Nazionalismo, anti-nazionalismo e altri diversivi a favore dello status quo

Le vicende catalane catalizzano attenzioni e smuovono riflessioni, com’è giusto che sia. Non sempre, però, vedo in azione tutta la disponibilità e l’onestà intellettuale che questa faccenda meriterebbe.

Uno degli argomenti più usati per sminuire la portata del Procés e le sue implicazioni politiche è quello anti-nazionalista.

Non è una novità. In Italia e presso l’intellettualità sarda “ufficiale”, tendenzialmente (e molto vagamente) di sinistra, è sempre molto in voga.

Pare che il problema sia il rischio dei nazionalismi, da scongiurare ad ogni costo. I nazionalismi sono tutti uguali, secondo questo ragionamento. Che si tratti di quelli xenofobi, reazionari e violenti dei vari Front National, Lega, ecc. o di quelli democratici, progressisti e in molti casi radicalmente di sinistra come in Catalogna, Paesi Baschi, Corsica, Scozia, Sardegna, ecc.

Chiaramente già qui c’è un errore di impostazione evidente.

In più, meno evidenti ma fondamentali, ci sono pesanti omissioni a indebolire tale ragionamento.

Si omette di solito di tirare in ballo l’avanzata dei fascismi. Quelli dichiarati e ben poco camuffati. Si lancia l’allarme sui “populismi”, ma si alza una sorta di cortina fumogena a protezione delle punte più radicali e radicalmente inaccettabili dello spostamento a destra dell’asse politico europeo.

Si omette anche e soprattutto di considerare il nazionalismo che ha già vinto, quello su cui si basa l’esistenza stessa degli stati attuali.

Ora, io – come sa chi frequenta queste pagine – nutro profonda diffidenza verso ogni forma di nazionalismo e anche verso il concetto stesso di nazione.

Le ragioni di questa diffidenza sono tante e le ho espresse più volte, perciò non mi dilungo.

Dico solo che è sempre sbagliato ridurre la complessità della vita a schemi rigidi e a segmenti giustapposti, astratti, facili ma al contempo traditori.

I nazionalismi sono delle semplificazioni utilitaristiche, delle riduzioni artificiose della complessità storica, a vantaggio di qualcosa di molto concreto.

Di solito, a protezione di rapporti di forza dati o a vantaggio di una nuova impostazione dei medesimi in termini più restrittivi.

I nazionalismi si basano su tesi essenzialiste e su principi politici escludenti: io sono così per questo e quest’altro motivo, tu sei cosà per quello e quell’altro e non c’è verso che possiamo convivere o costituire tra noi una comunità.

So anche però che, proprio in virtù della complessità e della non linearità dei fenomeni umani, non si può nemmeno scartare a priori la rilevanza dei legami affettivi, del senso di appartenenza, della necessità evolutiva di essere parte di una collettività.

Il che si traduce, su scala storica e geografica, nell’esistenza dei popoli, delle comunità umane storicamente formate.

Non si tratta di dati di fatto ineliminabili e sempiterni. Qui c’è la differenza radicale rispetto ai nazionalismi e agli etno-centrismi.

I popoli esistono, le appartenenze esistono. Nessuno può negarlo in buona fede, quale che sia il giudizio politico che se ne da.

Ma si mescolano, mutano, scompaiono. E più dei popoli mutano e possono scomparire le organizzazioni politiche che essi si danno.

In ogni caso – e questo è importante – nessuno può estromettersi dalla realtà sintetizzata nella massima di Terenzio “homo sum, humani nil a me alienum puto”.

Una volta ammesso questo, resta però da fare tutto il discorso politico.

Negare il senso e la legittimità dei nazionalismi è un conto, negare la legittimità e il senso solo di alcuni nazionalismi è un’altra faccenda.

Dare un giudizio politico e storico negativo sul nazionalismo in genere è lecito, ma rifiutare di riconoscere la portata che le appartenenze e le relazioni culturali hanno per la nostra specie è banalmente un errore.

Molti osservatori sono sconcertati dalla vicenda catalana, ma anziché analizzarla, cercare di comprenderla, riconoscerne il peso specifico, tendono a sminuirla, ad attribuire ad essa uno stigma negativo di comodo. Per partito preso. Per paura.

Chi fa questa operazione, in Sardegna, quasi sempre coincide con gli oppositori a qualsiasi discorso di autodeterminazione sarda.

Ne abbiamo avuto esempi anche sui mass media mainstream, in queste settimane (La Nuova l’ha fatta da padrona, al solito; vedi questo e questo).

Di solito le argomentazioni utilizzate sono talmente deboli e auto-contraddittorie da risultare persino ridicole. Eppure mantengono una forza data loro dall’egemonia culturale a cui fanno da sentinelle (sempre più disarmate, bisogna dire).

Così, sembra del tutto lecito condannare il nazionalismo catalano (o sardo) sulla base del nazionalismo spagnolo (o italiano).

Magari facendo mille distinguo molto dotti e corroborati da fonti e citazioni. Senza che questo modifichi di una virgola la reale natura e l’intima debolezza di tali ragionamenti.

Il nazionalismo sbagliato è sempre quello altrui. Il che è appunto una proposizione prettamente nazionalista.

Poco importa che ci si ammanti di trucchi retorici da quattro soldi, come la baggianata del “patriottismo costituzionale” opposto al nazionalismo “etnico”.

È patetico e persino oltraggioso contrapporre i nazionalismi vincenti, colonialisti, oppressivi, alle risposte ostili – dai tratti a volte, ma non sempre e non esclusivamente, nazionalisti – delle controparti subalterne e oppresse.

Ragionare in termini astratti per giustificare rapporti di forza diseguali ed evidentemente ingiusti è un artificio efficace, ma sempre sleale. E molto sgradevole.

Ergersi a paladini dell’umanità, ma sempre e solo a favore dello status quo, è una scelta reazionaria della peggior specie.

Questo vale sempre e per tutti, dai nazionalisti dichiarati agli internazionalisti di sinistra ostili all’autodeterminazione dei popoli.

Non è il nazionalismo dei popoli senza stato, la minaccia per la pace e la prosperità del mondo, così come non sono gli immigrati o la “sicurezza” i problemi generali che dovrebbero stare in cima alle nostre preoccupazioni.

Le minacce sono sotto gli occhi di tutti: inquinamento, ingiustizie sociali, guerra, paura. E le ragioni dell’élite mondiale, spacciate ideologicamente per necessità collettive.

Quell’élite mondiale che prospera e si perpetua ai danni di tutto e di tutti. Portando i propri soldi nei paradisi fiscali.

Le minacce sono i fascismi che rialzano la testa, nella sostanziale impunità, pronti ad essere usati all’occorrenza dal potere costituito (come è nella loro natura).*

Sono gli stati-nazione attuali, la minaccia. Quegli stessi stati-nazione che, ben lungi dall’aver perso il proprio ruolo, sono oggi più che mai lo strumento più efficace per il controllo sociale e per la garanzia dell’intoccabilità dei rapporti di produzione esistenti.

Perciò, di cosa parliamo quando parliamo di nazionalismo? Qual è il sottotesto? Cosa si cela dietro la valanga retorica ostile al Procés catalano così come a qualsiasi altro processo di autodeterminazione democratica? A chi giova il mantenimento dello status quo?

Ecco, io partirei da queste domande, più che attardarmi in dissertazioni teoriche fine a sé stesse o andare appresso ai diversivi giornalistici.

La responsabilità della nostra classe intellettuale (e parlo di quella sarda), anche in questo frangente, è enorme. Sia per le cose dette (poche e quasi sempre sbagliate), sia soprattutto per i silenzi.

Ma non basterà il silenzio a scongiurare processi storici già avviati, né a chiamarsene fuori.

 

 

 

*Ma la Digos, anziché occuparsi di far chiudere le sedi di Casa Pound e Forza Nuova e impedirne le manifestazioni razziste e fasciste, “attenziona” un sindaco e una cerimonia pubblica a commemorazione dei caduti in guerra.

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