Sull’Unione di oggi appare un sorprendente appello al nuovo presidente della Regione sarda, da parte di un noto storico, il professor Francesco Cesare Casula. Sorprendente, perché non è usuale che ci si rivolga a un governo “regionale” per perorare la promozione dello studio della storia. Ma questo se vogliamo è il meno. Ciò che colpisce dell’appello del prof. Casula è il contenuto. Si richiede infatti al presidente neoeletto di farsi carico non solo della diffusione degli studi storici, ma anche di una certa impostazione dei medesimi.
A chi non conoscesse il lavoro di Francesco Cesare Casula e le sue tesi (quelle condensate nel suo appello odierno), per farsene un’idea basterà leggere quanto segue, tratto dall’introduzione di una sua pubblicazione abbastanza nota, La Storia di Sardegna (1994):
Le potenzialità di simili affermazioni sono, per noi, politicamente e socialmente intuibili sia nella contrattazione col governo centrale che nella comparazione col resto della Nazione, perché rivoluzionano la vecchia filosofia sardista della diversità dei Sardi e ci sganciano dalla riduttiva “questione meridionale” facendoci guadagnare quella specialità che pochi spiegano e, quindi, strumentalizzano. L’essere considerati, anche solo a livello scolastico, la regione d’Italia dove nacque e si sviluppò quel regno che ha dato origine all’Italia stessa, equivale ad eliminare o, comunque, a stemperare con l’implicito diritto alla continuità territoriale quel dualismo di tipo coloniale dello scontro tra ordinamenti esterni dominanti e cultura interna soggetta che condiziona lo spirito autonomistico dei Sardi fino a spingerli, talvolta, a ideologie radicali come l’indipendentismo o, addirittura, il separatismo.
Difficile condensare tante forzature di metodo e di merito in così poche righe. Una prestazione retorica degna di miglior causa, a cui però ho già dedicato qualche obiezione, che non ripeterò in questa sede. Merita invece qualche considerazione l’aspettativa, che evidentemente al prof. Casula sembra legittima, di usare la storia come instrumentum regni, di fare dello studio storico un elemento di manipolazione delle coscienze (dei ragazzi in età scolare) per raggiungere obiettivi politici. Si dirà: bella scoperta! non è sempre stato così? la Storia non è sempre scritta dal vincitore a proprio uso e consumo? Be’, sì e no. Non è vero che le cose stiano proprio così e non è nemmeno vero che il “vincitore” abbia sempre così tanta mano libera nel piegare il racconto dei fatti al proprio tornaconto politico, a meno che non lo soccorra la complicità degli sconfitti (il che accade, intendiamoci).
Del resto in Sardegna di queste derive manipolatorie delle costruzioni mitologiche, fondate su elementi storici giustapposti ad arte, ne sappiamo qualcosa. Siamo un clamoroso caso di studio, anzi, se proprio vogliamo mettere l’accento su questo aspetto. Tuttavia cito questo caso di oggi perché mi ha fatto tornare in mente alcune parole di un altro storico sardo, certamente non meno noto e forse più influente ancora di Casula medesimo: Girolamo Sotgiu. Nel suo Storia della Sardegna sabauda (1984; per altro, lettura fortemente consigliata), subito prima di narrare la cacciata dei piemontesi e la fase più acuta della Rivoluzione sarda (anni 1794-6), Sotgiu apre un curioso inciso, che vale la pena di rileggere:
Bisogna evitare, nel rispondere a questi interrogativi [sulle vere intenzioni di Giovanni Maria Angioy e sul senso del suo disegno rivoluzionario, Nota mia], di proiettare nel passato problematiche che sono proprie del nostro tempo, e di ridurre, perciò entro schemi precostituiti una realtà che si sviluppava secondo linee non del tutto prevedibili, tanto più che il rifiorire, oggi, in certi settori dell’opinione pubblica, ma anche a livello colto, di tendenze fortemente critiche nei confronti dell’organizzazione politica dello Stato unitario, potrebbe indurre a riproporre come attuali polemiche […] che hanno avuto significato in quella fase del risorgimento nella quale era centrale la lotta per l’indipendenza e la conquista di un regime costituzionale. (pp.162-3)
Anche a Sotgiu pareva pericoloso lasciare mano libera alle interpretazioni di un’opinione pubblica che egli (che scriveva queste parole in pieno “vento sardista”) vedeva troppo permeabile a istanze di tipo indipendentista. È un inciso decisamente criptico per qualsiasi lettore che non abbia ben presenti contesto di riferimento e connotazioni implicite, e risulta particolarmente stravagante nella trattazione, di solito sobria, di Sotgiu stesso.
Il confronto tra i due passi, espressione della visione politica di due storici, uno conservatore (Casula) l’altro di estrazione comunista (Sotgiu), colpisce per la comune idiosincrasia verso le istanze di emancipazione storica dei sardi. L’invito, fatto in termini diversi da entrambi, a fare della storia uno strumento di controllo dell’opinione pubblica o attraverso l’imposizione di una visuale precostituita o per sottrazione di senso alle stesse vicende storiche raccontate, ci offre una dimostrazione concreta di quanto sia importante studiare la storia e di quanto sia pericoloso farne un uso strumentale.
Non può essere la politica a stabilire quanta e quale storia insegnare. Non può essere la preoccupazione di preservare lo status quo (questo sì, caro a entrambi gli storici citati) a far decidere se e come i sardi debbano conoscere il proprio passato (e dunque il proprio presente).
Della conoscenza della nostra storia abbiamo bisogno, questo è il fatto. Il problema non è che storia conosciamo e come, ma che non la conosciamo affatto. E quella poca che conosciamo è troppo spesso piegata a strumento di consolidamento dell’assetto di potere vigente. Gli schemi precostituiti stigmatizzati da Sotgiu sono precisamente quelli dentro i quali da troppo tempo è stata costretta e soffocata la storiografia sarda. Una storiografia provinciale, autoreferenziale, ostile al confronto internazionale e tributaria della storiografia dominante italiana (di per sé giacobina e nazionalista, tanto nel suo versante conservatore, quanto in quello marxista).
In chiusura, mi sento di esprimere anche un’ulteriore preoccupazione. La Sardegna è stata consegnata dalle ultime elezioni al nuovo regime italiano in fase di edificazione. Luogo di sperimentazione politica (con il successo – per chi l’ha voluta – della legge elettorale regionale iper fascista) e al contempo vittima sacrificale dell’ennesima incarnazione della biografia nazionale italiana (vedi Gobetti), l’isola si trova oggi in prossimità di una accelerazione dei suoi processi storici.
Essi possono condurre o verso un orizzonte di emancipazione collettiva e di riscatto materiale e morale, ovvero verso la decadenza e l’impoverimento economico, culturale e demografico definitivo. Appellarsi alle forze che si accingono a governare questa fase come se avessero a cuore la prima possibilità sarebbe a dir poco ingenuo. E infatti non è sicuramente quello che si aspetta il prof. Casula. Per questo ci sono vaghe possibilità che venga ascoltato.
La richiesta di un impegno politico nella acculturazione dipendente e dipendentista delle nuove generazioni sarde ha una certa probabilità di essere soddisfatta. E questo forse accontenterebbe tanto Girolamo Sotgiu, se fosse ancora vivo, quanto lo schizzinoso ambito accademico sardo nel suo complesso (una componente del quale si sta oggi insediando al potere in Sardegna, come garante della conservazione). Di sicuro però non risponde affatto alle nostre più stringenti necessità, né a quelle culturali, di recupero e condivisione di una memoria collettiva sana, matura (non depressa né esaltata), né a quelle materiali e politiche.
Non è come figli di una storia minorizzata che acquisiremo una soggettività collettiva finalmente dispiegata, o potremo imporre il rispetto dei nostri diritti, o esercitare la nostra responsabilità su noi stessi e il nostro territorio. Ma questo, a chi importa?