Attentati alla democrazia, attestati di dipendenza

I nuovi episodi di intimidazioni violente ad amministratori locali occupano le cronache sarde e scuotono qualche coscienza. Non si tratta di niente di edificante né di anche solo lontanamente accettabile dentro comunità umane che intendano considerarsi civili.

Non è un problema di oggi, bensì una costante cronica. Ondivaga e spesso latente, numericamente rara, ma esiste ed è pericolosa.

Qualche osservatore ne approfitta per rievocare le pretese tare genetiche della nostra “razza”: questi fatti avverrebbero perché i sardi “sono fatti così”. Non sono passate troppe settimane dalle dichiarazioni di apertura dell’anno giudiziario pronunciate del procuratore generale Roberto Saieva, a proposito delle propensioni delinquenziali barbaricine (il che spesso si traduce in una sineddoche, fino ad abbracciare tutti i sardi, senza troppi riguardi).

Da quelle dichiarazioni, improvvide e irricevibili, non è stata tratta l’opportunità di discutere per bene della questione, possibilmente uscendo dagli stereotipi e dalle scappatoie retoriche. Prima si è cercato di tenerle nascoste, poi, una volte diventate di pubblico dominio, è stato fortissimo il tentativo di sminuirne la rilevanza e persino il senso (evidentissimo), sia sui mass media sia soprattutto a livello istituzionale.

A chi obiettava, dati alla mano, che la Sardegna non è un posto particolarmente violento o criminogeno si replicava che semplicemente non è vero e che la nostra indole delinquenziale è risaputa nonché confermata dai fatti. È successo anche in questo spazio, del resto, come è facile verificare.

Tuttavia i dati statistici e storici hanno l’abitudine di essere ostinati. Si possono interpretare, beninteso, anzi quasi sempre è necessario, affinché siano intellegibili, ma cambiarli radicalmente di segno no.

Oggi sul Corriere della Sera appare una infografica piuttosto interessante, relativa alla distribuzione geografica, nelle province italiane, delle varie tipologie di reato. La base statistica non è il numero effettivo di reati commessi, ma le denunce ricevute dalle autorità competenti, reato per reato. Il che pone ovviamente un problema di calibratura delle letture che se ne possono trarre. I reati più evidenti e meno camuffabili mostrano una coincidenza abbastanza stretta tra atti realmente commessi e denunce che li riguardano; quelli le cui denunce rispondono ad altre logiche o sono facilmente risolubili fuori dai percorsi giurisdizionali vedono una certa discrepanza tra reati effettivi e denunce (ci sono ricerche sociologiche che offrono il contraltare a questo tipo di rilevazioni).

La Sardegna compare in posizioni piuttosto defilate per tutte le categorie di reato, a conferma di quel che si sa da tempo. L’unica fattispecie in cui primeggia, in particolare nella provincia di Nuoro, è quella degli omicidi volontari. Reato grave, ovviamente. Ma è interessante notare come l’intera casistica ricada nella tipologia del delitto volontario per ragioni non legate a rapina, furti o altri reati. Si tratta sostanzialmente di regolamenti di conti privati, la cui incidenza sociale in realtà è molto bassa.

Al contrario, gli attentati agli amministratori locali, anche quando non abbiano conseguenze cruente, portano con sé una serie di effetti di natura politica, sociale e culturale che moltiplicano i danni di episodi evidentemente non circoscrivibili alla sfera privata dei cittadini coinvolti.

L’impressione, però, è che la politica sia alquanto disinteressata alla questione, o almeno a comprenderne la radice e trovare delle soluzioni concrete. Non un bel segnale, anche perché le vittime di questo tipo di azioni sono esponenti politici, sia pure a livello municipale. Il che non ne sminuisce affatto l’importanza, anzi ci ricorda che le vere trincee politiche – dato che di guerra sembra trattarsi – sono proprio lì, nei nostri comuni. Che nel caso della Sardegna sono per lo più piccoli o piccolissimi e ormai spesso ìmpari rispetto ai compiti a cui sono chiamati.

La risposta istituzionale è desolante. Sembra che la decisione più significativa sia di invitare per l’ennesima passerella il ministro di turno. Il che si accompagna agli sproloqui circa la natura di questi episodi, sottratti alle fattispecie mafiose solo perché in Sardegna, a causa della nostra indole ostinatamente individualista (Saieva docet), la mafia non esiste.

Però non si capisce perché di tanto in tanto qualche testa calda si prenda la briga di sparare contro la casa di un sindaco o di incendiarne la macchina o altre azioni dello stesso stampo. Davvero possiamo accettare come unica risposta che tutto dipenda dal fatto che siamo congenitamente delinquenti?

Anche qui intravedo uno degli effetti deleteri della dipendenza e della scarsissima conoscenza di noi stessi. Niente è dato sapere sul nostro conto, salvo le scempiaggini suggerite da una mitologia spicciola, fatta di idiozie da autocolonizzati o di pregiudizi brutalmente razzisti, che noi accogliamo come il Verbo e inseriamo nel nostro mito identitario, magari facendocene pure vanto, a seconda delle circostanze.

Questa ignoranza, questa noncuranza malevola, sono difficili da mandare giù se provengono dal livello politico centrale dello stato italiano, tradizionalmente distante e paternalisticamente ostile verso la Sardegna. Risultano però del tutto insopportabili da parte delle istituzioni e della politica nostrane.

Ma se andiamo a guardare a cosa si dedica la nostra politica – a parte lucrare indebitamente sui fondi dei gruppi consiliari, usare le ASL e gli enti regionali per mantenere in qualche modo fantasioso le proprie clientele ed altre meritorie attività come queste – notiamo che gran parte della sua opera è rivolta a indebolire e svuotare proprio le nostre comunità. Quelle dove poi succedono fatti cruenti o comunque violenti, sui quali la nostra politica non sa fare altro che replicare con le stupidaggini schematiche e improbabili di cui sopra.

Tagliare servizi e infrastrutture, danneggiare o distruggere il tessuto produttivo e sociale, non sono buone opzioni per garantire a chi vive in Sardegna una qualità della vità decente e per contrastare gli interessi dei prepotenti. Un tessuto sociale debole, una popolazione anziana e poco istruita, intere comunità private della linfa vitale della propria gioventù, senza le scuole, senza uffici pubblici, senza presidi sanitari, senza strutture di sostegno e promozione della cultura, saranno sempre di più facile preda dei pochi che possono permettersi di alzare la voce e, in caso di necessità, far parlare le armi.

Non ci sarà la mafia, in Sardegna, ma solo perché non ce n’è alcun bisogno. I potentati locali, quelli che impongono sempre e comunque i propri desideri, sostengono la politica al mero scopo di trarne favori, veicolando consenso ai gruppi e ai partiti che garantiscono lo status quo. È un do ut des mutualmente vantaggioso, che non è di oggi ma di sempre, da che la Sardegna è uscita dal feudalesimo, non per virtù propria ma per scelte calate dall’alto, ed è trionfalmente entrata nella Modernità (all’italiana).

Tali gruppi di potere rappresentano una forma di controllo del territorio non meno efficace delle “famiglie” e delle ‘ndrine, solo un po’ più sofisticata. Con questo problema, la nostra politica, e in primis la giunta regionale (quella attuale come la precedente), non vuole e non può fare veramente i conti, non fino in fondo almeno. È una parte del “gioco del trono”, in Sardegna, ed è strettamente legata alla condizione subalterna e dipendente a cui dobbiamo essere assoggettati (per il nostro bene, pensa e dice più di qualcuno, nella nostra classe dirigente).

Gli attentati agli amministratori locali sono quanto di più deleterio e odioso possa colpire le nostre comunità. Sono un sintomo doloroso di debolezza civica e di soggezione alla prepotenza. In questo caso a livello locale, ma alla fin fine propedeutica alla prepotenza più generalizzata fatta di impoverimento materiale e demografico, inquinamento, occupazione militare, servitù di ogni genere che ci stanno distruggendo a un livello più generale.

Situazione a cui però la nostra politica sa rispondere solo con l’accentramento spinto di ogni risorsa nelle mani di pochi. In questo, precorritrice della prossima riforma costituzionale italiana, detto per inciso ma non troppo; riforma da contrastare non meno in Sardegna che altrove, anzi direi di più in Sardegna che altrove. Anche e tanto più alla luce dei fatti di cronaca di questi giorni.

Sono tanti i fattori in gioco: il reale esercizio della democrazia; la rappresentanza delle istanze sociali e ideali e dei territori nelle istituzioni; la distribuzione di risorse e servizi; le concrete possibilità di autonomie reali; la giustizia sociale e la libertà sostanziale delle persone e delle comunità. Tutti problemi che non possono trovare positiva risoluzione dentro una deriva di dipendenza e debolezza politica crescenti.

Il richiamo generico alla legalità non serve a nulla, se la legalità non è vincolata alla giustizia sociale, al pieno esercizio dei diritti civili e al libero dispiegamento delle possibilità di vita delle persone. Una nuova visita di qualche ministro o un nuovo tavolo di discussione istituzionale serviranno ancora meno, così come l’aumento del contingente – già sproporzionato – delle forze dell’ordine nell’isola, ma anzi certificheranno ulteriormente tale situazione patologica. Non è tempo di accomodamenti. Serve una rivoluzione democratica e culturale. A cominciare dalla nostre comunità locali.

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