Dopo l’epidemia covid-19, la cui conclusione non è ancora certa, sia in termini sanitari sia in termini di gestione emergenziale, i problemi socio-economici della Sardegna si sono ripresentati acuiti e aggravati.
Non c’è da stupirsene, data la condizione di estrema fragilità prodotta da decenni di crisi permanente. I danni provocati dall’epidemia e soprattutto dalla sua gestione politica sono già evidenti, ma probabilmente si tratta solo di un anticipo di qualcosa di peggio.
Ci aspetta un autunno caldo, a cominciare dal contesto internazionale. Il contesto statale italiano non ne uscirà indenne e anzi alcuni segnali indicano una volontà politica piuttosto chiara: mantenere strette le maglie della sorveglianza sociale e ben affilate le armi della repressione.
L’intenzione delle classi dirigenti internazionali, e di quella italiana in particolare, è di far pagare due volte la crisi sanitaria alla classe lavoratrice, ai ceti sociali più deboli, ai territori periferici o sottoposti a forme assortite di rapporti di forza sbilanciati, alle minoranze. Non solo non perdere posizioni di dominio e di vantaggio, ma se possibile incrementarle.
Il problema della covid-19, come emerge da questi mesi di emergenza, non è tanto la gravità della malattia in sé quanto il tipo di risposta da parte delle istituzioni preposte.
Adeguando il sistema sanitario, irrobustendo i presidi di base, riorganizzando procedure e personale, ricalibrando i servizi assistenziali ed emergenziali in modo efficace secondo le esigenze della popolazione e non in base a calcoli di profitto, l’epidemia da coronavirus sarebbe affrontabile senza troppi danni. Tenendo conto che aspirare a un rischio zero è semplicemente irrealistico, dovendo fare i conti, che ci piaccia o no, con la nostra limitatezza e col contesto ambientale, fisico, demografico in cui viviamo.
Naturalmente alla risposta strettamente sanitaria dovrebbe aggiungersi un adeguamento di tutte le altre condizioni di socializzazione, di lavoro, di scambio. A partire dalla scuola.
Tutto ciò ha un costo. Il problema, per le classi dominanti e chi le rappresenta politicamente, è chi dovrebbe accollarselo. In un mondo che da decenni ha sistematicamente privatizzato profitti e guadagni, anche sui beni comuni e sui beni pubblici, e socializzato perdite e guasti, si tratterebbe di ribaltare il paradigma dominante. Cosa che non avverrà. E non avverrà perché chi decide su queste cose rappresenta il conglomerato di interessi e posizioni di potere a cui l’andazzo consolidato nell’era post Età dell’oro (ossia diciamo dal 1973 in poi) sta benissimo.
Questo in generale. Niente che ispiri ottimismo, diciamo. Almeno, se si guarda alle cose non dall’ottica dei “padroni delle ferriere” ma da quella di chi non possiede i mezzi di produzione e non controlla le istituzioni politiche.
La Sardegna in questo scenario è in una posizione di estremo rischio, dati i suoi problemi strutturali. Rischio aggravato dall’inadeguatezza della sua classe politica. Sono questioni affrontate spesso, qui, perciò non mi ci dilungo.
Il problema è come reagire a questa situazione che, stando le cose come stanno, non potrà che peggiorare.
Non è che non ci si stia provando. C’è una forma diffusa di resistenza e direi anche di resilienza (chiedo scusa per la banalità) che non smette mai di operare, sia pure lontano dai riflettori della cronaca quotidiana. E c’è anche una certa mobilitazione sociale e politica semi-spontanea, diversificata, eterogenea e senza leadership riconoscibili che lavora, si barcamena, cerca di reagire.
Ad un certo senso comune, sempre più generalizzato, che ormai accoglie senza troppe resistenze i temi dell’autodeterminazione e dell’indipendenza (in senso ampio e generico), si aggiungono la crescente disillusione della militanza sociale, per lo più di sinistra, più o meno radicale, e persino qualche pezzo del ceto produttivo e commerciale meno legato ai favori della politica. L’idea che dalla crisi permanente non si esca se non cambiando drasticamente modelli, prospettive, riferimenti culturali e politici, si fa strada per virtù propria, in forza dell’evidenza fattuale.
A questo movimento magmatico, ormai in corso da anni, non siamo ancora riusciti a dare una rappresentanza politica efficace. Chiaramente questo dipende da tanti fattori, non tutti ascrivibili ai limiti umani dei soggetti che si sono via via proposti sulla scena. Ci sono fasi storiche che procedono in base a meccanismi più simili alle leggi fisiche e chimiche che alla volontà delle singole persone.
La profonda destrutturazione sociale di questi decenni, l’egemonia culturale votata all’individualismo consumista, il rimbecillimento generalizzato attuato tramite l’indebolimento delle strutture educative pubbliche e tramite mezzi di comunicazione e intrattenimento pervasivi, non potevano non avere conseguenze. Tanto più in una situazione come quella sarda, già deprivata di suo, soggiogata da una lunga stagione di sottrazione culturale, di marginalizzazione e di minorizzazione.
Se si aggiungono l’opera normalizzatrice della classe intellettuale nostrana, almeno di quella perennemente “embedded”, organica all’apparato di dominio, e le pratiche deleterie del clientelismo, del carrierismo, dell’opportunismo e del trasformismo che caratterizzano la politica, non ci vuole una laurea con lode in scienze politiche ad Harvard (semi citaz.) per tirare le somme.
Anche le forze sociali e politiche che si schierano sul versante opposto a quello del consociativismo coloniale dominante hanno risentito di tutto questo. Gli errori e la fatica con cui sono state affrontate le sconfitte e – forse ancora di più – le vittorie (sia pure parziali) hanno lasciato sul campo una sfiducia diffusa e un timore generalizzato.
Il che si è tradotto nell’indebolimento ulteriore delle forme organizzative, anche recenti. Un problema, certo, ma anche un’opportunità.
Forse è giunto il momento di riprendere in mano la questione dell’organizzazione politica, ma in termini meno ossessionati dalla leadership e dal controllo. Bisognerebbe prendere atto delle dinamiche profonde da cui è percorsa la società sarda attuale e tradurle in nuove formule di aggregazione, condivisione, azione politica. Non solo e non in modo preminente riguardo al lato elettorale, ma senza trascurarlo.
Qualche segnale di possibili forme di mobilitazione e organizzazione aperte c’è già stato. Per esempio la manifestazione a Capo Frasca dell’autunno 2019.
Concentrandoci sui temi, sui problemi, sulle lotte e meno su regolamenti, statuti, competizione per l’egemonia interna, formule organizzative astratte, forse è possibile convogliare energie e sforzi personali verso gli obiettivi concreti da perseguire.
In questo senso, mi sento di fare mio un appello lanciato dal sindaco di Villanovaforru, Maurizio Onnis, su Facebook, nei giorni scorsi:
Segnalo al mondo dell’autodeterminazione che abbiamo un bisogno sempre più urgente. Lo si capisce pensando a quanto accaduto negli ultimi giorni e settimane: dalla Saras al PPR, dalla questione del metano alla faccende carcerarie, fino a statue indesiderate e lingua e storia. Replichiamo di volta in volta con invettive, esposti, sit-in, proposte di legge e altro ancora. Ma sempre divisi e isolati, quindi deboli. Se vogliamo mostrare una capacità e una forza politiche decenti, dobbiamo muoverci insieme su uno o più di questi fronti. E dunque dobbiamo trovarci, parlare e decidere di agire e come agire. Nella libertà di ciascun gruppo, associazione, singola persona innamorata della causa, dobbiamo trovare un punto che raccordi le azioni di tutti. Almeno uno. Ci serve per l’immediato, perché questa politica regionale va combattuta qui e ora. E ci serve per il futuro, per costruire rapporti che durino ben oltre lo spazio di un’elezione. Che facciamo? Ci lavoriamo sopra? O accettiamo che la Sardegna rimanga, e noi con essa, mero oggetto della storia?
Un appello rivolto al variegato mondo autodeterminazionista democratico, ma che si può estendere ulteriormente a tutte le forze sociali, culturali e politiche che non si riconoscono o non si riconoscono più nell’orizzonte della dipendenza e della subalternità, né nutrono più alcuna fiducia nella partita truccata dell’elettoralismo coloniale, nel ricatto del “voto utile”, nell’opportunismo carrieristico, nel consenso drogato gestito dai vari capi bastone clientelari.
È un ambito molto esteso e probabilmente molto più forte anche in termini di accoglienza presso l’elettorato di quanto si pensi.
Non so se siamo in tempo a discuterne in vista delle prossime elezioni amministrative autunnali (un’occasione un po’ sprecata, forse), ma credo che sia preferibile sottrarre il confronto necessario alle urgenze dettate dall’imminenza del voto.
Del resto lo scenario che si presenta all’elettorato per le prossime elezioni amministrative è già di suo significativo e bisognerebbe rifletterci su.
Penso a Nuoro, realtà che conosco meglio di altre. La campagna elettorale, già iniziata, vede in competizione un numero spropositato di candidati alla carica di sindaco. Il che si tradurrà in una miriade di liste e in un numero enorme di candidate/i. Certo, ci sono sempre i grandi manovratori che possono muovere le loro pedine in vari schieramenti nello stesso tempo e interessi consolidati che sanno farsi valere a prescindere da chi vinca e chi perda. Ma lo sfaldamento del consolidato sistema di potere nuorese, che traspare da questa proliferazione di ambizioni politiche, è il segno che qualcosa è già cambiato.
Nel contesto di Nuoro manca una proposta politica dichiaratamente indipendentista, o anche di natura civica ma votata ai temi dell’autodeterminazione. È una scelta delle residue forze indipendentiste locali, evidentemente. Non lo so. Ma ciò non significa che tale ambito politico non possa dire la sua, prendere posizione, fare proposte, condizionare i percorsi elettorali altrui.
Mi pare che in questo caso, come in altri, prevalga la paura di “bruciarsi”, manchi la determinazione a cimentarsi, magari secondo formule nuove, in un gioco sì prevalentemente truccato, come quello elettorale sardo (ne ho parlato qui e qui), ma a cui non ci si può sottrarre sempre e per sempre, se si vuole essere parte attiva nelle scelte strategiche che riguardano la Sardegna.
Non esiste oggi in Sardegna, nel fronte autodeterminazionista, democratico, alternativo alle forze coloniali ancora dominanti, una sola formazione capace di organizzare e gestire una campagna elettorale. Così come non ne esiste una che possa farsi carico da sola di tutte le vertenze e le questioni aperte. La collaborazione è necessaria.
L’appello di Maurizio Onnis si può dunque leggere anche come una richiesta urgente di incontro, in modalità aperta, ma con procedure che facciano prevalere la propositività sulla discussione fine a se stessa. Un momento che può essere anche socializzante, edificante sotto più punti di vista, non solo strettamente politico. Vale la pena di pensarci e anche di agire in tal senso.
Sarebbe forse opportuno dare vita a una forma di coordinamento permanente, una sorta di “cuncordu democràticu”, da tenere sempre aperto e, all’occorrenza, mobilitare per scopi specifici, tanto a livello locale, quanto a livello generale.
Senza improvvisazioni, senza dilettantismi, senza settarismi, né aspirazioni astratte o meramente utopistiche. Ma anche senza rinunciare a porsi obiettivi di portata storica.
Paura e calcoli di successo personale vanno lasciati da una parte. Dovremmo aver capito le lezioni del passato. E qualcuna ha da offrirci anche qualche buon esempio a cui appoggiarci, non solo esiti perdenti da cui tenerci a distanza.
Non è che ci sia tanta scelta. Il tempo passa e NON andrà tutto bene, a dispetto degli slogan rassicuranti. Specie se non ci mettiamo del nostro.
Confido che non lasciamo trascorrere quest’estate senza aver messo un po’ di fieno in cascina, senza aver almeno avviato un percorso che conduca verso una più decisa presenza anche (non solo, ma anche) elettorale, a partire dal livello locale, con la prospettiva di cominciare ad erodere il consenso – sempre più fragile, impresentabile e culturalmente subalterno – delle forze politiche ancora dominanti, con lo sguardo sempre aperto sulle vicende internazionali. Fino a produrre – questo deve essere l’obiettivo strategico – il necessario mutamento virtuoso dell’inerzia storica attuale.