La vertenza entrate e altri esseri mitologici

Vertenza entrate, ennesimo capitolo. Se ne leggono di tutti i colori. Che bello sarebbe se qualcuno si prendesse la briga di studiarsi un po’ la cosa e renderne conto con obiettività alla cittadinanza! Per il poco che posso, ci provo io.

La questione delle entrate mancanti, sollevata già da Angelo Caria nei primi anni Novanta, era stata riproposta pubblicamente, nel corso della campagna elettorale del 2004, dagli indipendentisti di iRS, quindi fatta propria anche dalle altre organizzazioni indipendentiste. Solo dopo questa denuncia, inizialmente sbeffeggiata da stampa e politica, la giunta Soru aveva deciso di fare qualche accertamento e di sollevare il problema a livello istituzionale. Come avessero fatto fin lì le giunte e i consigli regionali a farsi sfuggire questa faccenduola da niente rimane un mistero, che sarebbe interessante indagare.

Il risultato sbandierato oggi da Pigliaru&friends non è altro che la chiusura di una questione specifica: la piena vigenza delle nuove previsioni (si fa per dire, sono lì dal 2006!) dell’art.8 dello Statuto sardo. Si tratta delle “maggiori entrate” concesse dal governo italiano in sede di accordo tra giunta Soru (ma con un ruolo decisivo di Francesco Pigliaru) e governo Prodi.

Quell’accordo stabiliva che la RAS riconosceva un dimezzamento del debito accertato dello Stato italiano verso la RAS, portandolo da 10 a 5 miliardi di euro. Attenzione, l’ammontare di questo debito era computato sì e no fino al 1991, quindi per il pregresso diciamo che lo Stato si era già concesso un megasconto di fatto.

Il pasticcio era dovuto al fatto che alla Sardegna anziché i 7 decimi dell’IRPEF e la quota prevista di IVA riceveva annualmente (ma mica sempre e con regolarità) molto meno, con ulteriori ingarbugliamenti nei conti, dato il complicato sistema di reciproci versamenti di denaro tra Stato e Regione. Insomma, in definitiva il debito dello Stato verso la Regione che nel 2006 era possibile riconoscere ammontava a circa 10 miliardi di euro e su quello si era trovato l’accordo di dimezzamento.

A parte il dimezzamento del debito, Soru, non senza buone ragioni in un’ottica di autodeterminazione, aveva anche accettato di accollarsi l’intera spesa sanitaria regionale e le spese relative ai trasporti esterni (in realtà anche gran parte di quelle per le infrastrutture e i trasporti interni). Per lo stato italiano un vero affarone.

Tutto a posto, a quel punto? Ovviamente no. A parte la difficoltà di farsi consegnare le cifre dovute, da iscrivere nei bilanci regionali, fin da subito era nata la querelle circa questo benedetto nuovo art. 8 dello Statuto. I governi italiani, dal 2006 in poi (a Prodi era succeduto Berlusconi, nel 2008, e poi via via tutti gli altri), si sono sempre rifiutati di riconoscere piena vigenza alla sua nuova formulazione. Fino a oggi. Con un bel po’ di ulteriori aggravi per le casse della RAS.

Con tutto questo, parlare di vittoria e usare i toni trionfalistici che sto vedendo in giro suona a dir poco ridicolo. E offensivo. Diciamo che qualche decina di milioni di euro all’anno in più nel bilancio della RAS non ci fanno schifo. Ma sono soldi dei sardi, dovuti e non concessi da nessuno, che per giunta sarà ancora lo Stato con i suoi enti a riscuotere e poi a riversare alla Regione.

La famosa Agenzia sarda delle entrate, su cui si è discusso a lungo e per la cui istituzione è stata redatta una proposta di legge di iniziativa popolare sottoscritta da migliaia e migliaia di cittadini sardi, non sarà realizzata. Si istituirà – pare – un’agenzia di verifica e controllo sui tributi riscossi dallo Stato e riversati alla Regione. Un ennesimo ente regionale, che non mancherà di essere accaparrato da qualche abile boss della politica sarda per farne il proprio orticello clientelare. Si parla già di presidenze e di dipendenti (una ventina, ho letto da qualche parte). Una manna per i nostri padroncini feudali, in questi tempi di vacche magre, con le ASL in procinto di chiudere e pochi spiccioli da distribuire.

Non finisce qui però. La faccenda delle entrate tributarie ha dei risvolti politici ovvi, se solo si pensa che per questo genere di contenziosi sono scoppiate rivoluzioni.

Un aspetto importante della questione è il seguente. In molti sostengono che la Sardegna in ogni caso dipende dai trasferimenti dello Stato per sopravvivere. Fanno vedere qualche conto, alla grossa, e sembrerebbe che il flusso di soldi dalla Sardegna verso Roma sia solo una frazione di quello che fa il viaggio inverso. Non si specifica però che dentro questo flusso benevolo di denaro da Roma a Cagliari ci sono tutti i soldi che servono a far funzionare le amministrazioni periferiche dello stato medesimo (forze dell’ordine, caserme, uffici locali di enti statali, scuole, ecc.). Flusso di spesa pubblica alimentata anche dalle imposte pagate dai sardi e comunque inerente al funzionamento dello Stato medesimo.

La verità è che il rapporto tra Sardegna e Stato italiano è e rimane molto sbilanciato a favore dello Stato. Infatti, per dirne una, i Sardi con le loro imposte contribuiscono a tutte le opere pubbliche nella penisola, da cui però la Sardegna non trae alcun giovamento. Vogliamo controllare gli indici di infrastrutturazione dell’isola in confronto a quelli generali dell’Italia? Sono dati interessanti (tipo questi e questi).

Possiamo anche valutare le cose dentro un quadro più ampio. Per esempio, non possiamo dimenticare che la Sardegna è anche un grande fornitore sostanzialmente passivo di energia elettrica verso l’Italia. Un’enorme batteria collegata alla penisola attraverso il megacavo sottomarino SAPEI. Il che somma danno e beffa, dato che l’energia elettrica in Sardegna costa di più che sulla penisola (ma vorrei far notare in proposito i toni rassicuranti e vagamente perculanti della stampa “di regime”, per esempio qui).

Lascio perdere per carità di patria la questione delle servitù militari con i suoi annessi e connessi. Spero sia sufficientemente presente a tutti, nella sua aberrante consistenza.

Dunque, tutto si può dire tranne che la Sardegna sia in debito con l’Italia. E non si può nemmeno dire che questo aggiustamento della situazione a proposito dell’art.8 dello Statuto sia la chiusura vittoriosa della vertenza entrate. La Sardegna è in credito con lo stato italiano e di cifre e valori molto più grandi di qualche decina di milioni di euro e persino di quei famosi 10 miliardi. E non da venti o quarant’anni, ma da molto prima.

Ci sarebbe caso mai da aprire un dibattito, a proposito di entrate, sulla sorte che quei soldi, se pure li avessimo ottenuti, avrebbero avuto. A naso sarebbero confluiti in operazioni di bieco assistenzialismo e di clientelismo, volte insomma a mantenere lo status quo di dipendenza e debolezza socio-economica. Cioè, difficilmente sarebbero serviti a costruire percorsi di affrancamento e di emancipazione collettiva.

O pensiamo davvero che gente come Cabras, Floris (Mariolino), Palomba, Pili, Cappellacci e Pigliaru (Soru lo considererei a parte, almeno per certi versi) sarebbero diventati grandi statisti solo per la maggiore disponibilità di denaro? Sinceramente non lo credo. Affidare più denaro a un pessimo amministratore non lo trasformerà affatto in un amministratore onesto e abile.

La faccenda dei soldi è in larga misura un falso problema, perché i soldi non mancano. Pensiamo a come è stata trattata la sanità da che è completamente in mano alla RAS: una mangiatoia che ci costa ogni anno 3 miliardi e mezzo di euro (in tre anni, spacciati i famosi 10 miliardi della vertenza entrate, insomma). O pensiamo ad Abbanoa, ai suoi disservizi, alle sue prepotenze insopportabili, ai suoi costi.

Il problema è la qualità della nostra classe politica e la mancanza atavica (ossia da almeno duecento anni) di una classe dirigente propriamente detta. La nostra dipendenza discende da questo, più che dalla mancanza di denaro. Da questo e dalle conseguenze che questo produce.

Finché ci saranno loro a gestire le cose, le cose non andranno mai meglio, soldi o non soldi. Se non costruiamo un tessuto economico sano, non dipendente dalle scelte dei patronati politici, lontano da assistenzialismo, nepotismo e clientelismo, non ci sarà verso di affrancarci. Se non liberiamo forze culturali che non siano organiche, direttamente o indirettamente, al sistema di dominio vigente, non avremo nemmeno gli strumenti per capire cosa ci succede.

È la politica sarda a dover cambiare e con essa il senso della nostra cittadinanza. Sono i nostri orizzonti di riferimento, è la percezione che abbiamo di noi stessi come collettività umana nel tempo e nello spazio a fare la differenza. Ragioniamo anche su questo, mentre leggiamo di vittorie e trionfi nelle vanagloriose sparate propagandistiche di questi giorni.

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