Inizia settembre, il capodanno sardo, e inizia ufficialmente il nuovo anno scolastico. Non è mai stato troppo sereno, negli ultimi anni, ma quest’anno pare esserlo ancor meno. L’ennesima stretta autoritaria voluta dal governo italiano con la sua “Buona scuola” insiste su una situazione già indebolita, esito non casuale di un disegno di depotenziamento culturale in corso in Italia da tre decenni, di cui lo smantellamento della scuola pubblica e democratica rimane un tassello decisivo.
Una delle questioni più dibattute e più sensibili è quella dell’assegnazione delle cattedre, specialmente ai tanti precari in fase di assunzione definitiva. Benché non sia forse la misura peggiore del nuovo intervento legislativo sulla scuola, essa tocca direttamente la vita dei docenti. Si capiscono meglio dunque l’animazione e la mobilitazione che ha suscitato. Ma al di là del loro contenuto specifico – pure meritevole di attenzione – le contestazioni e le manifestazioni in proposito (alcune in corso proprio oggi) segnalano un fallimento più generale, plurimo e a vario livello.
Intanto è evidente che la difficoltà ad accettare i trasferimenti da parte delle migliaia di docenti precari costretti a emigrare è un sintomo della mancata integrazione nazionale in Italia, a dispetto della retorica patriottarda incombente. L’Italia esiste, sia pure in una condizione instabile, gli Italiani invece probabilmente non esistono se non parzialmente. Esistono appartenenze diverse, stratificate certo, ma che spesso si arrestano al confine del proprio territorio storico, al limite della isoglossa più prossima. Perché anche il fattore linguistico (a sua volta spia di fattori storici più ampi e complessi) ha il suo peso, nell’identificazione delle persone, delle famiglie, delle comunità.
Un altro fallimento è quello dell’integrazione tra le varie parti dello stato. Anche in questa circostanza si conferma la tendenza all’impoverimento (economico, sociale e culturale) del Meridione italiano e della Sardegna a vantaggio del Settentrione. Processo mai arrestatosi ed oggi in fase di accelerazione, come attestano anche i dati relativi all’università e alla ricerca.
Per venire alla Sardegna, il fallimento è a sua volta molteplice e con molti genitori. Nel corso dei decenni la classe intellettuale sarda non è stata in grado di costruire un immaginario, un armamentario concettuale e narrativo all’altezza delle sfide storiche. La nostra classe politica, da sempre adagiata nel suo ruolo di intermediario, ha subito passivamente – quando non promosso attivamente – ogni possibile misura volta all’impoverimento materiale, culturale e demografico dell’isola. La scuola sarda non si è distinta, in tutto questo, per autonomia e capacità di costruire una cittadinanza diversa, più consapevole, meno subalterna. La sua organicità al sistema culturale italiano è palese, pur considerando le meritevoli eccezioni; la sua fedeltà sindacale ed elettorale in prevalenza ai partiti italiani e nello specifico a quelli di centro e di sinistra (o ex sinistra) è un dato storico acquisito.
In generale, gli insegnanti sardi sono stati a lungo i più attenti e scrupolosi esecutori del processo di acculturazione forzata dei sardi, i garanti della nostra condizione minorizzata. Per un/una insegnante che faceva lo sforzo di inserire elementi culturali, storici, linguistici sardi nei suoi corsi ce ne sono sempre stati altri dieci che hanno sistematicamente frustrato ogni segno di appartenenza diversa da quella imposta a livello ministeriale (quindi pesantemente ideologizzata in termini di centralismo, nazionalismo, retorica risorgimentalista, classicocentrismo). I nostri ragazzi e noi stessi abbiamo ingoiato tutta la malloppa su Muzio Scevola, Giulio Cesare, Costantino, papi di ogni risma, Guelfi e Ghibellini, Pier Capponi, Ettore Fieramosca, Ciro Menotti, Mazzini, Garibaldi & Cavour, Enrico Toti, “Italiani brava gente”, ecc. e siamo generalmente usciti dalla scuola senza avere la benché minima idea su nuraghi, Sardegna antica, civiltà giudicale, Sardegna spagnola, Sarda Rivoluzione, Sardegna contemporanea, lingua, arte, musica e letteratura sarde, niente di niente. Il che è perfettamente comprensibile, dato che si tratta pur sempre di scuola italiana. Anche qui – o soprattutto qui – sta il nodo irrisolto della nostra appartenenza scissa e schizoide a due sfere storico-culturali contigue ma non sovrapponibili.
Non so se e in che misura questo processo di acculturazione messo in atto per prima dalla scuola in Sardegna sia ancora in corso. Vedendo con quanta facilità molti istituti si prestino alle manifestazioni patriottiche a base di militari, inni e bandiere tricolori il dubbio rimane (il pensiero corre con un brivido alle celebrazioni del centocinquantennale dell’Italia unita). Qualche effetto lo ha prodotto di sicuro. Oggi possiamo sostenere di non essere italiani e argomentare diffusamente questa asserzione, ma è indubbio che un po’ di “italianità” (qualsiasi cosa essa sia) negli ultimi sessant’anni l’abbiamo interiorizzata.
Certo è che questo processo rappresenta ancora un problema. Non bisogna eluderlo e anzi andrebbe affrontato con lucidità e lungimiranza, in primis proprio dalla stessa classe docente sarda, senza trincerarsi in difese del proprio status di dipendenti statali, che non per forza impone di aderire a una visione politica (e di politica culturale) centralista e ostile alla incomprimibile appartenenza sarda (che non è una malattia). Appartenenza che per lo più è anche quella degli stessi insegnanti isolani.
Oggi tocca a loro subire misure sgradite da parte di una classe politica a cui troppo credito è stato dato, nel corso del tempo. Per lealtà istituzionale, per pudore civico, per conformismo. Troppo facile rievocare in proposito la famosa poesia attribuita a Bertold Brecht: alla fine vengono sempre a prendere anche te, e ti trovi da solo a difenderti.
Naturalmente la difficoltà degli insegnanti precari, magari in età ormai avanzata e/o con famiglia e figli, costretti a trasferirsi in realtà estranee e distanti (e non solo in termini geografici), non è da liquidare con fastidio, come un capriccio corporativo. Il problema è concreto e ne va rispettata la componente umana e sociale. Tuttavia, presentare il problema come una “deportazione”, come è stato fatto a livello sindacale, è un errore grossolano ed anche una caduta di stile inaccettabile, provenendo come proviene da un ambito nel quale l’importanza delle parole dovrebbe essere tenuta ben presente.
Allo stesso modo sono da rifiutare in blocco alcune prese di posizione che suonano nazionaliste fuori tempo massimo, tipo “la scuola sarda agli insegnanti sardi” o altre amenità del genere. Il fatto che siano propalate tra gli altri anche da esponenti politici di destra, in un recente passato tutt’altro che ostili alle varie “riforme” Moratti o Gelmini, non depone a loro favore. Nè il discorso può fondarsi puramente e semplicemente sull’appartenenza etnica. Io sarei felicissimo che nella scuola sarda ci fossero insegnanti stranieri, che siano italiani o spagnoli o greci o nigeriani, magari dotati di patentino per l’insegnamento delle diverse materie in sardo. La riflessione deve restare centrata sul piano generale e strutturale dei problemi della scuola in Sardegna, sulle lacune anche di tipo legislativo che ne debilitano la posizione nel contesto italiano, sulle gravissime responsabilità politiche di molti che oggi esprimono una sospettissima solidarietà verso il corpo insegnante.
È difficile essere franchi, in questa faccenda, senza risultare anche sgradevoli. È comprensibile che in tanti si sentano offesi da prese di posizione critiche nei confronti di una categoria fin troppo sottovalutata e bistrattata, specie negli ultimi anni. È doloroso esercitare il proprio diritto di critica civile e politica verso una categoria così rilevante e così preziosa, cui affidiamo la sorte dei nostri figli e dalla quale tutti noi siamo stati educati e fatti crescere come persone e come cittadini. Nondimeno non se ne può fare a meno.
L’auspicio è che questo frangente serva a far maturare al mondo della scuola in Sardegna (ma anche in Italia, per quel che vale in quel contesto) una maggiore consapevolezza del suo ruolo pubblico, non solo verso i ragazzi ma anche verso la società nel suo insieme. E che certe autodifese in odore di corporativismo, ora che la questione dell’appartenenza sarda emerge con tanta forza, lascino il posto a una riflessione più onesta e laica sulla condizione della scuola pubblica nell’isola, sul suo ruolo attuale e futuro e sul suo inevitabile collegamento con le tante questioni strategiche aperte (analfabetismo funzionale, dispersione scolastica, spopolamento, questione linguistica, ma anche land grabbing e nuove forme di subalternità economica e politica) e in definitiva con la sorte complessiva dei Sardi e della Sardegna.