Tra le varie partite aperte in Sardegna, ultimamente fanno notizia tre questioni.
Una è quella scolastica, con le nuove misure ministeriali che minacciano di devastare ulteriormente un sistema-scuola in Sardegna già estremamente debilitato.
Un’altra è quella del metano. Molte parole spese, tanti proclami, ma di fatto pochissima chiarezza sulla consistenza, gli obiettivi e i tempi di un’operazione dallo sgradevole sentore coloniale.
Una terza è quella dei trasporti, in particolare aerei, ma non solo. E non solo legata alla sorte di AirItaly (mai nome fu più menagramo di questo).
Questioni non nuove, ma che, come accade a cadenza regolare, non venendo mai risolte, ad un certo punto arrivano a uno stadio di particolare emergenza.
La logica dell’emergenza è quella che guida la politica sarda davanti a tutte le partite strategiche. Ed è una scusa per non affrontarle mai sul serio.
Questo è il vero problema strutturale.
Non voglio dilungarmi sulle possibili soluzioni delle varie questioni aperte. Se ne occupa tanta gente, con competenze specifiche, spesso da anni. Forse basterebbe ascoltarla.
Ma è appunto qui che casca l’asino. Chi davvero vuole affrontare queste vertenze in termini risolutivi? La politica sarda ha interesse a risolverle o almeno ad affrontarle con criterio?
Non rispondo direttamente a tali quesiti. Faccio però un esempio pratico di come funziona il dibattito sardo nel merito di una di queste vertenze.
La vertenza AirItaly, con i suoi pesanti risvolti occupazionali e le sue ricadute nell’indotto e nella più ampia questione trasporti, non è frutto della sfortuna.
Il fatto che incida così pesantemente su tanti ambiti rilevanti in Sardegna è l’esito della mancanza non casuale di una politica dei trasporti e di una visuale progettuale adeguata.
Come ne discute la politica sarda, oggi?
In questi termini. Linko la cronaca fatta da SardiniaPost, ma i resoconti di altre testate non differiscono sostanzialmente. Le dichiarazioni e le prese di posizione dei vari esponenti politici quelle sono.
Cosa se ne evince?
Be’, intanto che tutti i politici di Palazzo, in Sardegna, sembrano arrivati lì due giorni fa, senza avere mai avuto prima alcun ruolo, né personale né come partiti e gruppi di potere, nel governo dell’isola.
Lo stesso problema di cui parlano sembra una sgradevole novità, spuntata fuori in queste settimane, senza che nessuno ci abbia mai potuto fare nulla prima. Caso mai si tratta di addossare la responsabilità al concorrente politico del momento, facendo finta di essere in grado di fare meglio.
Ovviamente è tutta una recita, una finzione.
Nessuno dei partecipanti al dibattito ha un’idea anche solo approssimativa del problema, ma soprattutto non ha interesse ad averla.
Tutta l’attenzione è concentrata nel ritagliarsi uno spazio o un ruolo in termini tatticamente utili, dentro il gioco del potere italiano.
Il problema reale è solo un pretesto o un’occasione per disimpegnarsi nella propria parte in commedia.
Chi decide davvero in ogni caso non è la politica sarda. Non è questa congrega di cooptati, avventurieri, signori delle clientele, paraculi professionali che deve davvero fare scelte, orientare processi, stabilire priorità, trovare soluzioni concrete.
Nessuno di loro è lì per quello.
La questione trasporti è ormai arrivata a un tale punto di degrado, che sta diventando grottesca. Sia nell’ambito del trasporto aereo, sia in quello del trasporto navale.
Sfottere le varie proposte in campo, compresa quella – visionaria, ma non assurda – di una compagnia di bandiera sarda a capitale pubblico, serve a distogliere l’attenzione e a darsi un tono di superiorità, non certo a contribuire alla soluzione.
Basterebbe affrontare la questione con competenza e raziocinio, porsi il problema di analizzarne i tratti decisivi e di trovare una soluzione praticabile, e tutt’a un tratto assumerebbe i contorni di un problema certamente complesso, ma se non altro affrontabile.
Così come è successo in molti altri luoghi, con problemi analoghi a quelli sardi.
Lo spiega bene il professor Devoto in questa video intervista. (Il prof. Devoto insegna a Cagliari, non in Australia; credo sarebbe disponibile a fare due chiacchiere con la giunta regionale, se glielo chiedessero.)
Questo è appunto solo un esempio, tra i tanti.
Ci dimostra come alla politica sarda appunto non interessi affatto risolvere alcunché.
Lo conferma la partita della metanizzazione, giusto per fare un altro esempio.
In questo caso basta confrontare la cialtronaggine e il pressapochismo con cui viene affrontata dalla politica coloniale a Cagliari e l’approccio pragmatico non di una combriccola di rivoluzionari ma della moderatissima associazione degli amministratori pubblici indipendentisti, Corona de Logu.
Corona de Logu pone in proposito alcune domande di buon senso:
Quale sarà il costo definitivo del metano per i consumatori sardi?
È conveniente per i sardi investire 1,6 miliardi di euro nella realizzazione della dorsale per raggiungere solamente 73 Comuni su 377?
In quale anno sarà completata l’infrastruttura?
Il metano renderà l’Isola energeticamente autosufficiente?
Quali sono i rischi per l’ambiente?
In un luogo normale sono le prime domande che si sarebbe dovuta porre la politica sarda, anche una politica non particolarmente coraggiosa, ma banalmente orientata a rispondere ai cittadini e non a interessi e poteri altri.
Invece no. Non se l’è poste la giunta Solinas, così come non se l’era poste la giunta Pigliaru. Non per caso, né per un destino sfortunato.
La condizione deficitaria della Sardegna non è affatto casuale, speciale, straordinaria, e nemmeno inevitabile.
Non discende da fattori restrittivi insuperabili e permanenti, come invece pretende la politica istituzionale (compresa quella che, pur di non fare nulla, sostiene la panzana dell'”insularità in costituzione”).
Non discende nemmeno da presunte tare congenite della “razza sarda”.
Se la Sardegna è il regno del “non si può fare” è perché è dominata dalla volontà precisa di non fare nulla.
La classe politica sarda è selezionata precisamente per risultare inerte e impotente. È la sua ragion d’essere ed è la condizione perché i suoi esponenti meno imbarazzanti possano fare carriera dove conta davvero, ossia a Roma.
Unico comandamento: non mettere in discussione la subalternità – anche geopolitica – dell’isola, assecondare gli interessi dei gruppi di potere e delle influenti consorterie affaristiche che dominano la scena e a cui affidare la propria carriera.
Sono questi i punti di riferimento della politica coloniale sarda, non certo gli interessi collettivi, i problemi strategici, le prospettive di progresso sociale e civile dell’isola.
Credere che sia fondamentale, in uno scenario subalterno come questo, partecipare al gioco elettorale alle condizioni imposte dall’apparato di dominio, è illusorio e direi anche colpevole.
Non potrà mai cambiare nulla se non si cambia l’offerta politica. Non solo e non tanto nel personale coinvolto, ma prima di tutto nell’orizzonte di riferimento, nella qualità delle proposte e nei metodi di coinvolgimento/partecipazione/decisione.
È ormai ovvio che non serve a nulla farsi cooptare dentro i meccanismi di dominio imperanti confidando di poterli aggirare o aggiustare dall’interno.
Questa ormai sembra più una posizione di comodo, buona per giustificare ambizioni personali dentro quel meccanismo di potere, che una ingenua convinzione in buona fede.
Come vediamo, nessun interlocutore istituzionale, dentro la messinscena all’italiana della politica coloniale sarda, è in grado di fare qualcosa di buono. Il giochetto della finta dialettica centrodestra vs. centrosinistra da tempo mostra la sua natura fittizia.
L’avremmo dovuto capire fin dai tempi della alternanza tra la giunta Palomba e la successiva giunta Pili-Floris-Masala, due esperienze di governo devastanti.
O almeno dopo il primo biennio della giunta Soru, partita come una vera esperienza di rottura e di rinnovamento e presto sedata, normalizzata, ricondotta alle logiche coloniali di sempre.
Le due ulteriori legislature – anche qui con alternanza di due maggioranze diverse: giunta Cappellacci e giunta Pigliaru – avrebbero dovuto vaccinarci definitivamente contro la malattia politica della subalternità, invece niente.
Per carità, è vero che raramente si è intravista una alternativa soddisfacente. Probabilmente sono in parte reali anche i limiti dell’indipendentismo così come segnalati da Alessandro Mongili in questo pezzo recente (che per il resto sottoscrivo in toto).
Ma va anche detto che non sono mancate negli ultimi quindici anni idee, prospettive, proposte e persino candidature ponderate e assemblate con criterio (non esclusa l’esperienza di Sardegna Possibile del 2014; lo dico con convinzione, anche se suona inelegante, data la mia partecipazione in quella circostanza).
Forse si trattava di accumulare esperienze, di allargare una base di partecipazione e di consapevolezza che ancora mancava.
Forse sono tempi fisiologici, tanto più lunghi e ondivaghi quanto più la realtà a cui appartengono è complicata.
Certo è che – come ampiamente previsto – stiamo precipitando di anno in anno in una condizione sempre peggiore con strumenti sempre più deboli a disposizione. In balia degli eventi.
La rottura storica di indole democratica di cui la Sardegna avrebbe bisogno diventa sempre meno rinviabile.
È indispensabile che ne prendano coscienza le rappresentanze sociali, i gruppi dirigenti locali, le poche realtà produttive e non parassitarie esistenti e l’ambito intellettuale.
Il movimento indipendentista e autodeterminazionista, oggi così debole dal punto di vista organizzativo, può cogliere tale debolezza apparente come l’occasione per liberarsi dei suoi limiti più evidenti (settarismo, autoreferenzialità, presunzione, leaderismo carismatico, personalismi) ed entrare finalmente in consonanza propositiva con la realtà sociale sarda.
Va creato un ampio fronte autonomo, profondamente e non solo retoricamente democratico, distante dai meccanismi della politica italiana, dalle sue retoriche, dalle sue rappresentazioni, dai suoi particolarismi.
Gli errori del passato possono essere utili lezioni, se troveranno allievi disponibili a imparare.
Estrarre la Sardegna dall’orizzonte subalterno e coloniale, restituirle una soggettività politica decente, già dentro le relazioni giuridico-istituzionali vigenti, anche a livello internazionale, non è solo necessario: è urgente.