La narrazione coloniale della Sardegna come terra malata e propagatrice di malattia.
“Virus, la Sardegna spaventa”. Titolo principale della prima pagina di Repubblica, domenica 23 agosto.
“Sardegna is the new Codogno”, presa da Facebook.
“Chiara Ferragni e Fedez fanno il tampone: ‘In Sardegna c’è un’aria un po’ pesante'”, titolo di un pezzo su l’Unione sarda online.
È solo un campionario minimo della campagna mediatica di questi giorni. La Sardegna, da terra ingrata che rifiutava l’aiuto generoso dei turisti, pretendendo misure di controllo e di contenimento dei flussi, si è trasformata, nel breve volgere di un paio di giorni, nel centro di propagazione della pandemia di covid-19.
Sfatiamo subito questo mito: né per tasso di contagi, né per numero di ospedalizzati, né per numero di infetti in terapia intensiva, e via elencando le varie categorie statistiche, la Sardegna è ai primi posti, nello stato italiano.
Basta consultare i bollettini giornalieri, persino quelli giornalistici (non sempre precisi e chiari), per farsi un’idea di dove stia ancora oggi il nucleo attivo del contagio.
Per di più l’incremento dei casi in Sardegna è dovuto al transito di persone infette provenienti da altri luoghi e dirette altrove (un turismo non certo “di massa”), ovvero dall’arrivo di turisti già infetti che, a volte consapevoli del proprio stato di salute, non hanno voluto rinunciare alla loro vacanza nell’esotico possedimento oltremarino.
Precisati questi dati di fatto, risulta chiaro come il meccanismo innescato negli ultimi giorni dai mass media sia tutt’altro che innocente e/o casuale. È un meccanismo di disinformazione a tappeto, piuttosto ben collaudato, che scatta con tempistiche molto precise in determinate circostanze. Non è certo la prima volta che succede (non so se ricordate la campagna sui “cani killer”, di qualche tempo fa, o – per restare in tema di covid-19 – quella sui “runner”, ecc.). Ma è sempre interessante cercare di capire il perché.
La Sardegna non ha mai goduto di buona stampa, in Italia. Mai. Solo negli ultimi anni ai soliti stereotipi razzisti e di indole colonialista si è aggiunta la retorica vacanziera del bel mare, della “natura selvaggia”, delle “tradizioni ancestrali” e via mitizzando. Una retorica non estranea al business turistico, su cui hanno messo da tempo le mani grandi imprese non sarde, specie nelle località più gettonate e più frequentate dai VIP.
Il tema della Sardegna come “isola delle vacanze” e come “terra a vocazione turistica” è entrato nella mitologia che la riguarda come uno dei suoi tratti distintivi. E fa ormai parte dello stesso senso comune degli italiani e persino di molti sardi (che vivono per lo più dentro una fiction televisiva italiana).
Anche qui siamo di fronte a un elemento mitologico, imposto egemonicamente dalla mediasfera italica. La realtà del turismo nell’isola è ben lontana da quel che propala il giornalismo italiano e crede di sapere lo spettatore/lettore “informato”.
Per darne un’idea, oltre a rinviare a quanto già scritto anche qui su SardegnaMondo, mi rifaccio a un post uscito pochi giorni fa su Facebook:
Sono questioni che è necessario problematizzare adeguatamente e far uscire dalle cornici impiegate di solito, perché anche qui c’è un bel grumo di fraintendimenti da togliere di mezzo.
L’idea che la Sardegna sia sostanzialmente disabitata per 9 mesi l’anno e che viva solo ed esclusivamente di ciò che porta il turismo estivo è un luogo comune duro a morire, alimentato purtroppo anche da molti sardi (specie della diaspora, duole precisarlo).
E tuttavia ancora siamo lontani dal capire a cosa sia dovuta la campagna terroristica sulla Sardegna “focolaio”, terra di untori e di contagio.
Può darsi che si tratti di una specie di riflesso condizionato. Sono un paio di millenni buoni che l’isola compare nelle narrazioni altrui – quasi sempre interessate – come terra infetta e infettiva. Già Cicerone aveva da dire la sua in proposito, in pieno I secolo a.C., ma poi la leggenda delle arie malsane della Sardegna si è irrobustita ed è diventata a sua volta un topos retorico e narrativo. Certo, la presenza della malaria nelle aree umide non ha aiutato, nel corso dei secoli. Ma non è mai stata un’esclusiva sarda.
Per di più spesso, a questo proposito, anche la storiografia ha scambiato causa ed effetto: la malaria imperversava in zone riconquistate dagli stagni e dalle lagune per via dell’abbandono umano, dovuto a sua volta a cause storiche (vuoi la vulnerabilità delle coste agli attacchi dal mare, vuoi i mutamenti di modelli produttivi e demografici, ecc.), e non viceversa.
Ma questo è giusto un inciso, tanto per chiarire che riguardo la Sardegna ha sempre prevalso la cattiva fama sulla reale conoscenza delle cose.
Non siamo messi molto meglio oggi. La Sardegna resta un oggetto storico misconosciuto, a volte presentato sotto una luce meno cupa da sguardi esterni benevoli, benché sempre viziati dal paternalismo razzista del bravo civilizzatore bianco, ma di solito trattata alla stregua di una landa selvaggia abitata da pochi esseri semi-umani sostanzialmente renitenti alla civiltà.
Molte reazioni italiche alle discussioni di questi mesi, relative agli arrivi più o meno controllati dei vacanzieri, sono denotate spesso da un sano stupore circa l’esistenza stessa nell’isola di un’insospettata soggettività autonoma, dotata di voce propria. È un tipo di reazione consueto, da parte del colonizzatore verso il colonizzato che pretende di dire la propria. Non posso che chiedere a chi legge di fidarsi ed eventualmente di approfondire la tematica alla luce degli studi post-coloniali, che l’hanno trattata e sviscerata in tutti i suoi risvolti.
C’è da dire che nella misconoscenza sulla Sardegna ha una responsabilità grande e forse decisiva l’afonia, o peggio la complicità con lo sguardo osservante esterno, dei nostri intellettuali e dei nostri personaggi pubblici, dei sardi e delle sarde che a vario titolo hanno conquistato posizioni e ruoli in Italia.
Anche in questi giorni la loro voce fatica a farsi largo nella mediasfera, forse perché nessuno sta prendendo la parola, forse perché manca una coscienza dell’appartenenza che non sia di mera rivendicazione occasionale, o che riesca ad affrancarsi dall’adesione di comodo agli stereotipi. Prendere posizione, per i sardi e le sarde integrati/e nell’ambito cultural-mediatico o politico italiano, può risultare pericoloso. Per di più, se lo fai, rischi di dover poi andare fino in fondo alla questione nodale e, tutto sommato, a chi conviene?
La questione nodale è sempre quella: il rapporto di forza totalmente sbilanciato tra la Sardegna e l’Italia, la subalternità e la dipendenza dell’isola come fattori determinanti di una relazione che non può essere che impari, al di là delle volontà soggettive, come elemento strutturale e storico non superabile, se non al prezzo di una ridefinizione radicale di questa relazione, che non può escludere, per forza di cose, una separazione.
Chi è che può avere voglia, in Italia, anche solo di aprire un serio dibattito su questo tema?
Detto ciò, resta comunque insoluto l’enigma circa le ragioni della campagna stampa di questi giorni. Qualcuno, nei commenti social, ha ipotizzato che l’afflusso di vacanzieri in Sardegna, molto più cospicuo di quanto preventivato, abbia disturbato qualche interesse italiano e dunque questa diffamazione “sanitaria” serva a ridimensionare una stagione turistica altrimenti non così sfavorevole all’isola.
A naso, se pure ci può essere in parte un calcolo di questo tipo, non sembra bastare. Piuttosto, una campagna siffatta può prestarsi a qualche misura governativa più drastica di chiusura o di controllo sul territorio (controllo sempre molto intenso, va detto, e ulteriormente cresciuto quest’estate per via della fuga di Gratzianeddu Mesina).
Però anche in questa ipotesi c’è da capire come mai, quando era la Sardegna a chiedere di filtrare gli arrivi dall’esterno (a parte il comprensibile fastidio degli operatori turistici in loco), si sia fatto di tutto, da Roma, per scongiurarlo.
C’è un margine di opacità in questa faccenda che non contribuisce certo a renderla meno inquietante. Chissà se capiremo meglio nelle settimane che vengono. Cerchiamo di restare vigili e di non farci irretire.
Potremmo in ogni caso approfittare della circostanza per ragionare una volta di più sulla nostra estrema fragilità. Una fragilità economica, sociale, politica, culturale che ci espone ad essere ancora una pedina in mani altrui, un oggetto storico in balia di volontà altre, spesso imperscrutabili, quasi sempre minacciose. In tempi difficili, come già detto e scritto altre volte, è una condizione particolarmente rischiosa.