Una dichiarazione pubblica di un ammiraglio. Un processo in corso. Il rapporto tra tasso di criminalità e presenza delle forze dell’ordine. Le parole di alcuni rappresentanti dell’apparato repressivo dello Stato.
Sono tutti elementi che vorrei mettere in connessione o quanto meno in consonanza per provare a far emergere la dimensione e la forza di un articolato dispositivo di controllo sociale e politico.
Partiamo dal processo. Tre persone mandate a giudizio per diffamazione, contro la richiesta della stessa Procura, per aver espresso dure ma argomentate critiche all’operato degli apparati di polizia.
Per altro, un operato obiettivamente discutibile di suo, sia sul piano oggettivo (i modi e i termini dell’azione di ordine pubblico) sia circostanziale (il contesto e l’oggetto specifico di tale azione).
Non solo era e resta lecito criticare tali modi e tali circostanze, ma in Sardegna questa presa di posizione critica ha un valore politicamente ancora più forte e più profondo.
Tradurre tutto in mera questione di ordine pubblico e di conseguenza in repressione, arresti e processi, è una costante plurisecolare, nell’isola, almeno dai tempi del viceré Carlo Amadeo San-Martino, marchese di Rivarolo.
Serve tanto come strumento di controllo sociale, quanto come diversivo per evitare di affrontare i problemi alla radice.
Ricordiamo, per fare un esempio pertinente, che negli anni Novanta del XIX secolo la Sardegna fu il territorio dello stato italiano che subì il maggior numero di sequestri e confische di beni per debiti e per fallimenti.
Era un periodo di grande crisi socio-economica, in conseguenza della denuncia dei trattati commerciali con la Francia, importante sbocco per i prodotti agro-alimentari sardi (1887), e di una devastante crisi bancaria e finanziaria (simile a quelle del 1929 e del 2008).
Anche allora lo stato reagì prevalentemente sul piano della militarizzazione e della repressione. Vedi alla voce Caccia grossa (1899).
Questo, nonostante alcuni osservatori (e qui mi limito a richiamare la Relazione al Governo fatta dal deputato ozierese Francesco Pais Serra, nel 1896) tentassero di mettere in chiaro il quadro della situazione e i tratti deteriori della politica in Sardegna.
Da sempre, in epoca contemporanea, il tessuto economico e il quadro sociale dell’isola procedono con andatura sincopata: due passi avanti e uno indietro; o uno avanti e due indietro, a volte.
Non per misteriose cause trascendenti, ma per ragioni storiche abbastanza riconoscibili e grazie alla debolezza congenita della politica podataria e subalterna che governa l’isola (in conto terzi).
Criticare l’uso della forza repressiva in occasione di sequestri di beni e di sfratti non ha dunque solo l’obiettivo di opporsi all’uso improprio e sproporzionato della forza pubblica, ma ha anche il senso di una critica politica e culturale più ampia.
Che i vertici delle forze dell’ordine utilizzino il mezzo giudiziario per rivalersi su tre giovani persone, in termini palesemente ritorsivi (basta vedere le richieste di risarcimento, non è un’illazione malevola), per essere stati criticati e accusati di mala gestione di una operazione a cui erano preposti, è un fatto gravissimo e, questo sì, politicamente e moralmente censurabile.
Gli accusati appartengono per altro alla stessa area di militanza politica – impegno teorico e sociale di sinistra e indipendentista – che ha animato la manifestazione dello scorso 25 gennaio contro la presenza militare in Sardegna.
Non è stata la prima, non sarà l’ultima, dato il peso della militarizzazione dell’isola sulle sorti collettive di chi la abita, sulla sua economia, sulle sue prospettive democratiche.
Solo un paio di giorni prima c’è stata una significativa “visita” in Sardegna da parte di un pezzo grosso delle forze armate italiane, l’ammiraglio Cavo Dragone (i due cognomi, per gli alti gradi militari italiani, sono d’obbligo, e fa sempre un po’ Ancien Régime).
Le dichiarazioni rilasciate dall’ammiraglio nella circostanza sono state riportate dagli organi di stampa.
A nessun giornale è saltato in mente di contestare o cercare di contestualizzare tali parole. Lo hanno fatto le organizzazioni e i militanti che hanno organizzato e animato la manifestazione.
Cosa si evince da ciò che ha detto l’ammiraglio Cavo Dragone?
In realtà niente di nuovo. Semplicemente ha certificato per l’ennesima volta che per i vertici italiani, quelli che controllano le scelte politiche, che incarnano l’apparato “industrial-militare” e stabiliscono le priorità strategiche della classe dominante italiana, la Sardegna resta quel che è sempre stata: una colonia strategicamente rilevante.
Una sorta di non-luogo, privo di una sua propria dignità, di una sua storia, di una popolazione le cui sorti abbiano una qualche rilevanza oggettiva.
Visione avallata dalla politica sarda e dalle stesse istituzioni accademiche dell’isola.
Basti pensare al filo-militarismo costantemente esibito dell’Ateneo cagliaritano.
In proposito, la notizia di oggi è la partecipazione dell’Università di Cagliari a un’operazione di marketing delle forze armate in Sardegna.
“Caserme verdi”, è stata denominata quest’operazione propagandistica a giustificazione dell’ulteriore asservimento bellico dell’isola.
Oggi la rettrice [Maria Del Zompo] ha partecipato all’interno del comando militare dell’esercito, a Cagliari, alla presentazione del progetto “Caserme Verdi”, operazione di Greenwashing che l’esercito porta avanti per guadagnare favore in un momento storico nel quale l’emergenza climatica è in cima all’agenda mediatica. Secondo la brochure dell’evento l’obiettivo sarebbe quello di creare strutture militari a basso impatto ambientale e a risparmio energetico […].
(Da un post FB di “A Foras – contra a s’ocupatzione militare de sa Sardigna”)
Oltre alla Monfenera, caserma-simbolo dell’occupazione militare della città di Cagliari, l’altra installazione militare sarda ad essere compresa nel progetto è il poligono di Capo Teulada. Si dovrebbe costruire, quindi, una caserma “verde” nello stesso poligono dove è presente l’area delta, dichiarata non bonificabile per via dell’elevatissimo inquinamento portato da decenni di esercitazioni.
Capita l’antifona?
Del resto:
“Cagliari è strategica per la posizione che ha, per il fatto che deve lavorare in maniera più autonoma rispetto agli altri, vista la distanza che c’è rispetto al centro e al continente. […]” [Grassetti miei.](Dalle dichiarazioni dell’ammiraglio Cavo Dragone, 23 gennaio 2020)
Cagliari e la Sardegna sono lontane “dal centro e dal continente”. Da quale centro? E da quale continente? Secondo lo sguardo e gli interessi di chi?
Qui c’è il nodo da sciogliere.
La Sardegna riveste un ruolo meramente strumentale, subalterno e accessorio, dentro il quadro degli interessi italiani (e della NATO). Non è qualche attivista antimilitarista o indipendentista a sostenerlo, ma sono gli stessi vertici dello stato a rivendicarlo.
E nessuno che trovi da ridire.
Anche in questo caso la politica istituzionale sarda ha scelto di tacere.
L’assenso a tali parole è tacito ma, forse a maggior ragione, chiarissimo. Va bene così. Fate di noi quel che volete, a patto di lasciarci banchettare a sazietà sulle spoglie di questa terra.
Una terra abitata da una popolazione inferiore per natura, relegata in un angolo buio delle vicende umane, priva di identità, se non quella posticcia, folkloristica, buona per distrarci e per riempirci di orgoglio mal riposto.
Una terra in cui prevalgono “l’istinto predatorio” e “la cultura del coltello”.
Non due espressioni a caso, queste, bensì, com’è noto, due sentenze di altrettanti vertici della magistratura e delle forze dell’ordine.
A conferma della visione sostanzialmente razzista e colonialista che domina negli apparati di governo dello stato italiano.
Due dichiarazioni contestate da molti, ma da nessuno nell’ambito della politica istituzionale.
La colpevolizzazione della vittima è una costante in tutti i meccanismi relazionali di dominio, sopraffazione e/o esclusione.
Vale nei rapporti tra sessi e tra gruppi sociali. Vale tra popolazioni e tra entità politiche.
È un dispositivo di controllo e di minorizzazione dell’altro ben noto negli studi psicologici e sociali, come in quelli post-coloniali.
Così, in Sardegna, il problema non sono le debolezze strutturali dell’economia e della politica, non sono le magagne nelle infrastrutture e nei trasporti, o l’acculturazione forzata e la minorizzazione linguistica e storica, o l’occupazione militare di enormi porzioni di territorio, o l’obsolescenza del comparto industriale e il suo lascito di inquinamento e morte, o le speculazioni predatorie, né lo spopolamento e la disarticolazione sociale.
Il problema sono la mentalità dei sardi stessi, la loro arretratezza, il loro isolamento, le loro incapacità ataviche, la loro criminalità congenita.
Debolezze, incompletezze, incapacità, immoralità connaturate nel fatto stesso di essere sardi, quindi a-storiche, permanenti.
A cui si può giusto rispondere con una maggiore tutela da parte dello stato dominante, secondo la richiesta del riconoscimento del principio di insularità nella costituzione italiana.
Ossia, il riconoscimento ulteriormente certificato di questa inferiorità insuperabile.
Oppure, ma non necessariamente in alternativa, con l’ulteriore aumento del controllo poliziesco sul territorio. Un territorio – ricordiamolo – che presenta uno dei più bassi tassi di criminalità dello stato italiano e d’Europa.
In definitiva, il nesso tra i vari elementi presentati in apertura di questo post non risulta poi tanto misterioso.
O non lo sarebbe, se riuscissimo a “unire i puntini” per farne emergere l’immagine completa.
L’immagine della *Sardegna-così-com’è*, non quella parziale, edulcorata, artefatta a seconda delle necessità, che ci viene ammannita quotidianamente sui mezzi d’informazione e dalla politica istituzionale.
L’immagine della Sardegna-così-com’è non è affatto rassicurante. E non possiamo far finta di non saperlo.