La destra sociale e politica, in Italia, da sempre ha usato una retorica nazionalista per camuffare corposi interessi di classe, di clan, o addirittura personali (nel caso dei diversi outsider che di volta in volta sono comparsi sulla scena).
La sinistra ha da sempre assunto in termini acritici la visuale nazionalista (con punte di vera statolatria), impiegando solo di rado e comunque tatticamente e/o retoricamente la cornice dell’internazionalismo.
Il nazionalismo italiano si nutre dunque di queste due fonti di contenuti e di retoriche, finendo per essere l’unica base consolidata di coesione collettiva, almeno in termini di discorso pubblico.
Il problema dunque non è solo il nazionalismo di destra, che in Italia assume i contorni della reazione elitaria e oligarchica o quelli violenti e cialtroni del fascismo, nelle sue varie declinazioni.
Il problema, prima di tutto, è l’assenza di una critica radicale da sinistra all’unificazione italiana, alla sua realizzazione storica, ai suoi sviluppi, alla sua base ideologica.
La destra tipica è ben rappresentata dall’establishment affaristico-feudale che ha appunto realizzato l’unificazione italiana e poi ha controllato ampie fette del potere reale nel Paese fino ad oggi.
È lo stesso establishment che da sempre domina i mass media, quelli oggi definiti “tradizionali”, soprattutto i grandi giornali.
Alla faccia della pretesa “egemonia culturale di sinistra”, detto per inciso, mai esistita in realtà.
La destra estrema è ben rappresentata oggi dal leghismo, da tempo ormai una sorta di copertura per fascisti di ogni risma. Prima solo in una delle sue correnti (quella di Borghezio, di cui Matteo Salvini è discepolo), quindi in termini prevalenti a discapito di tutte le sue altre anime.
Una destra che, in tutte le sue incarnazioni, è sempre e comunque retoricamente nazionalista e socialmente reazionaria, padronale fino al midollo, eventualmente populista ma mai popolare.
Il fatto che le sinistre in Italia non abbiano mai davvero sfidato questa destra sul piano del nazionalismo è significativo.
Non ne hanno mai messo in discussione gli assunti e i presupposti, ma si sono limitate a declinarlo – retoricamente, appunto – in termini vagamente diversi, magari solidaristici, democratici, ecc. o “costituzionali” (il famoso “patriottismo costituzionale”).
Ciò che si omette dal quadro, a destra e a sinistra, è che la stessa esistenza dello stato italiano unitario si fonda su un disegno contro-rivoluzionario, anti-popolare e oligarchico. Con in più una pesante ipoteca geo-politica: la sua esistenza faceva (fa?) comodo ad altri stati.
Se le sinistra italiane, specie di matrice marxista-leninista (ma non solo), affrontassero la questione dell’unificazione italiana per quella che è stata (ed è), non potrebbero non scorgervi i connotati della “rivoluzione passiva” e del colonialismo.
Gli stessi connotati che sono facilmente riconoscibili nella politica estera italiana di sempre, a patto che li si voglia vedere.
Su questo la reticenza è da sempre fortissima. Anche a sinistra.
Sono pochissimi gli storici che hanno affrontato la questione del colonialismo esterno italiano (in primis Angelo Del Boca) e della formazione dello stato-nazione sulla base del mito nazionalista (Alberto Mario Banti).
Oggi disponiamo di un corpus di studi che non possono più essere ignorati. E tuttavia queste due facce della stessa medaglia – colonialismo e mitologia nazionalista – faticano a essere messe insieme e a diventare a loro volta fonte di ulteriore comprensione.
Non che non sia una strada già tentata.
Dato che ricorre l’anniversario della nascita di Antonio Gramsci (22 gennaio 1891), è inevitabile evocare la sua impietosa analisi storica a proposito della formazione dello stato unitario e della sua anima profondamente colonialista, anche sul lato interno.
Ma ci sono esempi anche attuali, in Italia, ancora minoritari e tuttavia, a mio avviso, in fase di crescita.
Far emergere un discorso onestamente anti-colonialista e anti-nazionalista (considerando l’accezione reazionaria di nazionalismo, sia chiaro) è difficile proprio perché in Italia la sinistra, o una parte molto grande delle sue varie componenti, è stata e in parte è ancora profondamente nazionalista e centralista.
La fatica con cui si è assunto uno sguardo non ostile verso la questione catalana è un esempio chiarissimo degli equivoci che indeboliscono la capacità dell’analisi di sinistra in Italia.
Altra cartina di tornasole è l’ostinazione a legittimare la prospettiva geo-politica, finendo per essere funzionali a quello stesso nemico (la proiezione atlantica e filo-USA dello stato italiano) che si vorrebbe combattere.
Assumere una prospettiva geo-politica significa partecipare al gioco sbagliato, quello che si dovrebbe mandare a gambe all’aria.
Comporta, per esempio, un drammatico auto-inganno circa l’esistenza di presunti “interessi nazionali”, da far valere sullo scacchiere internazionale, e ovviamente presume l’intoccabilità o forse addirittura la necessità dello stato italiano unitario così com’è.
Con questo non voglio negare la rilevanza delle appartenenze storico-culturali, né l’inevitabilità di una certa dialettica tra questione di classe e questioni nazionali/etno-regionaliste.
Vorrei però porre in dubbio la pertinenza teorica e storica di una visuale di sinistra che alla fine, nei fatti, sposando la visuale nazionale solo nel senso di *nazionale italiana*, risulta puramente reazionaria.
È inevitabile che, con queste premesse, nel contesto italiano le aspirazioni autonomiste o indipendentiste siano sempre state combattute o quanto meno espulse dal discorso pubblico.
Per i gruppi egemoni e l’establishment affaristico parassitario qualsiasi discorso di democrazia dal basso, situata storicamente e geograficamente, qualsiasi rivendicazione centrifuga di una sfera autonoma di diritti e di competenze, sono minacce reali.
Tant’è vero che lo stesso leghismo, anche nei suoi momenti più indipendentisti (a proclami), si è sempre collocato dentro i meccanismi del potere costituito, fino al livello del governo centrale.
Non si capisce invece perché le istanze di autodeterminazione democratica e di riconoscimento delle alterità storiche interne siano per la sinistra, specie quella più sincera e non compromessa (dunque non il PD e le sue varie proiezioni nel mondo della cultura, del parastato, ecc.), così difficili da digerire.
Questa è una debolezza intrinseca della sinistra italiana, che nei luoghi periferici (rispetto al baricentro del potere e degli interessi dominanti) si sconta doppiamente anche sul piano sociale e della stessa lotta di classe.
Se ne sconta l’incapacità generale e diffusa a incidere realmente nelle questioni materiali e nelle relazioni sociali così come nell’ambito della produzione culturale e nella creazione di strumenti critici.
Ma se ne sconta anche la lontananza dalla storia dei luoghi e dalle loro reali dinamiche socio-economiche e politiche.
La Sardegna in questo senso è un caso di scuola.
All’egemonia culturale democristiana e coloniale che ha dominato la scena dal secondo dopoguerra non si è mai contrapposta una forte lettura anti-colonialista da parte del PCI e in generale della sinistra di scuola o ispirazione marxista.
Nonostante alcuni sforzi di ragionamento – non molto seguiti, per altro – di uomini come Renzo Laconi e Umberto Cardia o come l’ultimo Girolamo Sotgiu. O le aperture di Democrazia Proletaria negli anni Ottanta del secolo scorso sulla questione sarda.
Il che ha comportato dei vuoti paurosi anche nel campo delle acquisizioni teoriche.
Basti pensare alla mancata o limitatissima acquisizione di Gramsci e soprattutto di Gramsci *in quanto sardo* (elemento invece decisivo per molti studiosi non italiani). O al ritardo con cui si stanno facendo strada solo oggi gli studi post-coloniali.
Il sardismo, dopo i suoi esordi, non ha mai più costituito una contro-voce autorevole o un terreno di elaborazione teorica sufficientemente forte da scalzare tale doppia egemonia nazionalista (italiana).
Questo sia per debolezze teoriche congenite sue, sia per la marginalizzazione delle voci più originali ed emancipative emerse nel suo ambito o nei suoi dintorni.
La compromissione con la spartizione del potere proconsolare, a cui il PSdAz si è puntualmente votato in varie fasi della sua esistenza, ne hanno ulteriormente sancito la natura funzionale al mantenimento dello status quo, finendo per debilitarne ulteriormente la prospettiva ideale.
Inevitabile, in questo quadro, che la prospettiva indipendentista e autodeterminazionista maturasse in contrapposizione alle grandi famiglie politiche dominanti, comprese quelle di sinistra.
Con conseguenze a volte paradossali.
Spesso i più acerrimi nemici di qualsiasi proposta politica indipendentista, anche quando evidentemente di natura democratica, anti-colonialista o persino dichiaratamente marxista, sono state le organizzazioni di sinistra.
Della sinistra italiana in Sardegna.
Avendo mutuato passivamente le premesse e le ossessioni della casa madre, che fosse il PCI o una sua discendenza diretta, o qualche altra formazione minore e collaterale, la sinistra italiana in Sardegna ha sempre rifiutato di farsi carico della questione sarda in termini realmente radicali ed emancipativi.
Per questo sostengo che nei casi come la Sardegna e probabilmente come lo stesso Meridione italiano le debolezze del nazionalismo di sinistra sono state scontate doppiamente.
Col paradosso che la critica del processo di unificazione italiana e dei suoi sviluppi viene lasciata ad ambiti culturali e politici spesso di destra (pensiamo ai neo-borbonici nel Meridione italiano), oppure si tenta la strada di uno strano revisionismo filo-sabaudo (in Sardegna).
È un problema che la sinistra e le forze democratiche e critiche dell’ordoliberismo, della tecnocrazia ma anche dei sovranismi e di tutti i nazionalismi reazionari dovrebbero porsi.
Partendo dalla messa in discussione delle premesse dell’unità italiana, passando per l’unificazione stessa *così com’è stata fatta* e arrivando alla nostra subalternità ad essa come destino ineluttabile e persino desiderabile.
Posso sapere qualcosa in più delle prese di posizione di DP sulla questione sarda?
Certo. Se ne è scritto qualcosa a più riprese, nel corso degli anni, ma sempre en passant, quindi una ricognizione di tutte le fonti non è facilissima. C’è una sola pubblicazione dedicata specificamente all’intera vicenda di DP in Sardegna, che io sappia, ed è questa. Ma non ecludo che ci sia anche dell’altro. In ogni caso, sono ancora in vita e a volte anche politicamente attivi alcuni dei protagonisti di quegli anni.
Grazie 🙂