Il miracolo Sardegna

La Sardegna è una terra miracolosa. Nessuno la conosce davvero, in tanti, persino tra i Sardi, non saprebbero nemmeno collocarla correttamente su una carta geografica. Quel che se ne sa è poco e spesso negativo. Ma questa verità va finalmente svelata.

Pensiamoci su. È una terra che ha avuto il tristissimo destino di diventare una sorta di colonia interna e non ne è più uscita. Una condizione penalizzante su tanti fronti. Eppure siamo ancora qui, a giocarcela.

Com’è che sono andate le cose? Be’, comincerei da un momento non troppo in là nel tempo.

Siamo poco prima della metà del XIX secolo. Un gruppo di fresconi locali, credendosi più furbi degli altri, fa un blitz – irrituale, illegittimo e mal pensato – e ottiene da re Carlo Alberto la Fusione perfetta con gli stati del continente: un regno, una legge, un fisco, una capitale (Torino), un insieme di interessi da garantire, ecc.

Nello stesso anno in cui questo pastrocchio entra in vigore (1848), inizia di fatto il Risorgimento italiano. Da lì a una dozzina d’anni il Regno di Sardegna si accaparra quasi tutta la penisola italiana e la Sicilia. Nel 1866 si aggiungono anche Veneto e Friuli. Il danno ormai è fatto.

La Sardegna “italiana” è un esempio di relazione di tipo coloniale. Anche laddove manchino elementi fattuali che denotano di solito i domini coloniali classici, sono però presenti tutti gli altri elementi, in particolare la subalternità economica e quella culturale.

Di gentaglia in cerca di affari a buon mercato la Sardegna ne ha conosciuto tanta, specie dalla Restaurazione in poi. Sconfitta la Rivoluzione sarda e quasi azzerata la parte più attiva, istruita e innovativa della borghesia isolana, c’era spazio per speculatori e “prenditori” forestieri.

Anche per qualche locale, s’intende, a patto che fosse cooptato nel sistema di potere dominante. Pochi, comunque. Il governo sabaudo preferì sempre offrire le risorse dell’isola a non sardi. Evidentemente aveva capito la lezione: se fai evolvere troppo l’economia locale, in modo indipendente dal favore della corte e sulla base di forze autonome, poi questi qui alzano la testa e cominciano ad avere pretese anche politiche.

Sembra che la lezione sia stata metabolizzata molto bene. La continuità tra regime sabaudo e stato italiano unitario è molto evidente. Per certi versi anzi possiamo ben dire che la condizione dell’isola, nel passaggio da Regno di Sardegna a Regno d’Italia, sia peggiorata, e non certo per via del solo cambiamento di denominazione.

Se guardiamo all’intero percorso della nostra storia contemporanea, negli ultimi due secoli, possiamo anche riconoscere dei momenti di possibile rottura, di potenziale mutamento. Ma si è sempre trattato di tentativi abortiti, o normalizzati.

Persino lo sviluppo del secondo dopoguerra, pure innegabile, è costato un prezzo quasi insostenibile. Estirpazione della malaria, industrializzazione, alfabetizzazione di massa e turismo hanno fatto rima con emigrazione, servitù militari, acculturazione forzata, decadenza sociale e politica.

Poi è fallita anche l’industrializzazione, con lo strascico del disastro ambientale tutto ancora da risolvere. E questo, senza che altri comparti economici siano stati fatti crescere, senza alcun investimento di risorse ed energie in una visione politica che non fosse il mero controllo, il mantenimento ostinato della condizione di dipendenza e subalternità.

Oggi ci ritroviamo deboli davanti alla chiamata della Storia. Mentre ci accapigliamo intorno a un referendum costituzionale reazionario, ne succedono di tutti i colori sotto il nostro naso.

La giunta regionale nominalmente capitanata da Francesco Pigliaru è sempre più simile a un commissario liquidatore. In questo periodo addirittura accelera nella svendita delle risorse dell’isola, a cominciare da alcuni pezzi pregiati.

L’ex San Raffaele di Olbia è già andato, ceduto agli amici del Qatar. Oggi si parla della privatizzazione (una sorta di vendita al ribasso) dell’aeroporto di Alghero, provvidenzialmente ridimensionato proprio dalla politica dei trasporti dell’attuale giunta e del suo assessore Deiana.

La tenuta di Surigheddu e Mamuntanas, 1200 ettari irrigui ed infrastrutturati alle porte di Alghero, messa anch’essa a disposizione della speculazione internazionale. La Società Bonifiche Sarde e tutto il suo compendio, presso Arborea, destinata a un gruppo imprenditoriale italico che fa capo a De Benedetti, Gavio, Cremonini ed altri marpioni del settore.

I beneficiari di tali cessioni sono sempre gli stessi, gli amici degli amici, pezzi grossi dell’establishment affaristico italiano e internazionale, perfettamente inseriti nel gioco planetario di accaparramento brutale in corso.

Al contempo, si favorisce l’emigrazione, specie se giovane e formata, si favorisce lo spopolamento di larghe aree dell’isola, si indeboliscono i presidi sociali e culturali, si abbandona al suo destino la scuola (ben lieti di essere in prima fila ad applicare la vergognosa normativa statale), si debilitano e possibilmente si cedono al controllo statale il patrimonio storico-archeologico e i beni culturali e paesaggistici nel loro insieme.

C’è altro? Sì, ma questi esempi bastano e avanzano. Non sono episodi occasionali, non sono scelte dettate da improvvise emergenze. C’è un disegno chiaro alla base. Le montagne di retorica istituzionale – quasi sempre molto anglofona – con cui viene camuffata la realtà non servono davvero a nasconderla.

In Sardegna non deve esistere alcuna possibilità di maturazione di un sistema economico autonomo, articolato, in connessione col mondo, in grado di mettere a frutto competenze, intelligenze, idee, risorse, capacità relazionali.

Che pure ci sono e in numero straordinario, se si pensa alle condizioni in cui l’isola è ridotta da due secoli. Ci sono talenti e intelligenze creative, ci sono esempi di buona imprenditoria, ci sono casi di solida e produttiva cooperazione, ci sono ingegnose esperienze nell’ambito dell’economia di relazione. Per questo parlo di miracolo.

Aveva ragione Giovanni Maria Angioy, nel 1799, quando scriveva:

Malgrado la cattiva amministrazione, l’insufficienza della popolazione e tutti gli intralci che ostacolano l’agricoltura, il commercio e l’industria, la Sardegna abbonda di tutto ciò che è necessario per il nutrimento e la sussistenza dei suoi abitanti. Se la Sardegna in uno stato di languore, senza governo, senza industria, dopo diversi secoli di disastri, possiede così grandi risorse, bisogna concludere che ben amministrata sarebbe uno degli stati più ricchi d’Europa, e che gli antichi non hanno avuto torto a rappresentarcela come un paese celebre per la sua grandezza, per la sua popolazione e per l’abbondanza della sua produzione.

Colpisce dunque non solo la sfrontatezza con cui chi dovrebbe governare la Sardegna in nome e per conto dei Sardi la sta invece riducendo ai minimi termini, ma anche la fretta.

Quasi ad evitare che, dovesse succedere il peggio (tipo una vittoria elettorale non gradita, un mutamento nei rapporti di forza politica interna, o che so io), il salvabile da salvare sia il minimo possibile.

È meglio se ci rendiamo conto di quel che succede. È meglio se recuperiamo un minimo di istinto di sopravvivenza e di connessione con la realtà. Nessuno si farà carico della nostra sorte al posto nostro, se non per peggiorarla. E anche di alcuni dei “nostri” è doveroso sospettare.

Votare “no” al referendum costituzionale non risolverà alcuno dei nostri problemi strutturali, ma quanto meno servirà a scongiurare momentaneamente il peggio. La vittoria del “sì” invece, pur senza mutare sostanzialmente il rapporto di forza tra isola e stato centrale, aggraverebbe la nostra condizione. Sarebbe un pessimo segnale di arrendevolezza a chi ha già le sue grinfie sulla nostra terra e sulle nostre vite.

Non c’è nulla di deciso, nella nostra sorte collettiva. Ci siamo ancora, ci siamo sempre. La Sardegna e la sua popolazione hanno già conosciuto momenti difficili e ne sono sempre uscite (qualcuno parla di resilienza, qualcuno di antifragilità, vedete voi).

Non è detto che ce la caveremo anche stavolta. Non a buon mercato, temo. Ma quel che si può ancora fare, molto o poco che sia, dipende in larga misura da noi.

2 Comments

  1. Stimato Omar, non l’hai presa da tanto vicino, ma pensavo che al dunque avresti puntualmente chiarito le ragioni del tuo appello al No. E invece giunto al nocciolo ti limiti a giudizi direi assai poco analitici: “Votare No al referendum costituzionale non risolverà alcuno dei nostri problemi strutturali, ma quanto meno servirà a scongiurare momentaneamente il peggio; la vittoria del Sì, invece, pur senza mutare sostanzialmente il rapporto di forza tra isola e stato centrale, aggraverebbe la nostra condizione e sarebbe un pessimo segnale di arrendevolezza a chi ha già le sue grinfie sulla nostra terra e sulle nostre vite”. Chi sia alla ricerca di capire nel merito la materia di questo referendum ha difficoltà, mi pare, a trovare elementi realmente utili: al punto in cui siamo e che hai descritto (tra l’altro imputando al sistema tutto il male e allo spirito dei Sardi tutto il bene; e sarà) ci ha portato casomai la vigente Costituzione, non quella che ora dobbiamo giudicare col voto. Che magari sarà peggio (molti lo credono, io non me ne convinco), ma quando dici che la vittoria del Sì non muterebbe sostanzialmente il rapporto di forza tra isola e stato centrale, con quel “sostanzialmente”mi sorprendi (avrei capito un “formalmente”): allora perché si verrebbe ad aggravare la nostra condizione (eccetera eccetera)?
    Spero non ti dispiaccia avere l’occasione di spiegare meglio a chi, nonostante l’impegno, non ha capito, dopo le importanti premesse, il finale.

    1. Francesco, non è un post sul referendum, bensì sulle scelte deliberatamente devastanti della politica regionale.
      Non so dove tu legga una assoluzione (“tutto il bene”) dei sardi, dato che sono sardi anche i nostri politici e sono stati votati ed eletti da altri sardi. Dato che non uso queste categorizzazioni semplicistiche e nemmeno mi piacciono, gradirei che non mi venissero attribuite, così, un po’ capziosamente.
      Il tema referendum viene toccato incidentalmente, in quanto passaggio politico significativo di questi giorni. Il succo del pezzo non muterebbe comunque, anche se non ci fosse questo fatto contingente ad attirare la nostra attenzione.
      La mia sul referendum l’ho detta e in più occasioni. Molto sui social network, dove il confronto è paritetico e il dialogo più facile.
      Il referendum non muta sostanzialmente il rapporto tra Sardegna e stato centrale, perché è un rapporto sbilanciato di suo. È un fatto storico appurato ed anche facilmente osservabile: la Sardegna una “regione” oltremarina, distante, demograficamente marginale, politicamente debole, economicamente tenuta in stato di debilitazione, culturalmente sottomessa. Il rapporto di forza è troppo sbilanciato. Per uscirne credo non ci sia altra strada che la negoziazione di una separazione, il più possibile consensuale magari, graduale perché no. Ma separazione. Una premessa della quale potrebbe essere una fase di autonomia radicale, come prodromo a una eventuale scelta di indipendenza anche formale (a scelta dei Sardi). Di sicuro da questo rapporto penalizzante non se ne esce semplicemente votando in un modo o nell’altro in questa occasione.
      Tuttavia, in termini di ragionamento sul contingente, la mia opinione è che se la riforma entrerà in vigore il governo italiano avrà una sorta di autorizzazione ad agire con maggiore disinvoltura su fronti fin qui problematici. E sarà un bel guaio.
      Quando si fa appello al *merito* del referendum, per chiedere di esprimere il proprio parere, ho l’impressione che ci sia un grave equivoco su quale sia questo merito.
      Il referendum non è semplicemente un fatto giuridico, una modifica parziale e circoscritta della costituzione. È invece prima di tutto un referendum politico, che muta sostanzialmente (ecco di nuovo la parolina magica) l’impianto generale della carta costituzionale italiana, e non in termini migliorativi e più democratici. Lo fa in modo surrettizio e furbesco, apparentemente senza toccare in nulla la prima parte della costituzione (quella dove sono contenuti i principi fondamentali).
      Tutta la messinscena governativa a proposito di questa riforma è vergognosa. Le ragioni dichiarate sono ipocrite e di comodo. Gli intenti reali, benché trasparenti ad una occhiata appena attenta, sono taciuti o addirittura negati, con un’operazione di neolingua degna della peggiore rivoluzione passiva.
      Ma se questa manovra di chiaro stampo autoritario e antidemocratico può risultare minacciosa per l’Italia (o per gli Italiani, almeno per un gran numero di loro), per la Sardegna – ribadisco – ha il profilo di una vera e propria condanna. La nostra classe politica istituzionale è stata selezionata per essere accondiscendente. Vediamo già oggi cosa sta combinando, tra regali, svendite, consenso alle peggiori operazioni di land grabbing e di assoggettamento economico, ecc. Non è proprio il caso di darle anche il compito di rinegoziare l’autonomia sarda (al ribasso, se passa la riforma, è ovvio). Caso mai la mobilitazione in corso dovrebbe tradursi, dal giorno dopo il referendum e quale che sia il suo risultato, in una mobilitazione per il ridisegno della nostra relazione con lo stato centrale. Naturalmente per aumentare la quota di competenze e prerogative della Regione sarda, non certo per smantellarne l’autonomia.
      Spero di averti risposto, sia pure in modo non esaustivo. Per argomentazioni ulteriori rimando alle discussioni sui social.

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