Vedo un servizio di telegiornale sardo, dedicato allo sciopero della scuola (sacrosanto), e sento in sottofondo alla manifestazione l’inno di Mameli. Leggo scandalo e allarme a proposito della mancata partecipazione della Brigata Sassari alla parata militare del 2 giugno, a Roma. Vengo informato che per l’imminente chiusura della campagna elettorale arriveranno in Sardegna esponenti politici “nazionali” a supporto delle candidature locali. E mi deprimo.
Lo sciopero della scuola è stato necessario quanto tardivo, visto quello che bolle in pentola, e non da oggi. La scuola italiana è disastrata e si regge ormai solo sul lavoro – sempre più faticoso e sempre meno gratificante – dei docenti e del personale ausiliario.
In Sardegna i problemi della scuola sono ingigantiti dalla totale assenza di politiche mirate, su un territorio che avrebbe bisogno di interventi specifici, in considerazione della nostra geografia, della nostra demografia e della nostra articolazione socio-economica. Per questo sarà opportuno non solo contrastare le prospettive autoritarie e centraliste della riforma costituzionale in via di approvazione (dunque andare a votare NO al referendum del prossimo ottobre), ma anche entrare nell’ordine di idee di rendere completa la competenza legislativa della Regione Sardegna in materia scolastica (quindi, avviare un percorso di riforma dello Statuto che la ricomprenda), oltre ad attivare tutte le competenze già vigenti.
Gli elementi cardine dovrebbero essere la riqualificazione dell’offerta scolastica a partire dai suoi aspetti pratici: la centralità di una dimensione a misura delle nostre comunità degli istituti scolastici nonché l’universalità e l’accessibilità dei servizi connessi all’attività didattica (in primis i trasporti, ma anche la mensa, senza parlare delle strutture fisiche).
Ma in Sardegna ha un peso decisivo anche l’aspetto più strettamente culturale. L’irrisolta questione linguistica, la rimozione e minorizzazione della nostra storia, della conoscenza stessa dei nostri luoghi, sono tutti fenomeni che hanno dato e continuano a dare esiti nefasti anche in termini sociali ed economici. Su questo però le forze che dominano lo scenario politico non solo non agiscono, ma non sono interessate ad agire.
In fondo l’ideologia della giunta Pigliaru è quella tutta astratta e metafisica dei Chicago boys. Valgono solo le eccellenze e le realtà metropolitane, conta perpetuare e consolidare l’élite e gli altri che si arrangino con le elargizioni compassionevoli. Loro sono a posto così. Dei sardi anzi si libererebbero volentieri, specie di quelli meno compiacenti; salvo sostituirli alla bisogna – come ripetutamente dichiarato – con gente più disperata di loro. Chi li ha preceduti ha la stessa ottica classista e proconsolare, del resto, ma con meno infiocchettature finto-intellettuali.
Non c’è solo la politica del Palazzo, però. I docenti e in generale chi lavora nella scuola dovrebbero fare uno sforzo di consapevolezza che vada un passo oltre la condizione soggettiva di dipendenti dello stato. Troppi insegnanti sono ancora irretiti dalla retorica patriottarda e italocentrica, di cui è infarcita la scuola italiana; in Sardegna più che altrove, si direbbe. Bisogna pretendere anche da loro, da chi ha in mano la preparazione e l’educazione al mondo dei nostri ragazzi, che ci sia una maggiore consapevolezza storica e civile, una visione meno provinciale e subalterna delle cose. Non aver spinto per la centralità della questione linguistica nelle vertenze scolastiche sarde, per esempio, è un errore clamoroso, con evidenti effetti occupazionali, oltre al resto.
Sentire l’inno di Mameli che accompagna lo sciopero del personale scolastico sardo infonde solo amarezza. C’è da sperare che si trattasse di una scelta sarcastica, provocatoria. Ma non ci scommetterei.
E se la scuola è messa così possiamo stupirci delle reazioni per l’esclusione (per altro poi smentita) della Brigata Sassari dalla parata militare del 2 giugno? Che un intero popolo – o comunque una parte consistente di esso – si senta offeso per una cosa del genere la dice lunga su quanto siamo messi male. Possono devastarci territorio e coscienze, impoverirci, spingerci all’emigrazione, senza che questo susciti altra reazione che una autocommiserazione rassegnata. Percepiamo come offensiva solo la mancata possibilità di dimostrarci ancora una volta servitori obbedienti, pronti a sacrificarci per il padrone.
E così, anche alle prossime elezioni amministrative, non si aspetta altro che la benevola concessione di una visita da parte della politica che conta, ossia quella che si fa fuori dall’isola. Può essere l’ultimo degli attacchini di un partito italiano, in Sardegna riceverà sempre l’accoglienza di un insigne statista, a patto che ci degni della sua presenza. Dai tempi di Francesco Ignazio Mannu non è che sia cambiato molto, non in meglio, di sicuro. Certe volte è davvero difficile non cedere alla tentazione di considerarci solo una miserabile colonia.
Senza una dose massiccia e diffusa di coscienza di sé nel mondo, non ci sono speranze di emancipazione collettiva. Marx la chiamava “coscienza di classe”, ossia la percezione corretta e oggettiva del proprio posto nella rete di relazioni umane di cui siamo tutti parte.
In Sardegna questo significa qualcosa di più e di più complesso che capire quale sia il nostro ruolo sociale. C’è anche questo, naturalmente, ma c’è anche una serie ulteriore di fattori da considerare, che sono inscindibili dalla condizione delle persone dentro i rapporti di forza in ambito produttivo.
Perché le stesse relazioni sociali e i rapporti di produzione sono connessi alla nostra condizione collettiva subalterna. Il nostro sistema produttivo è una funzione di un meccanismo più ampio che esso è chiamato esclusivamente a servire, senza poter aspirare a riceverne un vantaggio di ritorno.
Non capire questi meccanismi e non metterli al centro di qualsiasi discorso politico, sociale e culturale è devastante, oltre che colpevole. Vista la pochezza della campagna elettorale in corso (con qualche lodevole, ma limitata, eccezione), non c’è di che stare allegri.
Ciao Omar, ti propongo tra i commenti a questo articolo (mi sembra adatto) una riflessione di questi giorni. Siamo in tema di riforme istituzionali e di autonomie regionali, di spinta centralista dell’esecutivo e di possibile arrendevolezza di regioni a statuto speciale rispetto all’accogliere come ormai anacronistica tale forma di limitata autonomia. Questa settimana la trasmissione Prima Pagina, su Rai Radio 3 (7,15 – 8,45), è condotta dal giornalista Alberto Faustini, direttore dell’Alto Adige e del Trentino. Non dico che quando parla lui stiano parlando in coro i “governatori” delle Province Autonome Di Trento e di Bolzano, ma il suo parere in merito alle questioni di quei territori sarà pur degno di attenzione e considerazione. Ebbene il direttore Faustini questa settimana si sta trovando a rispondere, ogni tanto, sul disegno della riforma costituzionale prossima al vaglio referendario, dando abbastanza ragione a quanti considerano le Regioni e le Provincie a Statuto Speciale ormai anacronistiche, fino a rispondere ad ascoltatori che intervengono da quelle Provincie, e che sottolineano la loro convenienza a mantenere tale specialità, che quella convenienza è giustamente il vulnus lamentato dai residenti nelle Regioni a statuto ordinario.
E noi, con la nostra mal funzionante specialità? Noi che nemmeno possiamo dire di stare, grazie a questa, meglio degli altri? Mi viene da guardare a quelli che potrebbero dirsi, per quanto ci concerne, due precedenti significativi: la perfetta fusione pre-unitaria e, nell’ultimo dopoguerra, la redazione del nostro Statuto Speciale (più forzatamente, forse, a questi potrebbe accostarsi un terzo momento, il posizionamento autonomistico di Lussu e Bellieni nel primo dopoguerra; e ancora un quarto, senza tornare addirittura all’epoca giudicale, la restaurazione promossa dagli stessi Sardi dopo la sarda rivoluzione). Guardare a questi precedenti mi porta a pensare che ogni volta in cui nella storia abbiamo rinunciato a fare o confermare passi avanti sulla strada dell’autonomia e dell’indipendenza abbiamo sempre finito per pagarla cara, anche quando era sembrato che il barato tra vecchi arnesi costituzionali e modernità efficientista ci avrebbe giovato. Da qui il successivo pensiero che si stia avvicinando, senza troppo clamore, un altro momento della verità, in cui le nostre spiccate peculiarità geografiche e storiche (e quindi culturali) dovrebbero tenerci saldi, se appena ne avessimo coscienza, in una posizione anche estrema rispetto al dibattito nazionale (italiano); paradossalmente, sul piano dei principi, forti della nostra debolezza. Non siamo la Catalogna ricca, non siamo le colonie inglesi del Nord-America (che potevano trattare da posizioni ormai di forza sulle tasse dettate sempre più timidamente dalla madrepatria); siamo tra i più poveri e, nella prospettiva di un autogoverno economico, probabilmente destinati a un perlomeno iniziale arretramento, tale verosimilmente da portare a una revisione della politica salariale tra attuali garantiti e attuali senza tutele per ripartire con un nuovo bilanciamento sociale. Siamo pronti a dircelo? Siamo pronti, in maggioranza, a condividerlo? Siamo pronti a farci trovare pronti e a ballare sulla nostra musica?
I precedenti sarebbero scoraggianti, ma se da questi ci decidessimo a imparare lezioni più profonde di quelle tratte finora dai più …
I precedenti incoraggiano ad avere coraggio, Francesco. 🙂
Non devi sorprenderti delle risposte di Faustini alla questione del referendum costituzionale. Dirige organi di stampa del gruppo L’Espresso di De Benedetti, organico al PD e al renzismo. Certo, lavorando in Trentino queste posizioni sono tutt’altro che popolari. In Alto Adige di rinunciare a qualcosa della loro autonomia non ci pensano manco di striscio e del resto sono garantiti da trattati internazionali e dalla protezione dell’Austria.
In Sardegna il problema oggi non è nemmeno se o quando fare un passo avanti, perché si tratta prima di tutto di resistere. In questo senso, per paradossale che possa sembrare in un’ottica di autodeterminazione, opporsi alla controriforma autoritaria di Renzi e soci è fondamentale. Piuttosto, come ho già scritto, sarebbe opportuno approfittare del dibattito per riflettere sulla nostra autonomia, i suoi limiti, la sua possibile evoluzione, con lungimiranza.
Ragiono sul tuo monito: opporsi alla controriforma autoritaria di Renzi e soci sarebbe fondamentale per almeno non arretrare nella nostra autonomia (nonostante questa necessità si presenti paradossale per quei sardi che vorrebbero occuparsi direttamente della propria autodeterminazione).
La materia e i suoi riflessi sono parecchio complessi, ancora non l’ho masticata che minimamente, nei prossimi mesi confido di farlo a sufficienza e quindi potrò passare nel tempo per diversi orientamenti. Ma a oggi è vero che non sono immune dalla presa di una forma di realismo magari pernicioso secondo cui andrebbe apprezzato si tratti della prima riforma che comunque giunge a cancellare il bicameralismo perfetto; una riforma giunta al termine del suo iter procedurale passando per le mediazioni che qualsiasi altro tentativo di riforma dovrebbe affrontare (e che altri tentativi, appunto, non hanno superato). Potrà il sistema politico di questo Paese, ripartendo dal via, portare a termine un disegno di riforma migliore? Oppure ci va così bene quello in vigore? Certo mi piacerebbe che la Costituzione vigente, insieme a prevedere questo referendum confermativo prima della eventuale entrata in vigore della riforma, ne prevedesse già uno di verifica da qui a (facciamo) 5 anni.
L’ironia, apparentemente fondatissima, di Marco Travaglio nel suo editoriale di oggi, quando confronta i titoli e lo spessore di professori (di arte varia) e “scienziati” (di scienze plurime) firmatari dell’appello per il Sì con i titoli e lo spessore dei costituzionalisti firmatari dell’appello per il No, pare effettivamente tratteggiare bene un quadro entro cui non dovrebbe essere difficile intuire da che parte schierarsi. Ma, proprio nell’ottica della resistenza sul principio della Specialità e in linea con prospettive di autodeterminazione, il punto che più ci dovrebbe interessare (a quanto ho letto fin qui) starebbe tutto nell’articolo 39: “Le disposizioni della presente legge costituzionale non si applicano alle Regioni ad autonomia speciale e alle Province autonome fino alla revisione dei rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime regioni e province autonome”. Ciò significa (come ha scritto l’Assessore agli Affari Generali, Personale e Riforma della R.A.S., Gianmario Demuro, nel suo intervento su La Nuova Sardegna del 15 Maggio) che “il futuro della specialità è da scrivere nei futuri accordi tra lo Stato e le singole Regioni speciali.” Dovrà quindi puntare soprattutto al momento di questi accordi la lungimirante riflessione che invochi, approfittando di questo dibattito, sulla nostra autonomia, i suoi limiti e la sua possibile evoluzione.
L’art. 39 da te citato, Francesco, lascia troppo spazio all’arbitrio, ossia alla declinazione degli eventuali “accordi” sulla base di puri rapporti di forza. Circostanza che vedrebbe la Sardegna soccombere sempre e comunque. Oltre che per ragioni oggettive (il peso demografico dell’isola è pochissimo, la voce in capitolo della Sardegna nel contesto italiano sostanzialmente inesistente), anche per via della debolezza e/o della sostanziale compiacenza della nostra classe politica (fondamentalmente selezionata a Roma, ricordiamocelo). Non solo. In realtà nel complesso della riforma renziana quel che assumerebbe un peso decisivo sarebbe la clausola di prevalenza dell’interesse nazionale. Cioè, a parte il pesantissimo accentramento statale di competenze oggi in capo alle regioni o compartecipate tra regioni e stato, i governi centrali avrebbero sempre e comunque la possibilità di compiere scelte strategiche in ambiti molto sensibili semplicemente dichiarandoli di rilevanza nazionale (italiana). Con tanti saluti a qualsiasi pretesa non dico di autodeterminazione ma anche di puro e semplice decentramento. Sappiamo cosa questo comporti per noi, tra servitù militari, questione energetica, questione trasporti, ambito scolastico e universitario, patrimonio storico-archeologico (in quest’ultimo settore ci sarebbe un accentramento deleterio già nell’ordinaria amministrazione, se passasse la riforma), ecc.
Insomma, che la riforma renziana sia pericolosissima dovrebbe essere evidente. Che in Sardegna si sappia cogliere l’opportunità per un serrato e fecondo dibattito sull’autonomia e la sua auspicabile evoluzione è tutto da vedere.
Immagino, Omar, che non sia facile rispondere del tutto sinceramente a questa domanda (immagino, per converso, non sia facile convincere della piena sincerità della propria risposta): mi chiedo quanto sia difficile, ragionando come qui stai facendo (come proviamo a fare) sui rapporti tra Sardegna e Italia e quando il tuo desiderio sia scopertamente quello di pervenire, nel tempo necessario, a una Sardegna indipendente, mi chiedo quanto sia difficile (dicevo) perseguire con difficoltà il male minore (se non il massimo bene) nella cornice di questo rapporto tra Stato centrale e sua più lontana regione insulare anziché lasciarsi andare ad augurarsi (e non fare nulla per tenerlo lontano) il male maggiore, l’evidenza tangibile e incontrovertibile di un rapporto irriguardoso, di sfruttamento, tale da far inevitabilmente cadere quello che ritieni il prosciutto sugli occhi della maggioranza dei sardi (anche quanto al giudizio sui loro rappresentanti) piuttosto che, al contrario, mantenerli nella convinzione che questo rapporto di dipendenza sia invece sufficientemente armonico, sostenibile, alla fine naturale e tutto sommato anche vantaggioso.
Come si esce, insomma, dalla nostra condizione di ancillare regione italiana (nella quale, spieghi, rimarremo relegati e sofferenti per ragioni oggettive) se non attraverso il tanto peggio, quello che renderebbe evidente ai più come il vero male minore starebbe nell’inevitabile incertezza dei nostri passi oltre l’indipendenza?
Il tanto peggio, storicamente, ha spesso prodotto dolori e devastazioni irrimediabili. Non mi piace come logica assoluta. Così come non mi piace tradurre in articolo di fede la necessità del male minore. Usciamo da questa dicotomia forzata. Bisogna ragionare in termini politici e storici, quindi necessariamente pragmatici. La Sardegna è in una condizione molto debole, forse una delle peggiori situazioni di tutta la sua lunga storia. Perché sta perdendo popolazione e soprattutto la parte di popolazione più attiva, più preparata, più giovane. E la sta perdendo senza che ci sia un uguale o almeno paragonabile flusso in entrata. Ciò succede dentro un più ampio fenomeno di indebolimento economico, sociale e culturale. Inoltre la situazione europea e mediterranea, ma direi globale, non lascia molti margini di recupero a chi oggi e negli anni prossimi venturi dovesse precipitare ulteriormente indietro. Se domani la Sardegna si ritroverà in una condizione ancora peggiore di quella attuale potrebbe non essere affatto un “tanto peggio” da cui uscire più forti, ma un baratro senza via di uscita. Preferirei orientare le forze e le risorse disponibili a salvare il salvabile e con quello costruire qualcosa di nuovo e di migliore.
Devo riconoscerti che non ho difficoltà ad avvertire sincera la tua risposta, ma devo anche aggiungere due punti.
Il primo riguarda la mia scarsamente attendibile soglia critica in merito a sincerità o insincerità in quello che leggo, giacché (devo confessarti) trovo sincero anche Michele Serra che nella sua rubrica di posta sul Venerdì di oggi non si sottrae al confronto in tema di referendum (un ex vicesegretario PD di un centro del napoletano, critico verso “Renzi e compagnucci belli”, dichiara la propria perplessità rispetto alle torsioni linguistiche, logiche e politiche con le quali Serra tra gli altri si schiera per il Sì). Serra muove dal riconoscere le posizioni espresse da Zagrebelsky per il No e da Cacciari per il Sì entrambe ragionate e decenti, nessuna politicamente sediziosa o eticamente ignobile; quindi (auspicato che tali possano riconoscerle tutti) spiega in modo abbastanza piano e articolato perché, tra le due posizione degnamente accettabili e comprensibili, si sente più vicino a quella di Cacciari. Ecco, siamo in pieno gruppo De Benedetti, mi hai già accennato alle tue riserve sul Serra dell’età matura/avanzata, ma lo stesso (pensa) lo trovo sincero e nemmeno me ne sento lontano.
Il secondo e ultimo punto, abbastanza sconsolato, riguarda invece il fatto che ti avverto certamente sincero, ma anche ti vedo e ci vedo, in questo frangente, noi sardi nell’insieme malcerti e indeboliti, abbastanza incartati, con margini di manovra (tra aspirazioni mediamente assai modeste e possibilità apparentemente altrettanto) ahimè vicini, nonostante l’impegno di qualcuno, al forzato immobilismo (alla mobilitazione, se mai visibile, inconcludente). In fondo sembri vedere davanti a noi, bene che vada, un’attraversata del deserto, ma nemmeno mostri di scoraggiarti, ragno paziente che con la prospettiva ed il filo dello storico continua a tessere
Si mantenga allora il tuo impegno e grazie dello scambio.