dopo un paio di mandati dei conservatori. Tema dominante? Il cambiamento climatico. In un paese che da decenni si regge, molto vantaggiosamente, sulla propria disponibilità di risorse petrolifere. Non sembra che il nuovo leader in pectore, Jonas Gahr Støre (appartenente alla famigerata “terza via” di Tony Blair), sia particolarmente sensibile alle posizioni ambientaliste; ma il dibattito c’è stato ed è ancora vivo.
In Spagna si discute di rincari delle bollette energetiche, anche alla luce dei devastanti incendi di questo periodo (quasi 10mila ettari coinvolti, la metà dell’incendio nel Montiferru del luglio scorso). Viene chiamato in causa il riscaldamento globale. È comunque una grana complessa da affrontare, per il debole e compromissorio governo socialista iberico (tanto caro alla “cultura di sinistra” mainstream italiana).
Negli USA, mentre si cerca di lasciare da parte la questione afghana, si riparla di transizione energetica, anche qui davanti all’ennesima stagione di giganteschi incendi, e di un mostruoso piano di ristrutturazione e riqualificazione da migliaia di miliardi di dollari. Il quesito è: chi dovrà pagare più imposte per finanziarlo? Scoglio non da poco per un’amministrazione Biden già in affanno.
Il tema della pandemia, sul piano strettamente emergenziale, sta rapidamente perdendo il centro della scena, a livello internazionale. Il fatto che la vaccinazione di massa, nei paesi ricchi, stia riducendo gli effetti più gravi del contagio e alleggerendo il carico dei servizi sanitari consente di spostare il focus su altre questioni strategiche. Almeno fino alla diffusione della prossima variante del SARS-CoV-2, proveniente da qualche popolazione esclusa dalla vaccinazione.
Le classi dominanti globali, in effetti, puntano molto sulla grande crisi attuale, perché ci vedono più una opportunità che un pericolo. Non sono certo ferme in attesa degli sviluppi. I segnali di un prossimo conflitto di classe e al contempo territoriale su scala planetaria ci sono tutti. Chi può, si attrezza per affrontarlo.
Nella depressa e scalcinata pseudo-repubblica italiana le cose non vanno troppo diversamente, con l’aggravante che la classe dominante locale è tra le più grette, cialtrone e ignoranti del globo.
La classica altalena tra vittimismo e autoesaltazione sciovinista (i successi sportivi, in questo senso, sono sempre un ottimo dispositivo propagandistico) consente a chi dirige il Paese di fare i suoi bei piani, al riparo da contestazioni troppo diffuse e organizzate. La stessa gestione della pandemia, in questo senso, è stata un capolavoro. All’italiana, beninteso.
Ora qualche nodo viene al pettine e sarà interessante vedere come se la caveranno.
Uno è, anche qui, il problema dei rincari energetici. Viene fuori che la Cina sta spostando la sua domanda di fonti energetiche dal carbone al gas liquido (GNL), facendo così schizzare in alto i prezzi di questa materia prima. Non può essere considerata una sorpresa.
Da molti anni, alla luce degli studi del Club di Roma e di altri enti di ricerca, si sa che il livello di consumi (e di spreco) dei paesi ricchi (USA in primis) è insostenibile. Ce lo siamo potuti permettere solo perché la gran parte dell’umanità non consumava (né sprecava) altrettanto. Ora questa condizione sta venendo rapidamente meno. E non potremo imporre a Cina, India e altri popolosi paesi emergenti di rinunciare a ciò che gli Europei si sono presi con le buone e/o con le cattive per secoli. Abbiamo un piano B?
A quanto pare no. Lo vediamo bene in Italia, dove le combriccole che gestiscono la cosa pubblica (a vantaggio della loro cosa privata), si stanno giocando la carta della transizione ecologica per salvaguardare i propri interessi e inserirsi vantaggiosamente (per sé) nel gioco di potere in corso, a livello internazionale.
Le dichiarazioni del ministro preposto, Roberto Cingolani, apparentemente goffe e inappropriate, in realtà esprimono coerentemente orientamenti e prospettive dei gruppi di interesse che lui rappresenta.
Per questo, lungi dal suonare rassicuranti, gli scenari che apre riguardo alla Sardegna sono da valutare alla stregua di vere minacce.
Del resto, cosa sia la Sardegna per la classe dominante italiana dovrebbe essere noto. Dovrebbe anzi essere uno dei temi principali da affrontare, quando si tratta di ricostruire la storia contemporanea dell’isola.
Fanno notizia, di tanto in tanto, le uscite apparentemente sopra le righe di questo o quel personaggio pubblico a proposito della Sardegna. Di norma la polemica dura lo spazio di una giornata, o di poche ore, e quasi sempre riguarda fatti di poco conto e di nessun peso reale. Altre volte, questi incidenti comunicativi (diciamo così) risultano ben più rivelatori.
Il recentissimo episodio dell’esponente “renziano” Librandi, secondo il quale i Sardi non avrebbero nemmeno diritto di parola, dato che sono “loro”, la razza eletta degli italiani del nord, a “lavorare e tirare la carretta” anche per noi, è sintomatico di un senso comune diffuso e radicato nella classe dominante italica.
La Sardegna è un oggetto storico senza alcuna voce in capitolo, priva di una propria soggettività storica e politica. Il fatto che sia una terra di dimensioni cospicue, abitata stabilmente (da alcuni millenni) da una popolazione umana, non ha alcuna importanza. La popolazione dell’isola è essa stessa, al più, una variabile dipendente. Spesso si trasforma in un fattore di disturbo. Come tale, da ignorare, tutte le volte che si può, magari concedendo qualche vantaggio materiale alla sua classe dirigente coloniale; da tenere a bada, quando serve, blandendola paternalisticamente o, a seconda delle circostanze, reprimendone in vari modi le istanze emancipative o anche solo critiche.
L’elusione sistematica, a livello di mass media dominanti, della questione dell’occupazione militare dell’isola, è significativa. Così come è significativa la chiara volontà dei governi italiani di ogni epoca di escludere l’isola da qualsiasi vero intervento di infrastrutturazione civile, di investimento utile all’isola, e non (solo) all’Italia, persino quando siano in gioco diritti pure nominalmente garantiti dalla costituzione (la “più bella del mondo”).
Che solo adesso i mass media, la politica sarda gli stessi sindacati si accorgano, scandalizzati, del disastro dei trasporti esterni dell’isola (marittimi e aerei) è talmente grottesco, che non risulta nemmeno offensivo. L’insano connubio tra robusti interessi privati, centri di potere opachi e organi di informazione, in Sardegna, è un problema enorme, ma non di questi giorni. È un problema che si inserisce in termini strutturali e sistemici dentro la condizione storica subalterna dell’isola, come uno dei fattori decisivi.
Ogni manifestazione concreta delle disfunzioni a cui ci costringono la subalternità e la dipendenza viene presentata, tutte le volte, come un caso emergenziale e contingente, su cui l’unica cosa che può fare la nostra classe dirigente è chiedere aiuto a Roma (o al Qatar, o a chissà chi altri).
Il fatto stesso che si concepisca la “continuità territoriale” della Sardegna solo da e per l’Italia (*alcune aree* dell’Italia, per la verità), la dice lunga su come siamo messi. Un’isola grande, centrale, le cui coste si affacciano su mari che bagnano non meno di cinque stati, dovrebbe avere una vocazione spontaneamente internazionale, altro che “isolamento” e “insularità in costituzione”.
Tutte le tematiche in agenda sono connesse al grande tema generale dei modelli economici e sociali dominanti, del loro impatto sul pianeta e sulla vita degli esseri umani. Disinteressarsene non serve ad altro che subire scelte altrui, in una fase di transizione storica già complicata di suo e che comincia a presentare il conto.
Invece in Sardegna siamo fermi, inerti e inermi, in bilico su una china pericolosa, senza alcun piano né alcuna volontà di averlo. Non c’è sul tappeto, negli interessi e nelle intenzioni di chi occupa ruoli di responsabilità pubblica, alcuna visione strategica, nemmeno uno straccio di prospettiva. Solo piccolo cabotaggio clientelare, rapacità da ladri di galline eretta a ordinaria amministrazione, attitudine servile verso i potenti da cui si dipende. Questa è la nostra politica.
Una politica, non a caso, di cui la grandissima maggioranza degli abitanti dell’isola diffida; se deve, ci scende a patti; quando può, ne prescinde. E questo vale – sia pure a vari gradi di dipendenza, compromissione o complicità – per tutti gli strati sociali.
L’emergenza pandemica è servita anche a spostare l’attenzione da tali questioni di fondo. Temo che il governo italiano e la classe dirigente che lo esprime cercheranno di prolungarla il più possibile, onde avere le mani libere nella gestione dei 190 miliardi di euro (o giù di lì) del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza: nome orripilante e già di suo ingannevole). Sarà una grande operazione di redistribuzione verso l’alto di risorse pubbliche, a detrimento di qualsiasi reale aspettativa di rinnovamento strategico. Le ricadute di tutto questo sulla Sardegna saranno comunque deleterie. È una previsione fin troppo facile.
Che ci sia necessità di una diversa prospettiva politica, nell’isola, è chiaro da un pezzo. Se ci siano o no le risorse e le forze per dotarcene è un quesito sterile, dato che ci tocca giocare con le carte che abbiamo. Magari servirebbe, come tante volte auspicato, un salto di qualità non solo e non tanto nella consapevolezza diffusa, quanto prima di tutto nello spirito di solidarietà e nella generosità a favore di una nuova stagione di battaglie sociali e culturali democratiche collettive.
Il primo passo, comunque, resta sempre quello di riconoscere i problemi, la loro natura, le loro cause. Terreno su cui la nostra intellighenzia, il nostro ambito intellettuale, il mondo delle professioni, l’università e la scuola sono tragicamente indietro, o lavorano in senso opposto. Le sparute “ridotte” politiche e sociali d’opposizione (reale) sono chiamate dunque a un compito impari. A cui, tuttavia, non possono sottrarsi. Cincischiare con diversivi o temi del tutto secondari, se non fuorvianti, magari per difendere un proprio orticello di consenso, o ambizioni personalistiche, o il proprio recinto identitario, è un errore che non dovemmo più compiere.
Due articoli che toccano tematiche sollevate anche in questo post, con taglio non perfettamente coincidente tra loro, ma abbastanza consonante. Tutta materia di riflessione, al di là dell’adesione totale o parziale alle tesi esposte.
Uno: https://jacobinitalia.it/il-capitalismo-cannibale/
Due: https://www.elcritic.cat/entrevistes/jorge-riechmann-despres-del-col-lapse-climatic-hi-haura-un-genocidi-50340?utm_source=social&utm_medium=share&utm_campaign=whatsapp
Buona lettura.