Ampio risalto sui mass media per le vittorie sportive italiane alle Olimpiadi, con dosi massicce di retorica patriottarda e vanagloriose esaltazioni nazionaliste. Anche in Sardegna. I successi sportivi vengono usati, al solito, come strumenti diversivi e dispositivi di condizionamento del comune sentire.
Il ruolo dei mass media sardi è sempre funzionale al controllo sociale e all’orientamento politico dell’opinione pubblica. La politica un po’ ci fa, un po’ ci crede, ma è evidente che sta pensando ad altro (prossime tornate elettorali, spartizioni, alleanze da fare e disfare, ecc.). I cittadini, persa da tempo la funzione delle formazioni intermedie in cui si potevano esercitare la partecipazione civica e la discussione elaborata sui temi generali, per lo più si destreggiano seguendo le logiche dei social, ma mostrano anche un certo, sano scetticismo e agiscono in base ad indicatori non sempre intercettati dai dispositivi egemonici.
In questo scenario, procede una gestione della pandemia di tipo squisitamente conservatore, a tratti smaccatamente reazionario, in attesa delle nuove chiusure e della caccia all’ennesimo colpevole di comodo.
Vero è che l’allarme sulla nuova ondata di contagi è molto minore che nelle occasioni passate. Dato che ci troviamo ancora in piena stagione estiva, sembra brutto rovinare gli affari di chi dalle vacanze ci guadagna. E non mi riferisco al commercio al dettaglio locale o alle attività minori che ruotano intorno al turismo estivo. Il sospetto che si aspetti il post ferragosto per una nuova stretta sulla libertà di movimento e sulle attività culturali e ludico-ricreative è molto forte (alcuni eventi culturali sono già stati cancellati o sono in forte dubbio).
La necessità di attenuare gli effetti peggiori del contagio esiste, beninteso, ma non è affrontata se non in termini puramente spettacolari, contraddittori, anti-democratici. Una coercizione mascherata, di cui le istituzioni rifiutano di assumersi la responsabilità, non può che indurre sospetto, timori, disorientamento anche in persone tutt’altro che propense alle teorie complottiste. E il green pass (altro anglicismo inutile e diversivo) ha tutta l’aria di essere solo l’ennesima trovata per assuefare la cittadinanza a un sempre maggiore controllo e al crescente cedimento sul terreno delle libertà civili. Per non parlare dei suoi risvolti classisti e dei criteri cervellotici cui è sottoposto il suo uso.
Il tracciamento del resto sembra saltato da tempo. I numeri forniti quotidianamente da istituzioni e organi di stampa sembrano tutto fuorché attendibili. Il commentario che insegue i lanci giornalistici e i titoli degli articoli in tema covid pare girare a vuoto, come topi da laboratorio in una ruota.
Al netto di ragionamenti più sottili e puntuali (su tutta la questione, rimando volentieri alla discussione in corso (da molti mesi) su Giap), mi pare evidente – non da oggi – come la pandemia sia stata quasi subito trasformata in un classico choc sistemico di cui si sono avvantaggiate alcune fette dell’élite socio-economica mondiale, a dispetto e spesso a discapito di una larga maggioranza dell’umanità. La novità è che a pagare un certo prezzo sono state anche fasce sociali dei paesi ricchi solitamente escluse dagli effetti peggiori delle diseguaglianze su scala globale.
Una delle partite su cui le oligarchie dominanti hanno tratto vantaggio dalla situazione sanitaria è stato il problema climatico. Ridimensionato nelle attenzioni mediatiche, restato nell’agenda politica solo come copertura, di fatto è stato utilizzato per giustificare nuove, pericolosissime forme di estrattivismo compulsivo, sia pure colorato di verde.
L’appetito dei grandi centri di interesse capitalisti si è risvegliato più intenso che mai, dopo lo spiazzamento dovuto alla scoperta del contagio di massa. Ora sembra che complessivamente la pandemia faccia piuttosto comodo e non sono alle viste le risposte strutturali e strategiche che servirebbero a trasformarla in un problema endemico dagli effetti gestibili in termini ordinari.
È una scelta precisa e ben pianificata quella di non fare alcun investimento strutturale e strategico nella sanità pubblica, nella scuola, nei trasporti, nelle forme di lavoro, nel sostegno ai ceti deboli e ulteriormente debilitati dalla pandemia.
L’emergenza paga e mantenere vivo lo stato di emergenza sembra uno degli obiettivi delle classi dominanti globali, dove più dove meno, a seconda degli interessi strategici perseguiti.
I territori e le popolazioni che si trovavano già in una condizione di subalternità sono inevitabilmente quelli che pagano e pagheranno il prezzo più alto. Della maggioranza dell’umanità esclusa di fatto dalla campagna vaccinale sembra non interessi a nessuno, tra i grandi decisori politici. Eppure, se di pandemia si tratta, l’unico modo per debellarla è proteggere quanta più umanità sia possibile, a qualsiasi latitudine, a prescindere dalla classe sociale e dal reddito disponibile.
Ma il discorso vale anche per le aree subalterne, in condizione di colonialismo interno, degli stati ricchi. Ivi compresa la Sardegna.
Tanto dalle scelte socio-economiche quanto da quelle relative alla gestione sanitaria, fatte e/o ancora da fare, la Sardegna ha tutto da perdere. Il problema nel problema è che la classe politica sarda, maggioranza e (presunte) opposizioni, non è una controparte dei governi italiani, ma caso mai una loro emanazione o comunque un intermediario che tratta a proprio esclusivo vantaggio (di fazione e di classe), non certo in nome e per conto della collettività sarda nel suo insieme e di interessi generali e strategici situati nell’isola.
Su questi punti non possiamo permetterci di farci distrarre da polemiche social scatenate con estrema facilità su finte contrapposizioni (sì-vax contro no-vax; sì-green pass contro no-green pass, ecc.). Non possiamo nemmeno abboccare alla ventata neo-nazionalista (italiana)* alimentata grazie ai successi olimpici, benché sia umanamente comprensibile e nient’affatto stigmatizzabile la reazione soddisfatta di molte persone sarde alle vittorie di altre persone sarde (o di origini sarde). Va scisso il giudizio sulle reazioni spontanee dei cittadini da quello sui dispositivi utilizzati biecamente quanto efficacemente dalla classe dominante per ottundere le coscienze e imporre egemonicamente forme di identificazione strumentali al mantenimento dell’asimmetria sociale e territoriale..
Il problema non è che le persone sarde si sentano anche italiane. Non è un’identificazione così forte né così profonda. Che delle persone sarde facciano il tifo, in mancanza d’altro, per lo sport targato Italia (che sia calcio, atletica o qualsiasi altro poco cambia) è del tutto comprensibile e non significa affatto che la maggioranza delle persone sarde si percepisca davvero come un tutt’uno con chi abita la penisola italiana. Tant’è vero che alla prima occasione la differenziazione riemerge e viene fatta valere spontaneamente.
La questione identitaria è largamente sopravvalutata, sia nel campo dell’intellettualità – diciamo così – unionista, sia in quello della militanza indipendentista e autodeterminazionista. Ma è una questione ampiamente fuorviante, specie per i termini essenzialisti in cui è posta di solito.
Altro discorso invece è analizzare e criticare i dispositivi mediatici e retorici impiegati per piegare tale differenziazione, chiaramente percepita e spesso difesa, dentro cornici neutralizzanti. Le persone sarde possono identificarsi con altre persone sarde vincenti, ma sotto la bandiera dell’Italia. Un po’ come la Brigata Sassari (non a caso tirata in ballo ripetutamente a proposito dei successi sportivi). Diversi, ma integrati, insomma. E grati.
Ne riparleremo appena la stagione turistica sarà agli sgoccioli e la Sardegna tornerà ad essere l’isola “untrice”, la sede del grande focolaio della nuova ondata pandemica, da isolare e stigmatizzare.
Intanto però ne viene annunciata la trasformazione in una sede di sperimentazione “verde” per la produzione di energia da fonti rinnovabili. Sarà sicuramente un caso che un territorio refrattario a speculazioni esterne e a una vocazione diversa da quella storica dell’agro-zootecnia e delle produzioni artigianali, come il Montiferru, sia stato vittima di una devastazione mai vista prima. Sarà un caso, ma è un caso che si presta in modo singolare a disegni di neo-colonialismo ampiamente in campo, analogamente a quanto avviene in Sicilia (dove guarda caso, tra le altre cose, rispunta prepotentemente il folle progetto del ponte sullo Stretto).
Subalternità politica e culturale, disastri ambientali, gestione autoritaria e anti-popolare della pandemia non sono ambiti e temi distanti da affrontare separatamente. Si tengono tutti insieme dentro un quadro di sviluppi politici già in corso, a dir poco preoccupanti.
La reazione agli incendi di una così grande parte della popolazione sarda, una reazione autonoma e a tratti contrapposta alla politica romana o sarda, così come già successo in occasione di altre devastazioni, è il segnale che esiste una base forte e diffusa di solidarietà autodeterminata, un senso di appartenenza sovralocale, altruista, consapevole, democratico. Su questo occorrerà lavorare per non farci travolgere dai disegni neo-coloniali e dalle strette repressive che si profilano per i prossimi mesi.
Basteranno articoli e i titoli enfatici sui mass media a proposito di fuggevoli successi sportivi, o altre armi di distrazione e normalizzazione di massa, a soffocare la pulsione vitale di un’intera comunità umana? Lo vedremo.