Si ritorna a parlare, opportunamente, di spopolamento della Sardegna. Tema poco gradito sia dalla politica sia dall’opinione pubblica, eppure decisivo. È un tema di cui mi occupo da una decina di anni e di cui anche in questo blog c’è ampia traccia.
Da tempo i modelli previsionali basati sulle tendenze in corso mostrano un esito drammatico, di qui ai prossimi decenni. L’impoverimento demografico è un elemento decisivo del circolo vizioso che sta riducendo la Sardegna a una condizione sempre più debole, passiva, subalterna.
Questa tendenza non dipende però dalla scarsa propensione dei sardi a riprodursi (la bassa natalità è un fenomeno di lunga durata, che però andrebbe studiato di più e meglio, con nuove e aggiornate ricerche). O non solo. Nell’epoca contemporanea va associato a fattori storici dipendenti in larga misura dalla sfera socio-economica e politica.
Chi oggi vive in Sardegna, specie in uno dei tantissimi comuni piccoli o piccolissimi, lontano dai pochi snodi urbani, soffre carenze infrastrutturali e mancanze di servizi dovute a ben precise scelte di chi ha governato l’isola in questi decenni. Pensiamo a strade e collegamenti fisici, alla rete internet, alle scuole, ai presidi sanitari, agli uffici pubblici, all’accesso alla cultura. Sono limitazioni evidenti alle possibilità di vita e di lavoro, alle aspettative di realizzazione di troppe persone.
Come è possibile rimproverare i giovani sardi che desiderano andarsene? Spesso lo fanno a dispetto dell’attaccamento che tanti di loro hanno comunque per le proprie radici. Come è possibile pensare a mettere su famiglia in tali condizioni?
Risulta evidente che il tessuto connettivo delle nostre comunità è stato fin troppo resistente, rispetto agli strumenti e alle possibilità che aveva a disposizione. La rete relazionale, le iniziative di promozione culturale, l’associazionismo, lo spirito di corpo delle nostre tante comunità sono stati i fattori che le hanno tenute insieme fin qui. Non grazie alla politica ma nonostante la politica. Fatti salvi i casi, pure esistenti, di amministrazioni lungimiranti e di iniziative locali particolarmente agguerrite, che comunque hanno a che fare con limiti oggettivi crescenti. Oggi tali reti sociali sembrano sfibrate e in procinto di cedere.
Addossare la responsabilità di tale deriva allo stato centrale è una scappatoia di comodo. Anche se è indubbio che l’atteggiamento retoricamente paternalistico e concretamente rapace o al più menefreghista dei governi centrali verso la Sardegna sono fattori rilevanti. E anche le modalità con cui viene selezionata e legittimata la nostra classe politica hanno il loro peso.
La politica sarda, nella nostra condizione di dipendenza, deve limitarsi a recitare la sua parte nell’infotainment quotidiano, catalizzando consensi e/o malumori alla bisogna, grazie a un continuo effetto annuncio; a mantenere la cittadinanza in uno stato di sostanziale incoscienza, di inconsapevolezza, di paura, di assuefazione alla dipendenza medesima.
Naturalmente per garantire la perpetuazione di questa deriva deve essere sempre rilanciato il mito della nostra arretratezza atavica e della nostra inevitabile povertà, deve essere continuamente rinforzato il mito degenere della nostra inadeguatezza. Chi dovrebbe occuparsi di ribaltare questa prospettiva, per ruolo e per disponibilità di conoscenze, quasi sempre si occupa alacremente di sostenerla (pensiamo al ruolo dell’università). In questo – come detto altre volte – la giunta Pigliaru risulta particolarmente efficace.
La politica sarda non risponde con misure decise alla deriva attuale, perché non è chiamata a fare quello, ma si dedica alacremente a conservare il proprio potere, con tutti gli espedienti che riesce a ideare.
Per chi occupa ruoli decisionali o riveste cariche da cui si gestisce denaro pubblico è fin troppo agevole – se non si è dei completi imbecilli – fare in modo da mantenere e possibilmente accrescere il proprio bacino di consenso. Il consenso elettorale, quando serve, e soprattutto il consenso informale dei vari gruppi di interesse a cui si risponde e si fa capo.
Gli esempi pratici sono tanti: piazzare persone fedeli nelle ASL, negli enti strumentali, negli snodi tra banche e istituzioni pubbliche, nelle agenzie di controllo; assoldare un po’ di sindaci in giro per l’isola; aprire o allargare canali diretti con i centri di potere economico e politico con interessi in Sardegna (dalle aziende che utilizzano le aree militari per i propri esperimenti, ai grossi gruppi industriali italiani e stranieri, ai centri di investimento internazionale, alle istituzioni militari italiane e non, ecc.).
Spesso si tratta di azioni formalmente lecite, anche se eticamente discutibili. Non c’è bisogno di violare per forza qualche legge. Certo, poi qualcuno si fa prendere la mano. Lo scandalo – mai troppo evidenziato – delle ruberie sui fondi destinati ai gruppi consiliari in Regione parla chiaro su quale sia la prassi consolidata. Così come il caso degli appalti condizionati in cui mesi fa sono stati coinvolti vari sindaci, funzionari pubblici e impresari privati. Ma questi sono epifenomeni sintomatici, non certo la radice del male.
In definitiva, c’è un motivo per cui sembra che la politica sarda sia ìmpari rispetto al suo compito. Non è che non faccia un tubo dalla mattina alla sera, è che ha altro da fare. È un lavoraccio, in realtà.
Nel frattempo la cosiddetta società civile – o almeno quella parte di essa che non è una diretta emanazione dei centri di potere politico, clientelare e assistenziale – deve arrangiarsi. A volte venendo a patti col diavolo. Sorprende, piuttosto, che esistano ancora realtà dinamiche e produttive, nonostante tutto, specie laddove le consorterie dei partiti italiani e dei loro complici locali non riescono ad allungare le grinfie.
Il mondo del lavoro dipendente, a sua volta, in massima parte incardinato negli apparati pubblici e sempre meno nel settore industriale, è la prima vittima di questa situazione, quindi dovrebbe essere in prima fila nel pretendere un mutamento di modelli e di prospettive. Non lo è affatto, per varie ragioni, tra cui spicca la totale inadeguatezza sindacale.
È un quadro fosco, mi rendo conto, ma è necessario essere coscienti di come vanno le cose, senza fare spallucce o attardarsi in distinguo deresponsabilizzanti. Chiaramente tutto questo ha a che fare con la questione generale dell’autodeterminazione: negarlo ormai è colpevole, più che ingenuo o disinformato. Ma prima ancora ha a che fare con l’esistenza stessa di una collettività storica che possa definirsi nel suo insieme “i Sardi”.
Alle tendenze attuali, questa singolare comunità umana, abbarbicata come un lichene da millenni sulla sua isola mediterranea, corre oggi un serio rischio di estinzione. Processo per nulla inevitabile o scritto nel destino, ma già avviato. Per giunta, tutt’altro che indolore.
Non è più legittimo, nemmeno in buona fede, credere che lasciando le cose come stanno, dando credito agli stessi soggetti, abboccando alle trappole identitarie e/o sovraniste, aspettando l’intervento salvifico di chissà quale messia, o di chissà quale nuovo franchising politico italiano, le cose possano cambiare. Se va bene, cambieranno in modo che nulla cambi.
Bisogna cambiare rotta e anche in tempi relativamente rapidi. Ogni forma di resistenza virtuosa a questo stato di cose, ogni fonte di consapevolezza, ogni sforzo pratico volto a costruire alterative economiche, sociali, culturali e politiche sono non solo un’opportunità da cogliere ma direi un dovere da perseguire, se vogliamo che parole come democrazia, diritti, libertà, giustizia sociale abbiano ancora un senso in Sardegna.
Verità come pugni. E allora, cosa fare?
Sovvertire la tendenza allo spopolamento richiede provvedimenti concreti, guidati da un filo conduttore: fare delle zone interne uno spazio interessante, ove sia possibile scegliere di vivere. Questi provvedimenti non dovrebbero arrivare, in prima istanza, dal governo regionale (aspetta e spera): bisogna pensare a delle idee che possano sorgere a livello municipale, cioè a partire dal territorio, e che prosperino in virtù di una rete locale. Solo allora, in un secondo tempo, va chiesto sostegno al governo regionale. Ci vuole, a mio parere, una logica di corresponsabilità tra amministrazione pubblica e cittadinanza; sperimentare forme di collaborazione tra i due mondi, cooperative miste che leghino insieme pubblico e privato.
Vivere nelle zone interne dovrebbe essere economicamente vantaggioso. Mettere a disposizione di artigiani spazi di lavoro nei centri storici, con prezzi irrisori per i primi anni; promuovere una politica di affitti sociali significativamente bassi, rivolti a giovani coppie, per fare un altro esempio; promuovere reti di servizi tra centri diversi; offrire terreni incolti a persone che li coltivino, a cambio di entrare in una cooperativa agricola territoriale…
Per me, soprattutto, è necessario esplorare dei modi di avvalersi di una moneta complementare come il Sardex per promuovere microprogetti nelle zone interne e attivare scambi economici che gratifichino l’economia locale.
Sono solo poche idee, e il punto è quello di sommarne molte altre. Il rilancio di un progetto di autogoverno della Sardegna o nasce e cresce nei territori, o non sarà.
Concordo con quanto dici. Però c’è un livello generale e strutturale di intervento che risulta comunque necessario. Penso a certe infrastrutture. Se la Sardegna di dentro – come possiamo chiamare quella esterna alle cerchie urbane principali – avesse una rete di trasporti interni funzionale, una rete di servizi efficiente e che risponda non a pure logiche contabili ma alle esigenze dei cittadini, e la garanzia della connessione a internet capillarmente distribuita, le forze e le energie che tu evochi e che in buona misura già esistono si muoverebbero in un contesto più agevole, più interconnesso, più fertile. Invece questa base infrastrutturale strategica manca o è debole. Non a caso. La separatezza fisica tra i territori, produttrice di fenomeni particolaristici, è alimentata da queste carenze e rientra nel gioco della dipendenza.
Purtroppo quando si parla di Sardegna non possiamo dare per scontato nulla, nemmeno cose che altrove sono considerate del tutto normali, a livello amministrativo e di gestione del territorio. Di questo livello, che ci piaccia o no, deve occuparsi la politica istituzionale su un piano generale.
La quale politica va certamente sollecitata di più, non in termini corporativi o campanilistici, come spesso è avvenuto in passato, ma con una visione più ampia. In parte sta già avvenendo. Ma la politica non risponde affatto, se non con slogan, promesse, creazione di sacche clientelari e di nuove dipendenze.