Le cronache riportano di festeggiamenti in piazza da parte di alcuni sassaresi per la retrocessione del Cagliari calcio in serie B. Benché a molti questa manifestazione di campanilismo sia sembrata incongrua e di cattivo gusto, o addirittura politicamente significativa, ritengo che si sia trattato di un episodio del tutto innocuo e abbastanza scontato.
La rivalità tra Sassari e Cagliari è plurisecolare e lo spiritaccio sassarese è universalmente noto. Mi sarei meravigliato se non fosse successo, insomma. In più mettiamoci anche che raramente una retrocessione è stata più meritata (solo quella del 1999-2000, sotto il padronato di Massimo Cellino, può reggere il confronto), e il tasso di fastidio tende improvvisamente a scemare, fino allo zero.
Naturalmente gli aspetti sportivi, in questa faccenda, sono i meno rilevanti. Quella che si evoca in proposito è l’eterna maledizione dei “pocos, locos y mal unidos” e dell’invidia. Il perculamento sportivo viene assunto come sintomo di un male più profondo, atavico e tutto nostro.
Ho speso qualche parola, sia in questo blog sia in Tutto quello che sai sulla Sardegna è falso, per analizzare e stigmatizzare questo vezzo di attribuirci come tipici dei tratti culturali che invece condividiamo con la nostra intera specie. Una forma di presunzione, se vogliamo, che però non ha alcun fondamento. Non ci tornerò su.
Andrebbe caso mai affrontato il tema del particolarismo e della ristrettezza di orizzonte mostrata da molti sardi, sfuggendo possibilmente alla facile tentazione dello stereotipo deresponsabilizzante e contestualizzando fenomeni e circostanze.
In questo senso, più che gli sfottò dei sassaresi verso i tifosi del Cagliari (che per altro non coincidono affatto con i cittadini di Cagliari, come i torresini fanno finta di non sapere), mi sembra più significativa l’attitudine con cui moltissimi sardi si avvicinano alle imminenti elezioni amministrative. Su questo terreno, più che su quello del tifo sportivo (fenomeno irrazionale e sfuggente alle classificazioni quant’altri mai) si può tentare un ragionamento sugli egoismi e sulla ristrettezza di vedute di una buona parte della nostra gente.
Sfido chiunque a provare che una frazione consistente del voto non si esprimerà solo ed esclusivamente sulla base di favori personali, clientelismi, conoscenza diretta, appartenenza di clan o di gruppo di interesse. La retorica che descrive la politica come una cosa sporca e che si fonda sull’assunto che “tanto tutti sono uguali” è usata precisamente dagli stessi che poi decidono di votare uno o l’atro dei candidati esclusivamente secondo criteri di mero calcolo egoistico. L’altro versante della questione è quello degli astenuti, che però spesso si astengono non per scelta consapevole e per testimonianza politica, ma solo per mancanza di vantaggi diretti dal voto e/o per pura ignoranza.
Alla fine il virus pandemico dell’antipolitica ottiene il risultato – controdeduttivo se le argomentazioni di chi si scaglia contro la politica fossero sensate – di rafforzare quel sistema o quella “casta” contro cui ci si scaglia così volentieri.
L’antipolitica non è certo quella di chi fa una critica radicale al vigente sistema di potere, proponendo un’alternativa. L’antipolitica è prima di tutto quella della nostra classe dirigente (definiamola così, per comodità), che da tempo prospera sulla mancanza di consapevolezza dell’elettorato, sui legami clientelari, sul particolarismo eretto a sistema, sulla mancanza di un orizzonte di valori e di interessi che non sia puramente ombelicale. La stessa retorica dei “pocos, locos y mal unidos” è alimentata e usata a piene mani proprio da quel grumo di interessi e di posizioni dominanti che si avvantaggia direttamente dallo status quo.
Così è molto facile fare in modo che niente cambi, o che, se qualcosa cambia, in realtà non cambi nulla. Pensiamo all’assurdità a cui porta il particolarismo promosso e foraggiato da chi detiene posizioni di potere in un caso specifico, quello della questione linguistica. Tutti sappiamo – o dovremmo sapere – che uno dei fattori determinanti della salvezza e della emancipazione della lingua sarda è la sua standardizzazione e la sua diffusione tramite le agenzie formative principali e i mass media.
Ebbene, proprio su questo terreno fin qui ha avuto un compito estremamente comodo chi è contrario a tale processo di formalizzazione e di unificazione. Dal mancato compimento di tale processo si traggono poi considerazioni strumentali a favore dello stereotipo della inevitabile dialettizzazione del sardo o della sua inutilità pratica o, in generale, dell’incapacità dei Sardi – in quanto tali – di fare qualcosa insieme nell’interesse generale. Cioè, chi propala la tossina alimenta artatamente il contagio e ne trae vantaggio.
È un esempio abbastanza clamoroso di quanto sia facile disarticolare nel profondo la nostra collettività storica, pervadendola di divisioni spesso fittizie e controproducenti per coloro stessi che poi se ne fanno paladini, governando lo status quo tramite l’imposizione di poche, mirate cornici concettuali debilitanti, facilmente veicolate attraverso il controllo delle istituzioni politiche e culturali, tramite la gestione dell’organizzazione del sapere ufficiale, tramite le possibilità clientelari. È l’egemonia culturale, bellezza!
Qui c’è un bel problema da risolvere, molto più grosso delle rivalità sportive o di campanile. Un problema che ha le sue radici storiche nel collasso degli orizzonti di riferimento delle nostre comunità e dentro le nostre comunità, avvenuto in epoca moderna e contemporanea. Su questo occorre una presa di coscienza da parte della nostra società civile e della nostra classe intellettuale (almeno di quella non compromessa e organica al sistema di dominio vigente). Bisogna essere coscienti di tale questione e chiamarsi fuori dalle facili scappatoie o dall’angolo confortevole rappresentato dal senso comune e dai cliché.
Non c’è nulla di atavico o di innato nel localismo o nell’egoismo che spesso ci pare contraddistinguere i Sardi. Si tratta di un esito storico costruito in decenni o addirittura secoli di pratiche di potere, imposto tramite scelte precise, vantaggiose per una minoranza e dannose per tutti gli altri, sia pure con diverse gradazioni. In fondo in queste condizioni è facile deviare il malcontento verso bersagli di comodo, che si tratti del tifoso di un’altra squadra o dell’immigrato o dell’Europa (qualsiasi cosa significhi) o dei “politici” (genericamente intesi).
Su queste trovate in fondo grossolane, ma efficaci, si regge un intero sistema di dominio, i cui primi beneficiari non sono ostili stranieri desiderosi di sottometterci, o chissà quale congrega misteriosa che agisce nell’ombra, ma altri sardi in carne, ossa e interessi materiali. E non è certo la politica ad essere fonte di tale situazione, quanto la sua mancanza.
In definitiva, da tifoso del Cagliari sono disposto a mandare giù i festeggiamenti in piazza dei sassaresi per la retrocessione della mia squadra del cuore, a patto che non vengano enfatizzati come segni di un problema che ha altre dimensioni ed anche altri esiti, e che servano non come arma di distrazione di massa ma come stimolo alla riflessione e all’assunzione di responsabilità di tutti sulle questioni fondamentali a cui è necessario dedicarci.