Centralismi anti-popolari, insularità e altre amenità

Oggi in Spagna è la giornata dell’orgoglio nazionale. Non è un caso che coincida con la data dell’arrivo di Cristóbal Colón a Guanahani.

Il Cristoforo Colombo italiano in Spagna è spagnolo. Secondo alcuni, più precisamente catalano. Si dice anche di una possibile origine ebraica (cosa ben vista, notoriamente, nella Spagna della Reconquista).

Oggi verrà celebrato in modo particolarmente vivo, in termini nazionalisti, proprio contro le velleità indipendentiste catalane.

Paradossale, no? Sono le contraddizioni della storia, come al solito.

Non sono gli unici paradossi di questo movimentato periodo.

Oggi leggo un articolo di Bernard Guetta a proposito della “misteriosa” conversione europeista di Marine Le Pen.

Posso dichiarare solennemente che non c’è alcun mistero. E, dato che scripta manent, posso anche richiamare a mio sostegno qualcosa che ho scritto alcune settimane fa, a proposito della falsa opposizione tra sovranismi xenofobi e tecnocrazia europea.

Vengono a galla le magagne di un’architettura politica europea che, dopo la caduta del Muro di Berlino, si è trasformata rapidamente (quasi fosse già in programma) in un portentoso processo reazionario.

Dato che l’architettura scricchiola, è normale che emergano i veri rapporti di forza e le reali contrapposizioni politiche.

Ai commentatori di sinistra, ostili all’autodeterminazione catalana (e all’autodeterminazione in generale), chiederei come secondo loro si collochi il Front National su questa faccenda. Così, giusto per avere un termine di riferimento.

Non per altro, a volte la sostanza di un fenomeno politico si capisce meglio guardando a come si dispongono – tra pro e contro – i vari soggetti in campo.

È notevole che il Procés catalano in Italia e in Europa sia stato largamente ignorato per anni, e fino a pochi giorni fa, sia dai mass media mainstream sia dall’intellettualità organica all’organizzazione del sapere (e del potere) dominante.

Oggi sono tutti esperti catalanisti, sciorinano dottrina e giurisprudenza costituzionale spagnola, alzano il ditino per ammonirti sul grave pericolo che corre l’Europa.

È ovvio che non ne sanno niente. E non gliene importa un fico secco. Si tratta solo di bassa propaganda, di pura manipolazione.

Che agisce costantemente e a tutti i livelli, con un andamento accelerato, ora che i nervi scoperti dell’Europa si mostrano in tutta la loro fragilità.

In Sardegna, dove non manca la faccia di bronzo, l’espediente dell’anno è la baggianata dell’insularità.

Quei bei tomi dei Riformatori (partitucolo isolano legato ad ambienti notabilari e alla destra padronale italiana) ne hanno tirato fuori una bella arma di distrazione di massa.

Vogliono che lo Stato italiano inserisca nella propria costituzione nientepopodimeno che il riconoscimento dell’insularità della Sardegna.

Su questo sono pronti a chiamare il popolo alla pugna, con un bel referendum pure loro. Proprio come i Catalani! Uguale uguale.

Naturalmente, è arrivato subito il consenso di PD, Forza Italia e vassalli vari. Compreso qualche intellettuale organico in servizio permanente effettivo.

La stessa cricca che, a livello statale, sta cucinando la nuova legge elettorale trappola, ovviamente antidemocratica e sostanzialmente anticostituzionale.

Da notare, per inciso, che questi qui sono gli stessi che gridano all’illegalità del  referendum catalano del primo ottobre.

Ora, sulla drammatica scoperta che la Sardegna è un’isola ho avuto modo di scrivere qualcosa in passato. E confermo tutto.

In questo frangente mi sembra importante sottolineare la natura di diversivo di questa trovata.

Che in Sardegna l’aspirazione all’autodeterminazione sia forte ormai è attestato. Che stia crescendo è più una sensazione diffusa che un timore infondato.

È lo stesso timore che conduce a stigmatizzare con avventurosi paralogismi il Procés catalano.

Le solite argomentazioni ridicole: le piccole patrie, l’isolazionismo, l’egoismo (sia dei ricchi sia dei poveri, ovviamente), la chiusura mentale (infatti i Catalani sono famosi per la loro chiusura mentale), e via farneticando.

Naturalmente, essendo stupidate ma sostenute da chi detiene il controllo dei mass media e dell’organizzazione del sapere, sono stupidate di successo.

Non so quantificarlo, a dire il vero, e nemmeno valutarne la portata. Hanno un peso, sia chiaro. Anche perché si inseriscono nel diffuso processo di depoliticizzazione della cittadinanza europea.

A votare ci va sempre meno gente e alla politica partecipano solo selezionati arrivisti, spesso ignoranti e malintenzionati, ma smaliziati a sufficienza per barcamenarsi nel mondo dei comitati d’affari che dominano la scena.

Quando viene fuori che non tutti sono così distanti dalla politica e che c’è ancora gente che si mobilita democraticamente per qualche obiettivo collettivo, il panico si diffonde nell’establishment del Vecchio continente.

E si corre ai ripari.

In Catalogna si minacciano (e si realizzano) repressioni violente della democrazia reale. In Sardegna basta (basta?) inventarsi un diversivo efficace o schifare le persone a tal punto da convincerle a non occuparsi della politica, mentre la politica si occupa di loro.

I fascisti intanto imperversano un po’ ovunque, ormai indisturbati e largamente legittimati dalle istituzioni locali e dai partiti maggiori, PD in testa (che al solito pensano di servirsene impunemente).

Ma purtroppo non è un fenomeno solo italiano.

Così siamo messi.

E volete ancora venirmi a dire che la minaccia per l’Europa è la Catalogna?

La minaccia per l’Europa sono gli stati-nazione ottocenteschi. Quelli, per capirci, che si sono resi responsabili del colonialismo, del fascismo, delle guerre mondiali.

Uno strumento in mano alle classi dominanti. Lo “stato borghese” si diceva un tempo. Ecco, quel marchingegno lì.

Chiunque lo metta in discussione da un punto di partenza democratico e socialmente emancipativo non fa altro che cercare un’alternativa più giusta, più sana, più vitale a questo schifo.

E per i “padroni delle ferriere” è un nemico. Un nemico di classe, potremmo dire serenamente.

Le etichette di comodo si staccano facilmente, se si osservano i fenomeni in corso con l’ottica storica materialista (non dogmatica, sia chiaro), secondo il loro andamento concreto, secondo le forze reali che li animano, secondo gli obiettivi veri (non quelli dichiarati) dei vari soggetti in gioco.

Chi difende gli stati-nazione così come sono (che siano i nazionalismi xenofobi o gli establishment “nazionali” ed europei è lo stesso) sta dalla parte della reazione e della cleptocrazia arrogante e rapace che ci sta ammazzando.

Così stanno le cose. A noi la scelta.

1 Comment

  1. Ciao Omar, in una discussione ho letto l’opinione di un amico secondo cui una semplice maggioranza (50%+1) può decidere il colore della facciata del condominio, non la secessione da uno Stato (facile trovarla un’esagerazione, ma se ne capisce il senso).
    È vero che in Scozia, con stile assolutamente “british”, il referendum per la secessione si è tenuto pacificamente senza mettere in discussione la regola della normale maggioranza; il punto, però, sta nel chiedersi quanto invece (e forse soltanto) accettare di metterla in discussione possa portare ad aprire vie costituzionali a consultazioni simili in Paesi che a oggi sono ben lontani dal contemplarle.
    Guardando a quello che già ci sta illustrando il caso Catalogna (guardando, intendo, all’incertezza generata da una procedura per qualcuno giustificata e radicalmente democratica, per qualcun altro comunque e a prescindere assolutamente incostituzionale) mi sono spinto a immaginare questa cosa (non so quanto originale); prova a considerarla come una proposta di legge di iniziativa popolare, buona per qualsiasi Paese (se ha un senso: comunitaria).
    Si tratta di inserire in Costituzione (e qui siamo già al primo ostacolo, perché non credo che le proposte di legge di iniziativa popolare possano in genere riguardare le Costituzioni; ma andiamo oltre) …
    si tratterebbe di inserire in Costituzione, dicevo, una via praticabile per la secessione democratica dallo Stato, a evitare appunto che in mancanza di vie costituzionali non resti, nel caso, che la prospettiva dei controversi strappi al diritto e magari della guerra civile.
    Potrà rendersi indipendente, allora, quella Regione o Provincia Autonoma (andrebbe da sé che varrebbe anche per più Regioni/Provincie Autonome insieme; e il procedimento potrebbe valere anche per quelle entità locali, Provincie o Comuni, che volessero cambiare Regione o Provincia, e per le Province che volessero eleggersi a Provincie Autonome) dove il relativo referendum ottenga (poniamo, come maggioranza particolarmente qualificata) oltre il 65% dei favorevoli (magari calcolati sulla base della più alta affluenza al voto negli scrutini degli ultimi 10 anni; la soglia potrebbe immaginarsi per esempio al 60% per la secessione da una Regione e al 55% per quella da una Provincia, a marcare le differenti garanzie).
    E tale volontà potrebbe ulteriormente essere ratificata da un referendum tra gli altri aventi causa (esteso cioè a tutti gli altri territori dello Stato, o dell’ente dal quale ci si voglia separare) nel quale i contrari alla secessione non fossero oltre il 65% (poniamo, come sopra; nel caso di una Provincia o di un Comune che voglia passare ad altra Regione o Provincia, poi, nel territorio dell’ente ricevente un finale referendum di “accettazione” potrebbe invece prevedere una maggioranza semplice; a guardar bene in questa fattispecie di accettazione da parte del territorio ricevente potrebbe entrare anche il caso di un territorio che chieda di passare a un altro Stato, vedi Alto Adige).
    In questo modo lo Stato sarebbe investito del mandato popolare a opporsi alla secessione di un suo territorio solo qualora si esprimesse in tal senso una maggioranza altrettanto qualificata di quella che in quel territorio si sarebbe espressa per la secessione (con l’evidente rispetto dei diritti delle minoranze, da una parte e dall’altra, a non farsi trascinare in “stravolgimenti civili”). Il rischio di guerra civile non sarebbe mai del tutto scongiurato, ovviamente, ma si avrebbe un realistico e penso accettabile percorso quanto a possibili secessioni democratiche e pacifiche, superando il dogma direi antistorico della indivisibilità degli Stati (se non nel sangue). Potrebbe aggiungersi che per evitare sarabande continue tali referendum possano essere proposti (dietro cospicue raccolte di firme o dietro iniziativa delle più alte istituzioni dei territori in questione) non prima di 7 anni (?) da analogo precedente.
    Che te ne sembra? Cosa ritieni possano pensarne gli indipendentisti sardi e quelli Catalani? Non si tratta, forse, di un “passaggio” (per gli unionisti magari pericolosamente incoraggiante e facile, per gli indipendentisti troppo castrante e proibitivo) che la certezza del diritto potrebbe far ritenere per tutti sostenibile/desiderabile?
    Una soglia di garanzia (magari diversa da quella qui immaginata) per tacitare il diritto, altrimenti rivendicabile come acquisito e indisponibile, di chi voglia rimanere entro la cornice istituzionale di partenza … non sembra ammissibile? Non sarebbe in definitiva a garanzia della legittima forza del “processo” che vi pervenga?
    Si deve considerare, poi, quanto sarebbe già forte un risultato che si limiti a superare il 50% per la secessione, che anche senza cambiare ancora “di diritto” (in questa cornice) l’assetto istituzionale imporrebbe saggiamente, negli anni successivi, dialogo e contrattazioni (su autonomie e assetto federale).
    Potrebbe dirsi una lezione generale, per intanto, da queste vicende catalane?
    E, per quanto sembri ora iperuranico, una forte pressione civile e istituzionale (da parte anzitutto di noi europei) che sostenga una simile prospettiva di accordo tra Spagna e Catalogna non è in fondo quanto di più realistico e proficuo sarebbe perseguibile per detendere la loro crisi?
    L’Unione Europea, inoltre (sogno 31esimo, fatto 30), potrebbe riconoscere che nuovi Stati emersi con tali processi costituzionali da Paesi membri trovino una corsia accelerata per “rimanere” (più che per ri-“entrare”) nella UE (ammesso che lo richiedano), senza vincoli di veti.
    Le norme costituzionali regolanti questo processo (e qui mi fermerò con i dettagli fuori luogo) farebbero infine bene a statuire già un principio come il seguente: la regione secessa assumerà a proprio carico la quota di debiti del bilancio dello Stato equivalente alla quota del proprio PIL (patti chiari …).

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