Lezioni da imparare

Un fantasma si aggira per l’Europa, è il fantasma del populismo. Sotto questa etichetta di comodo finiscono un po’ tutti i risultati elettorali che rompono lo status quo dell’establishment continentale, dalla vittoria di Syriza in Grecia, al successo dei nazionalisti polacchi a quello di Podemos e analoghi in Spagna.

Cosa sia questo populismo, altrimenti detto “antipolitica”, non è affatto chiaro. In effetti si tratta di una categoria concettuale forgiata nell’ambito dei mass media mainstream e utilizzata a piene mani dai leader dei partiti dominanti, con chiara accezione dispregiativa. Se poi è un populismo di sinistra, apriti cielo! Come a dire: questi qui raccontano panzane solo per carpire voti, ma è gente pericolosa, incapace, niente a che fare con la competenza dei politici tradizionali e dei tecnici delle istituzioni europee.

Da notare che tale posizione è sostenuta da gente alla Renzi o corrispettivi stranieri e dai loro reggicoda. Una bella faccia tosta. Faccia tosta che serve a mascherare la tragica consistenza di una lotta di classe combattuta senza lesinare sui mezzi a disposizione, avviata quarant’anni fa dalle elite occidentali e dai loro complici nei paesi amici, il cui obiettivo è accaparrarsi il più in fretta possibile tutte le risorse e utilizzare l’umanità che ne è priva come fonte di lavoro servile o come zavorra da mollare all’occorrenza.

Inevitabile che per ottenere tale risultato sia necessario appropriarsi a scopo di lucro dei beni comuni (dal territorio, al sistema sanitario, dalle infrastrutture strategiche ai beni culturali, ai servizi sociali e alla scuola), eliminare o limitare sensibilmente la sfera di diritti conquistata dopo il secondo conflitto mondiale (si vedano in Italia i vari provvedimenti alla Italicum, Jobs Act e Buona Scuola), frustrare fino ad escluderle dal discorso pubblico le aspirazioni di giustizia sociale, di libertà e di eguaglianza che hanno innervato tutta l’epoca contemporanea.

Quel che si aggira per l’Europa, dunque, non è un fantasma ma è una risposta, varia, articolata, nient’affatto uniforme ma tutt’altro che impolitica, a quel che succede in ambito economico, sociale e istituzionale. Ed è, almeno sul versante di sinistra e in gran parte del fronte indipendentista europeo, una risposta vivace, fantasiosa, spesso costruttiva. Il fatto che contenda il terreno ai demagoghi xenofobi e reazionari dovrebbe essere un’ottima notizia, invece sembra aggiungere motivi di disagio per chi comanda il vapore. Il che è estremamente istruttivo, se ci pensiamo un attimo.

In più ci si mettono anche quei matti degli Irlandesi col loro referendum favorevole ai matrimoni omoaffettivi. Altra pietra dello scandalo. Persino la chiesa cattolica deve fare buon viso a cattivo gioco, spiazzando così la schiera di integralisti ipocriti, di atei devoti e di oscurantisti ottusi che infestano il Vecchio Continente.

La diversità europea mostra in questi casi tutta la sua efficacia nel contrastare i tentativi autoritari. È un fatto già constatato (penso a quel che scriveva qualche anno fa Jared Diamond) ma molto sottovalutato: le differenze sono una fonte di emancipazione. L’offerta di soluzioni diverse deve essere grande, per poter rispondere efficacemente alle spinte della storia. Il sogno di un’Europa uniforme, piattamente conforme a un solo modello sociale e politico, estranea o ostile alle peculiarità dei suoi stessi popoli, sarà anche il sogno dei tecnocrati del grande capitale che oggi dominano le nostre vite, ma non è per forza il migliore dei mondi possibili.

Gli Europei hanno molto da farsi perdonare dalle altre popolazioni della Terra, ma è anche vero che le loro differenze, il loro spirito di emulazione, la possibilità di avere così tanti modelli possibili in uno spazio geografico tutto sommato così piccolo, hanno consentito di creare cultura e bellezza, di conquistare diritti e pace, sia pure al prezzo di conflitti tremendi. Integrazione europea non deve per forza significare riduzione delle diversità, né perdita di ricchezza culturale e politica.

Per fortuna il mondo è troppo complesso e difficile da dominare anche per i potentissimi padroni dei nostri tempi, esponenti di quella minoranza a cui appartiene la maggioranza delle risorse economiche, che detiene il monopolio delle informazioni strategiche e che controlla i mass media. Hanno voglia di raccontarcela! Spostare l’attenzione dei cittadini, ostruire il flusso di informazioni con false notizie, manipolare spudoratamente fatti e circostanze non è sufficiente a controllare ogni possibile variabile storica.

Dovrebbe essere consolante, per chi abbia intenzione di cambiare le cose. Invece a volte si perde di vista la realtà e si cede troppo facilmente alle trappole che, tramite i mass media principali, vengono confezionate ad arte per orientare i giudizi e prima ancora le percezioni dei cittadini.

Ci mettiamo tutti del nostro, beninteso. In Sardegna lo sport preferito è interpretare i fatti internazionali alla luce di poche e imprecise informazioni, applicandovi sopra cornici tutte nostre, non compatibili con la realtà che si pretende di analizzare e di rendere intellegibile.

È piuttosto ridicolo, per esempio, che a proposito del risultato delle elezioni a Barcellona la sola preoccupazione di molti sia il tasso di indipendentismo o di “unionismo” della neo-sindaca della capitale catalana. Un problema fondamentale, in effetti. Solo quei fessacchiotti dei barcellonesi non sono stati in grado di coglierlo in tutta la sua portata. Dovevamo mandare una delegazione di politologi nostrani a istruirli convenientemente.

Sarebbe utile invece cercare di trarre da quel che succede altrove qualche lezione pragmatica per il nostro caso. Per esempio, che bisogna prima di tutto sapere dove si vive e quali dinamiche storiche articolino la nostra vita collettiva. Dopo di che si può anche pensare di organizzarsi, di mobilitare le forze che emergono dalla società e proporsi per rappresentarle nel gioco elettorale. Ma sempre standoci dentro, partecipando alle vertenze e alle lotte, cogliendo le linee di faglia della nostra vita associata, i contenuti concreti della nostra dialettica sociale, restando attaccati alla realtà in modo fecondo e fantasioso.

In Sardegna invece non sappiamo niente. Sappiamo poco del mondo e sappiamo ancor meno di noi stessi. Ci affidiamo a dati raccogliticci, spesso ricavati da fonti improprie o non nostre e poi male assemblati, crediamo alle panzane sfacciate di chi ci governa oppure le contestiamo a botte di slogan stereotipati. Di fatto non sappiamo mai bene come stiano le cose. Però ci divertiamo un mondo a chiacchierare. Pigrizia e amore per il pettegolezzo ci denotano molto più delle presunte magagne ataviche che di solito amiamo attribuirci, al solo scopo di non assumerci alcuna responsabilità.

È un problema gravoso, di cui non si può nemmeno affidare la risoluzione al nostro ceto intellettuale accademico, per lo più del tutto organico al sistema di dominio vigente, né a una classe dirigente che fin qui non è mai esistita.

Così, mentre si intensifica la lotta di classe contro le popolazioni, i lavoratori, le minoranze, mentre procede senza ostacoli il deterioramento della biosfera, facciamo fatica a raccapezzarci. Non va bene, è un lusso che non possiamo permetterci. La guerra incombe e la nostra condizione di dipendenza anche per i beni di prima necessità non è precisamente la migliore posizione in cui trovarsi, quando le cose si metteranno al peggio.

Non siamo all’anno zero, però. Comitati di cittadini, intere comunità locali, alcune categorie produttive, una parte del mondo della cultura e dell’informazione sembrano aver intrapreso la strada dell’assunzione di responsabilità. Non sono rappresentati nelle istituzioni, specie in quella regionale (anche per via di una normativa elettorale scandalosa), ma non è vero che non abbiano alcun peso. È un segnale di dinamismo che va colto. Siamo dentro la Storia, con tutti i pro e i contro che questo comporta. Bisogna scegliere se starci da soggetti o da oggetti in mani altrui.

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