Il problema dell’informazione, in Sardegna, è strutturale e non dà segni di miglioramento.
D’altra parte, essendo i mass media sardi una versione provinciale di quelli italiani, non possono che patirne gli stessi mali, accentuati per di più dalla condizione periferica e subalterna.
Che l’informazione italiana non stia benissimo non è un’opinione soggettiva, né una lamentela capziosa.
Le misurazioni e le valutazioni a livello internazionale da molti anni segnalano l’Italia tra i paesi europei (e non solo) peggio posizionati quanto a libertà di stampa.
Le ragioni sono tante. Una è la concentrazione delle proprietà editoriali in poche mani, con interessi consolidati in molti settori economici strategici e con legami spesso opachi o comunque di complicità nell’ambito politico.
Ben lungi dall’essere un quarto potere, controparte degli altri, l’informazione in Italia è sostanzialmente un dispositivo egemonico in mano all’oligarchia nazionale.
Storicamente inoltre l’Italia non ha mai avuto una vera classe dirigente nazionale, ma solo una eterogenea classe dominante, poco coesa se non nella spartizione delle risorse e del potere.
La nascita stessa dello stato unitario, secondo le modalità tipiche delle rivoluzioni passive (come insegnava Gramsci), ha lasciato in eredità questo elemento strutturale.
Di cui il fascismo è stata una coerente manifestazione.
Il sistema dell’informazione rispecchia dunque gli interessi e gli obiettivi di una grande borghesia prevalentemente parassitaria, gretta, ignorante e provinciale.
Così possiamo leggere ponderosi editoriali sui maggiori organi di informazione italiani ed essere, già prima di leggerli, approssimativamente certi sia del loro contenuto, sia del loro orientamento politico, sia degli interessi che difendono.
Faccio un esempio a caso, un editoriale recentissimo di Angelo Panebianco, autorevole voce della borghesia conservatrice italiana.
Da cui si evince come la preoccupazione massima della classe dominante italica sia di non perdere il controllo del potere politico.
Obiettivo per raggiungere il quale si propaganda una soluzione antipopolare e chiaramente studiata per depotenziare eventuali mutamenti politici come un’opzione neutra, solo tecnicamente più efficiente della sua alternativa.
Oppure possiamo valutare la copertura giornalistica delle varie crisi oggi in atto, dal Sud America, alla Cina, passando per l’Europa.
In sintesi la situazione può essere descritta così: omissioni sistematiche, cronache capziose, falsificazioni invereconde, propaganda dissimulata da informazione.
Caso esemplare, la questione catalana. C’è l’imbarazzo della scelta (oltre all’imbarazzo per la dose massiccia di disinformazione e di cialtronaggine).
Faccio due esempi per tutti: un pezzo sul sito di RAI News e un altro – quasi di costume, più che di analisi politica – sul Venerdì di Repubblica. No comment.
Ma potremmo anche aprire una digressione gustosa sulle notizie relative alla Sardegna, di cui esiste una casistica che va dall’apertamente razzista al disinvoltamente ignorante.
Non l’apriamo, perché sarebbe davvero troppo lunga.
Se alla mediocrità e inattendibilità della stampa italiana rispondesse un’informazione sarda professionalmente robusta, indipendente, plurale, deontologicamente irreprensibile, il danno, almeno per l’isola, sarebbe ridimensionato.
Invece, come detto, le cose vanno in tutt’altro modo.
La Sardegna, nonostante qualche tentativo, non ha mai maturato un suo apparato di mezzi di informazione autonomo e scevro da condizionamenti esterni e/o brutalmente padronali. Tutt’altro.
Nonostante la precocità della diffusione della stampa, sia di informazione, sia di costume e intrattenimento, fin da metà Ottocento, in Sardegna tradizionalmente la stampa è stata un dispositivo egemonico in mano a gruppi di potere e consorterie private, con ampi e ramificati legami politici.
Ancora oggi la sua funzione, prima che quella di informare, è di creare e controllare un’opinione pubblica addomesticata.
Con punte di (auto)colonialismo culturale degne di approfonditi studi accademici (se gli studi accademici, in Sardegna, si occupassero di cose del genere).
Anche qui la casistica è a dir poco sterminata.
Basterebbe pensare alla vagonata di retorica militarista che occupa le pagine e i servizi di giornali e televisioni mainstream in ogni stagione.
Nelle ricorrenze “sensibili”, come quella di ieri, 4 novembre (festa dell’unità italiana e delle forze armate!), il fenomeno diventa oltraggioso.
Ma, più in generale, è proprio lo sguardo con cui si osservano i fatti sardi, sono le linee editoriali e politiche perseguite, che danno l’idea precisa degli orientamenti di fondo e degli interessi difesi.
Anche in questo caso faccio un solo esempio, anche qui recentissimo. Un editoriale del direttore della Nuova.
Disamina apparentemente seria e preoccupata, che invece tradisce da un lato una scarsa conoscenza della situazione socio-economica dell’isola e da un’altra la rimozione, non si sa se intenzionale o meno, delle cause storiche e strutturali delle magagne denunciate.
In compenso enfatizza la battaglia per l’insularità in Costituzione – feticcio diversivo davvero geniale – assumendola apoditticamente come sacrosanta e indispensabile.
Salvo però domandarsi – e qui l’ingenuità è quasi troppo grande per essere vera – come mai tutto questo consenso bipartisan non si concretizzi in qualche risultato reale.
Imbarazzante.
Ed è il direttore di uno dei due maggiori (o, per meglio dire, unici) quotidiani sardi.
Sia chiaro, non è lecito dedurre da queste considerazioni che la qualità professionale dei giornalisti nostrani sia diffusamente scarsa.
Certo, nella mischia c’è un po’ di tutto, compreso un certo numero di precari sottopagati e una percentuale quasi fisiologica di raccomandati.
Però è anche vero, e va riconosciuto, che in Sardegna esistono diversi buoni cronisti e alcuni professionisti eccellenti. Non solo nei due quotidiani, ma anche nelle redazioni di testate online.
Il che, però, ha un peso relativo, dato che poi a incidere sulla selezione, sulla confezione e sul posizionamento delle notizie sono le linee editoriali e i filtri imposti dalle proprietà (e dai centri di interesse a cui queste sono legate).
Inoltre ha anche un peso il tipo di formazione ricevuto dalla componente più professionalizzata, dal livello più alto delle gerarchie redazionali nelle varie testate; la loro appartenenza ideologica, potremmo dire.
Spesso in tale ambiente prevale una concezione della Sardegna a sua volta subalterna e self-colonized, comunque organica alla prospettiva della dipendenza necessaria, alla soggezione verso condizioni di fatto assunte come “naturali”, inevitabili, immutabili.
In questo, il mondo del giornalismo sardo, fatte le debite eccezioni, non si differenzia di molto dall’ambiente culturale istituzionale e accademico (o dalla tendenza prevalente in tali ambiti).
Difficile dunque ascrivere il fenomeno della mediocrità dell’informazione in Sardegna alla mala fede o alla banale incapacità dei singoli cronisti.
Non è nemmeno un problema di mezzi a disposizione, tutto sommato, anche se la debolezze strutturali del mondo dell’informazione contemporanea hanno un peso notevole.
In questo senso, anziché usare i finanziamenti pubblici che la Regione eroga annualmente come strumento di ricatto e di pressione, bisognerebbe trovare dei meccanismi trasparenti e obiettivi per sovvenzionare un settore che è democraticamente strategico.
Bisognerebbe favorire anzi l’indipendenza dell’informazione dai grandi centri di interesse economico, oltre che dai favori del Palazzo.
Stando le cose come stanno, questo per ora è un mero auspicio, purtroppo alquanto astratto.
Per chiudere il cerchio è necessario infine soffermarsi un momento sul mutamento dei paradigmi nel sistema dell’informazione.
O meglio, nella nebulosa mediatica in cui siamo immersi.
L’avvento di internet e poi dei social media ha progressivamente sottratto peso e credibilità alla stampa che oggi definiamo tradizionale e, fino a poco fa, mainstream.
Questo fenomeno è in atto anche in Sardegna.
Le informazioni, le notizie e i commenti viaggiano su molti dispositivi e attraverso diverse reti relazionali, non solo virtuali, su cui è molto più difficile avere un controllo totale.
Ci sono i pro e i contro, in questo fenomeno, del resto ampiamente studiato e dibattuto.
In Sardegna, come in tutte le realtà che subiscono una condizione di sottomissione più o meno accentuata da parte di un’egemonia culturale potente, questi mutamenti aprono oggi spiragli di libertà e di contro-informazione molto più ampi ed efficaci che in passato.
È un fatto abbastanza evidente (ma andrebbe indagato per benino) la difficoltà a imporre una sola visuale e una sola cornice alle varie questioni aperte, anche a quelle più spinose.
Così come è sempre più difficile escluderle del tutto dal novero delle informazioni circolanti.
Il meccanismo egemonico è indebolito, nonostante la televisione abbia ancora un ruolo dominante, data l’età media avanzata della popolazione sarda.
Non c’è tematica problematica che non riesca a farsi largo anche contro la cappa di rimozione e disinformazione spesso frapposta dai grandi centri di interesse in gioco.
È un fenomeno in corso, difficile da valutare, ma è innegabile.
Chiaramente, le direzione e gli obiettivi di una contro-informazione non dipendono direttamente dal fatto che essa contrasti la narrazione ufficiale.
Le mistificazioni, le false notizie, il battage complottista, l’individuazione di capri espiatori di comodo sono da tempo strumento delle politiche conservatrici o reazionarie, espedienti che tendono alla fin fine a irrobustire lo status quo.
Ma in Sardegna non è questo il profilo che prevale nella contro-informazione e sui social. O comunque non il solo.
Certo, va irrobustita la qualità della contro-informazione.
Va coltivata ogni forma possibile di educazione alla critica delle fonti e la consapevolezza sul funzionamento dei mezzi di comunicazione.
E questo va fatto senza aspettare che lo faccia qualche istituzione o la scuola (alle prese, di suo, con un’infinità di problemi).
Ma non bisogna rinunciare alla battaglia civica e politica per avere un’informazione dignitosa, professionale (quindi anche adeguatamente retribuita), libera e onesta.
Sono sicuro che nello stesso ambito dell’informazione sarda in molti sono pienamente coscienti del problema.
È una partita fondamentale, nel percorso di democratizzazione e di emancipazione collettiva della Sardegna.
Va seguita con tutta l’attenzione e con tutto lo spirito critico che merita. Anche in termini propositivi e fattivi.