La subalternità è una brutta bestia. Se domina incontrastata è mortale. Mettiamo insieme un po’ di fatti e vediamo di trarne qualche ragionamento.
Nel giorno della visita informale del primo ministro cinese Xi Jinping e della visita di propaganda referendaria del presidente del consiglio Renzi escono i dati sulle precarie condizioni degli studenti sardi.
Aggiungo anche un altro elemento, un esempio buono per alimentare la riflessione, e parto da questo.
Ieri, insieme ad altri commentatori, discutevo su FB a proposito della presentazione di un film sardo di prossima uscita. Il film si intitolerà Bandidos e balentes, sottotitolo: Il codice non scritto.
Il trailer è abbastanza terrificante, a mio giudizio (opinabile, naturalmente). Ma quel che più sconcerta è il senso di un’operazione del genere.
Il regista si premura di farci avere una nota di presentazione dell’opera che recita, testuale:
Sardegna anni 50/60 il film racconta di uno spaccato di vita nella meravigliosa Terra Sarda. Episodi ambientati in un Paese non definito dell’entroterra. legati al matriarcato tema principale, alle Faide, ai Sequestri di persona, al Banditismo, Abigeato di quegli anni, in un susseguirsi di colpi di scena. Si passa da giorni di vita quotidiana a scene che descrivono fatti di cronaca avvenuti nella Sardegna in quel periodo. Attraverso il racconto ci si immerge nelle fantastiche location naturali dell’entroterra sardo, dove Nuraghi, Dolmen, Pinnetus Grotte e siti Nuragici fanno da cornice e scenografia a questo film, uno scenario che lascia il fiato sospeso ammirando le meravigliose foreste e boschi incontaminati della Sardegna.
Manca qualcosa? Una serie di stereotipi, una storia pienamente inserita nel nostro mito identitario, nella sua versione più cupa ma alquanto popolare (specie dall’altra parte del Tirreno).
Materiale mitologico che ha sempre alimentato politiche di stampo coloniale, repressive, ottuse e dannose: dall’industrializzazione chimica della Piana di Ottana, alla militarizzazione del territorio, alla stigmatizzazione ossessiva e radicale di tutto ciò che suonasse come troppo sardo (a cominciare dalla lingua).
Fenomeni ben noti, su cui non è necessario soffermarsi ora.
D’altra parte, nel prosieguo della nota, si può leggere:
Il film è stato ideato dall’appuntato dei Carabinieri Gianluca Pirastu che nei suoi 25 anni di servizio nell’arma in quei luoghi ha raccolto testimonianze reali […].
Non so se questa notizia voglia essere rassicurante. Confesso che non mi ha fatto quest’effetto. La nota chiude così:
Il film Bandidos e Balentes è un prodotto autofinanziato senza contributi Regionali e Ministeriali, per la realizzazione sono intervenuti svariati Sponsor che hanno collaborato per la sua realizzazione.
Sarebbe interessante conoscere l’elenco di questi sponsor. È di una qualche consolazione che per realizzarlo non siano stati spesi denari pubblici. Benché, su questo fronte, anche i criteri di finanziamento del cinema da parte della Regione meritino qualche ragionamento, viste le opere selezionate e quelle scartate. Ma è un altro discorso.
Restiamo in tema. Il nodo è questo. Che si senta il bisogno, oggi, nel bel mezzo di una transizione storica delicata e molto minacciosa, di propinare al pubblico (non solo sardo) un’opera di questo tenore è una scelta davvero di difficile comprensione.
L’operazione che ne viene fuori è oggettivamente reazionaria. Quali che siano le intenzioni degli autori, sembra voler far regredire i nostri processi di identificazione collettiva auto-colonizzata al livello che potevano avere trent’anni fa (per essere generosi).
Il discorso va al di là della riuscita estetica del film, che di suo potrebbe anche risultare il “capolavoro tanto atteso, che sul web sta raggiungendo traguardi straordinari classificandosi come film più richiesto nel territorio e all’Estero“, come recita la nota citata.
Non si discute che si tratti di un’opera di ingegno sicuramente impegnativa e che sarà costata lavoro, tempo e denaro, ma non possono essere taciuti i dubbi sull’impatto che potrà avere sull’opinione pubblica.
Un’opinione pubblica già fortemente indebolita, che annaspa, che ha pochi appigli a cui aggrapparsi.
E qui veniamo alla cronaca. La messinscena mediatica propinataci per l’arrivo congiunto del premier cinese e di quello italiano non fanno che confermare la sensazione di pericolo incombente che aleggia sulle nostre sorti.
La sceneggiata di stampo prettamente coloniale, con tanto di esibizione folkloristica di indigeni, a riverire tanto il potente imperatore esotico, quanto il provvisorio duce italico, è disarmante. Il fatto che sia l’ennesima riproposizione di un copione già visto non attenua il fastidio.
La pochezza della politica istituzionale sarda anche in questa occasione è emersa in tutta la sua imbarazzante consistenza. Niente da dire sull’opportunità di allacciare buoni rapporti diplomatici e commerciali con una potenza economica mondiale. Ma c’è modo e modo di farlo. E c’è anche modo e modo di rappresentarsi.
Idem sul versante italiano. Per dire, spiace venire a sapere che a sostenere la spudorata campagna referendaria di Renzi ci fosse anche il tenore di Neoneli (che si presenta erroneamente al mondo come “i tenores”, purtroppo, ma va be’). È lo stesso gruppo che qualche anno fa aveva meritoriamente registrato per intero l’inno de su patriota sardu a sos feudatàrios, di F.I. Mannu.
A meno che non siano andati lì a pregare Renzi di moderare la tirannia (fraintendendo il sarcasmo di quel testo rivoluzionario), e a prescindere dalle loro posizioni personali sul quesito referendario, suona piuttosto triste che si siano prestati a tanto. È un fatto di opportunità e di consapevolezza politica e civile.
Ma cosa c’entrano con tutto questo i dati sui risultati scolastici dei ragazzi sardi?
Temo che c’entrino più di quanto appaia. La grande dispersione scolastica e i cattivi risultati nell’apprendimento di italiano e matematica dei nostri studenti suggeriscono un problema strutturale, profondo, a cui non si può rispondere con analisi tarate su realtà diverse e distanti, né con mezzi ordinari.
Frequentare la scuola per i ragazzi sardi che non vivono in una delle nostre città (che – ricordiamolo – sono una frazione di tutti i comuni sardi) è difficile per diverse ragioni.
Le infrastrutture sono carenti, le scuole vengono chiuse e accorpate, i trasporti sono ancora estremamente difficoltosi, costosi e in via di ulteriore ridimensionamento, le questioni culturali di fondo del tutto irrisolte.
Mettete i ragazzi sardi in condizione di studiare e usare a scuola il sardo (o il gallurese, o il catalano di Alghero, ma comunque anche il sardo), e vedrete che in pochi anni non avranno più problemi con l’italiano (e con le altre materie). E lo stesso vale per la storia.
Date loro la possibilità materiale di studiare senza doversi sobbarcare viaggi faticosi, levatacce e disagi, e molta parte della dispersione scolastica sarà magicamente riassorbita.
La classe dominante sarda, che esprime la nostra politica istituzionale, è radicalmente ostile alla Sardegna, questo è il problema. Deve esserlo, perché la sua stessa esistenza dipende dalla sua adesione all’apparato di potere, agli interessi strategici e all’egemonia culturale che dominano l’Italia.
Le sfilate al cospetto del sovrano viste ieri, le adesioni apparentemente insospettabili alla campagna governativa per le riforma costituzionale, la piaggeria verso i potenti stranieri di turno e la devastazione socio-economica, culturale e demografica dell’isola sono parte di uno stesso disegno politico.
L’ignoranza di noi stessi ci priva di anticorpi civili e politici. Alimentarla attraverso la perpetuazione di stereotipi identitari tossici o con l’indebolimento di fatto del diritto allo studio non sono certo ricette utili al nostro riscatto collettivo.
Impariamo dall’esperienza e teniamo a mente le circostanze come quelle di questi giorni. …Cando ant a bènnere sos nostros, amus a ballare nois.