Incrociando la cronaca spicciola italiana, e in particolare l’affaire “Montanari”, con la questione della gestione della pandemia, sorgono spontanee delle riflessioni su cosa sia la democrazia oggi, in Italia e nei paesi sedicenti democratici, così come in generale nel mondo.
La costituzione italiana è antifascista, ma l’Italia non lo è. Non si è mai imposta, nel senso comune e nelle prassi politiche reali, la discriminante antifascista come fondativa del nuovo patto democratico post II Guerra Mondiale. Oggi fascismo e antifascismo sono posti sullo stesso piano, favorendo così la legittimazione del fascismo.
Non è una cosa di questi giorni. Immediatamente dopo il passaggio di consegne tra la vecchia classe politica (così detta Prima Repubblica) e quella che avrebbe dovuto gestire il dopo Guerra Fredda, una delle parole d’ordine del nuovo assetto di potere italiano fu la “riconciliazione”, il sostanziale superamento (a destra) degli assetti del cinquantennio precedente.
Quel che non era riuscito alla strategia della tensione, riusciva ora molto più facilmente, con la complicità della dirigenza post-comunista, a una nuova leva di politicanti per lo più senza scrupoli e senza radici, votati al proprio “particulare” e a una rigida fedeltà di classe (padronale).
Il che si inseriva perfettamente nella ridefinizione degli assetti politici mondiali, in cui il vero “grande nemico” novecentesco (sia pure largamente putativo), il socialismo, poteva essere rimosso dalla scena, senza tanti rimpianti.
Il cosiddetto neo-liberismo (ossia non la scomparsa degli stati e delle loro funzioni ma la loro sottomissione agli interessi delle classi ricche) diventava la dottrina egemonica.
In tale scenario, diventava del tutto lecito e persino auspicabile un certo recupero utilitaristico del fascismo, come spauracchio di comodo (da usare rigorosamente a sproposito), come strumento di pressione, all’occorrenza come manovalanza.
Coerentemente, tutta la retorica politica e la Grande narrazione pubblica dagli anni Novanta in poi, in Italia, sono state indirizzate a marginalizzare qualsiasi ipotesi di mutamento politico radicale, di democrazia popolare, di progresso civile e sociale.
Porre sullo stesso piano fascismo e comunismo e poi fascismo e Resistenza è servito a far interiorizzare all’opinione pubblica una sorta di “memoria condivisa” (locuzione di suo reazionaria) in cui vengono azzerate tutte le differenze ideali, valoriali, pragmatiche, ogni possibile distinzione di fondo tra democrazia e anti-democrazia, tra lotte di emancipazione e autoritarismo, ecc.
La fine ingloriosa della sinistra in Italia è un effetto di questo processo, a cui però le dirigenze della sinistra, come detto, hanno contribuito attivamente. C’è da stupirsi se da questa poltiglia indigesta siano emersi sia il pastrocchio del PD e la sua derivazione di destra renziana, sia i populismi destrorsi o diversivi che hanno dominato la scena fin qui (da quello berlusconiano, ai 5 stelle, fino a Salvini e Meloni)?
L’intera parabola politica e sociale dell’Italia degli ultimi trent’anni è un costante e preciso percorso di svuotamento della democrazia, sia in senso formale sia soprattutto in senso sostanziale.
Se ci troviamo, oggi, nell’affrontare una sfida di indole storica e strategica come una pandemia, a dover subire decisioni per lo più cervellotiche e meramente spettacolari, tramite una decretazione governativa d’emergenza ormai pienamente legittimata, non è un caso. Non esiste più un’opposizione, se non fittizia e tutta collocata a destra del governo. Non esiste più un’opposizione sociale organizzata e capace di mobilitare le masse. Non esiste più alcuna opposizione nemmeno a livello di intellighenzia, di ambiente culturale.
La vicenda di Tomaso Montanari, per come si è svolta, per come è stata trattata dai media (compresa la televisione pubblica), è emblematica. Se ne deduce che il vero scandalo, in Italia, è l’antifascismo. Il classismo, il cesarismo (anche a livello locale: pensiamo al presidente della Campania, De Luca, o a quello dell’Emilia-Romagna, Bonaccini; entrambi del PD, per altro), la costante denigrazione delle masse popolari, il fastidio per il suffragio universale, l’ostilità a qualsiasi posizione critica che metta in discussione assetti di interessi e di potere consolidati, sono tutti caratteri costitutivi del tessuto politico, sociale e culturale italiano attuale. Anche in quel che resta della (ex)sinistra.
È una deriva in corso, che non ha alcuna intenzione di arrestarsi e non ci ha fatto ancora vedere i suoi esiti peggiori. La pandemia di covid-19 è stata colta al volo per dare un’accelerata a tale processo di svuotamento democratico. Presto saremo assuefatti a modalità di governo e a forme di imposizione di cui non percepiremo nemmeno più la natura profondamente reazionaria (per riflessioni ampie e articolate su tutta la tematica, invito a leggere questo, questo e questo).
In tutto ciò ha un ruolo essenziale il mondo dei media e dell’informazione, naturalmente. Basti pensare alle messe in scena con cui veniamo costantemente distratti o orientati nei nostri giudizi. Omettendo o selezionando le informazioni, veicolandole tramite cornici predeterminate, apparecchiando qualche diversivo, additando qualche capro espiatorio (oggi i no-vax, ieri la movida, o i runner, e prima ancora, a seconda del periodo e del tema da enfatizzare o nascondere, i “cani assassini”, o i “clandestini”, i Rom, gli Albanesi, ecc. ecc.). Beninteso, sullo sfondo, nella parte di Italia che conta e a cui sono destinate risorse, attenzioni, infrastrutture, rimane sempre viva anche la discriminante razzista/coloniale verso il Meridione, la Sicilia e la Sardegna (gli esempi, anche in questo caso, sono pressoché quotidiani). Tutto avvolto e impacchettato nella maleodorante confezione di sciovinismo vittimista e nazionalismo banale su cui si fonda l’esistenza stessa dell’Italia come stato e la prosperità materiale della sua classe dominante.
La narrazione revisionista sulle “foibe” e la retorica filo-fascista del Giorno del Ricordo fanno parte integrante di questo apparato di segni e simboli. Per questo tirarle in ballo per contestarne la portata e il senso, come ha fatto Tomaso Montanari, non da un’angolatura militante o dichiaratamente contro-egemonica, ma da una posizione di particolare autorevolezza e visibilità, è un atto di sovversione inaccettabile.
In generale, da un punto di vista più ampio, è innegabile un fenomeno di ripiegamento anti-democratico globale. Esistono naturalmente differenze anche notevoli a seconda di quanto sia culturalmente e politicamente matura una popolazione e ovviamente a seconda delle diverse condizioni materiali. Ma sembra del tutto evidente che la spinta impressa dalle classi dominanti a ogni latitudine, sia pure con le oscillazioni e le contraddizioni del caso, è volta a realizzare sistemi di governo pseudo-democratici, a-democratici o anti-democratici (soprattutto sul piano di quella che viene definita tecnicamente policy, ossia politica applicata, reale).
Meccanismi potenti di orientamento e di controllo, la possibilità di monitorare costantemente umori, idee, aspettative e bisogni, una sproporzione di forze insuperabile, consentono alle classi dominanti di giocare la propria partita per l’accaparramento della ricchezza usando i popoli e le varie porzioni del pianeta come pedine e come base materiale da cui estrarre valore e perpetuare se stesse.
Confidare che queste stesse classi dominanti prendano davvero a cuore il dissesto climatico in corso, gli enormi problemi di squilibrio ecologico, le drammatiche diseguaglianze sociali esistenti (interne ed esterne agli stati) e la stessa pandemia come problemi strategici da risolvere insieme, nell’ottica di interessi generali e diritti umani da salvaguardare, è una pia illusione.
Proprio per questo, alle medesime classi dominanti (che non sono entità astratte, ma sono gruppi umani, persone, grumi di relazioni materiali) preme molto che non si formi mai e da nessuna parte una vera opposizione culturale, sociale e politica di dimensioni tali da minacciare realmente il loro potere.
Non deve nascere nemmeno a livello locale. Che sia il Rojava o la Catalogna, il Chiapas o il partito laburista britannico (facendo tutti i distinguo del caso), ogni possibile minaccia, magari anche vaga o ipotetica, all’egemonia anti-democratica e anti-popolare deve essere contrastata con ogni strumento necessario. Fascismi e integralismi, mafie, conflitti etnici e razzismo sono instrumenta regni, attrezzi di dominio politico, buoni come altri. Meglio di altri.
Alla luce di queste considerazioni, sia la polemica – assurda, pretestuosa – contro Tomaso Montanari, quanto le mille altre circostanze in cui nello scenario italiano vengono contrastate tutte le prospettive di reale opposizione politica, sociale e culturale, anche a livello territoriale, possono essere meglio comprese (pensiamo alla lotta No-TAV della Val Susa, o all’indipendentismo e all’anti-militarismo in Sardegna). E possono essere meglio interpretate le narrazioni di comodo, capziose, tendenziose, che ne danno i mass media.
Per ora (r)esistono qua e là residui spazi di contro-informazione e contro-narrazione, ambienti dove è ancora possibile un minimo esercizio di parresia (banalmente, dire la verità), e anche qualche forma di opposizione sociale e politica. Ma si tratta di una nebulosa di segni e azioni, di teoria e di prassi, minoritaria, non coesa, ancora condizionata da strumenti teorici e forme organizzative del passato, poco funzionali e anche più facilmente contrastabili dalla controparte.
In ogni caso, tali spazi e tali esperienze vanno custoditi e alimentati, mantenendo una forte vigilanza critica e una decisiva propensione alla generosità e alla solidarietà, l’accettazione della complessità e delle eterogeneità del mondo, la coscienza dei legami tra le comunità umane e tra queste e il mondo che le ospita.
La vera battaglia politica globale di oggi e di domani, connessa inestricabilmente a quella ecologica, è quella contro il modello sociale e politico (dunque economico) dominante. Che, da parte sua, nelle sue diverse articolazioni concrete, preferirà sempre – ribadiamolo – una deriva fascista, autoritaria e repressiva a un eventuale processo emancipativo ed egualitario.
È una battaglia strategica e di lunga durata, che non va declinata in modo astratto e uguale dappertutto, ma attuata pragmaticamente a seconda del contesto, delle dinamiche specifiche, delle forze in campo. In questo senso, è decisivo saper analizzare le varie situazioni concrete, conquistare la piena consapevolezza della propria collocazione nel tempo e nello spazio.
La condizione storica della Sardegna non è la stessa dell’Afghanistan o dell’Eritrea, della Scozia o del Kurdistan, ma ovunque ci siano territori da decolonizzare, ovunque ci siano da conquistare spazi di democrazia reale, di convivenza pacifica, di eguaglianza sostanziale e di libertà, là esiste un nucleo pulsante di valori e di obiettivi universali, su cui costruire una diversa prospettiva per il futuro di ogni comunità umana e, in generale, del nostro piccolo e insostituibile pianeta.