Mentre anche in Sardegna arriva la spinta delle proteste innescate negli USA dal movimento Black Lives Matter, un cantante rap sardo viene condannato con decreto penale (ossia senza processo) per i contenuti testuali di una sua esibizione.
C’è qualcosa di estremamente contraddittorio in questi due episodi. Non solo sul piano del versante politico su cui possono essere collocati, ma anche su quello delle prese di posizione in proposito.
La versione sarda della mobilitazione anti-razzista e democratica dei BLM ha le sembianze di un’adesione meccanica e mimetica a istanze esogene veicolate dai mass media e, tramite questi, assorbite e interiorizzate.
Non che ci sia qualcosa di sbagliato nel metodo e nel merito. Si può essere ostili a questa presa di posizione politica (se si è razzisti, fascisti, suprematisti bianchi, maschilisti, ecc.) come si può essere favorevoli, al di là di vivere in un luogo lontano da quelli in cui la mobilitazione ha avuto origine.
Dirò di più, sentire come propri i problemi di qualsiasi altra porzione dell’umanità è una forma di empatia e solidarietà encomiabile, anzi necessaria.
I dubbi nascono dalla loro replicazione in Sardegna senza alcuna problematizzazione, senza alcun legame dichiarato con la realtà concreta, storica, sociale e culturale in cui tali manifestazioni avvengono.
Ne ha scritto molto lucidamente Alexis Barranger, sul suo profilo Facebook, e qui mi limito a citarne le considerazioni.
È proprio perché credo che l’intersezionalità delle lotte sia un prerequisito di qualsiasi battaglia politica, che vedere certi personaggi politici (che rispondono quindi del loro operato) nella manifestazione in supporto al movimento Black Lives Matter di oggi mi ispira non poco imbarazzo.
Una generazione pronta ad abbracciare ogni lotta ultramarina per effetto di moda (movimento delle sardine, black lives matter, etc) senza mai dare un po’ di attenzione al “paradigma coloniale” della Sardegna.
Una semplice mimesis formale, che non sfocia mai in una poiesis politica e intersezionale.
Gli stessi che mesi fa toglievano il wifi ai migranti. Gli stessi che hanno fatto interventi urbanistici prevalentemente a discapito delle classi popolari delle periferie di Cagliari. Gli stessi che hanno svenduto la sanità sarda. Gli stessi che non hanno mai osato opporsi all’occupazione militare e alla sue operazioni di green-washing o di innovate-washing (distruggo il tuo territorio ma comunque guarda, tutelo l’ambiente e ti do il fuoco sacro dell’innovazione tecnologica), gli stessi che trovano normale che i sardofoni siano esclusi sistematicamente da ogni forma di progresso sociale (in modo esplicito e implicito), gli stessi che hanno esercitato il potere politico da baroni locali, gli stessi che hanno visto il proprio mandato elettorale in Consiglio Regionale come un trampolino verso una carriera “sul continente”, gli stessi che non osano mai contrapporsi alle segreterie di partito nazionali, gli stessi che hanno ritirato i ricorsi dinnanzi alla Corte Costituzionale pur di non offendere il governo di turno, gli stessi che preferivano andare contro Solinas e dare ragione a Beppe Sala, gli stessi che negano un “paradigma coloniale” in Sardegna e hanno trovato una via di fuga attraverso il nazionalismo italiano e unitario, gli stessi che proteggono la toponomastica coloniale della Sardegna e il lascito dei Savoia.
Vanno bene i diritti LGBTQ+ (però loro non questionano il loro privilegio da italofoni urbani cis e etero davanti ad un sardofono lgbt e rurale, per esempio, che è l’antitesi di tutta la dottrina intersezionalista), i Black Lives Matter, il femminismo e così via. Ma quando tocca alle ferite dei Sard* come popolo attraverso la storia non c’è più nessuno.
Il fatto non sussiste. Non ci sono diseguaglianze. Non c’è colonialismo. Non c’è subalternità. Non esiste una storia profondamente politica e antisarda. Non ci sono incoerenze tipiche di tutte le società coloniali o post-coloniali. Lo sottosviluppo della Sardegna è dovuto all’inferiorità dei sardi. Il divario economico è dovuto alla mancanza di imprenditorialità. È meglio comparare Cagliari a Milano e non invece a Algeri, Fort-De-France (Martinica) etc. […]
I riferimenti alla politica sarda, anche di centrosinistra o addirittura (sedicente) di sinistra, sono chiari. Non si tratta di mera ipocrisia opportunista (che non manca, beninteso), ma anche di una forma di ottusa rimozione della realtà concreta in cui si vive e si agisce. Con tanti saluti a qualsiasi forma, sia pure critica e non dogmatica, di materialismo storico, di filosofia della prassi.
È lo stesso problema del “come se”, del “finzionalismo” che spinge a condannare il razzismo (negli USA) ma a difendere la statua di Indro Montanelli in Italia, o a rimuovere dallo scenario, come impropria, la questione dei monumenti e dell’odonomastica sabauda e risorgimentalista in Sardegna.
In questo quadro, la condanna di un cantante rap per i versi di una sua composizione (ed anche dei suoi fan) cala come un elemento che dovrebbe creare turbamento, allarme, dibattito. Invece cade nel silenzio tombale.
A parte le realtà di movimento schierate da anni sul tema dell’occupazione militare e dell’autodeterminazione, il fatto che un artista sia condannato senza processo per la sua stessa attività artistica, sia pure dai contenuti critici, non sembra interessare a nessuno. Men che mai a coloro che, con ruoli pubblici, si affrettano (si fa per dire) a schierarsi, a favore di telecamera, su battaglie che però non li toccano direttamente né minacciano l’ordine costituito della loro stessa comunità umana.
Non è la prima volta che succede. In questi casi, in Sardegna, sia la politica istituzionale sia l’intellighenzia grosso modo progressiste hanno una capacità di svicolare che farebbe invidia alle migliori anguille delle nostre zone umide.
In tutte le grevi manifestazioni di razzismo anti-sardo, sia che provengano – faccio per dire – dal tifo calcistico di squadre italiane (episodi costanti, ma mai sotto i riflettori delle cronache), sia che provengano da personaggi del mondo dello spettacolo o della politica, sia che provengano da cariche istituzionali, questi nostri eroi del progressismo e della democrazia hanno sempre qualcos’altro di impellente da fare. Mai una volta (salvo rarissime eccezioni) che si sbilancino a dire una parola, a schierarsi criticamente.
A volte, al contrario, se proprio intervengono, lo fanno per sostenere le ragioni del razzismo anti-sardo o per cercare di sminuirne senso e portata.
La condanna con decreto penale di un cantante è un precedente gravissimo su cui non può calare il silenzio dei media e della politica. Certo, ora ci sarà un’opposizione legale e dunque la cosa sarà portata in una più consona sede processuale, dove si potranno far valere diritti e libertà per il momento ancora garantite dall’ordinamento italiano.
Dubito però che assisteremo a una levata di scudi indignata da parte della sinistra coloniale sarda, che, su questo terreno, risulta odiosamente più ipocrita della destra.
Non vi assisteremo, così come non vi abbiamo mai assistito a proposito del vergognoso processo contro l’indipendentismo nato dall'”operazione Arcadia”, il cui esito dopo quasi un quindicennio è ancora di là da venire, o per stigmatizzare la brutta fine in carcere fatta fare a Doddore Meloni, personaggio discutibile quanto si vuole, ma non per questo meritevole di un trattamento disumano.
Mai, su questi fatti, c’è stato un dibattito approfondito, alimentato dai media e condotto sia sul piano politico, sia su quello intellettuale. È come se questi fatti non esistessero o esistessero in una dimensione parallela, fittizia, poco significativa. Invece, a ben guardare, ad essere fittizi sono l’eterno “altrove” o l’indefinito “ovunque” in cui accadono i fatti che sembrano interessare alla politica sarda e ai media isolani.
Il senso comune dei cittadini sardi non è stato costruito in termini di consapevolezza storica, di discernimento delle reali dinamiche sociali e politiche che li riguardano. Viviamo da decenni in una fiction televisiva italiana (non proprio una certificazione di buona qualità). Attendersi dalle persone comuni un senso critico e uno sguardo meno colonizzato è una pretesa assurda. I meccanismi dell’egemonia culturale sono spietati.
Ben vengano le manifestazioni democratiche, contro il razzismo, contro il colonialismo, il maschilismo patriarcale, le diseguaglianze. Ma è necessario calare queste stesse domande politiche e queste manifestazioni anche nel contesto in cui si vive, senza rimuovere la loro problematicità e la loro forza di rottura con un ordine costituito che è tanto globale quanto locale.